Dal bosone di Higgs al coronavirus: il valore della cooperazione europea nella ricerca
La scienza e la ricerca sono campi fondamentali per costruire il futuro del Paese, e questi mesi di pandemia ce lo stanno, giorno dopo giorno, confermando. La necessità di un’agenda strategica per la ricerca e la scienza a livello italiano ed europeo si fa sempre più impellente, e del tema oggi abbiamo voluto discutere con un ospite d’eccezione, Valerio Grassi. Milanese classe 1969, laureato in Fisica all’Università degli Studi di Milano, ha frequentato anche il Corso di Perfezionamento in Fisica Nucleare e Subnucleare ed è stato Senior Researcher presso la State Universityof New York a Stony Brook, ed è stato basato al CERN di Ginevra dal novembre 2009 sino a marzo 2014. In quest’ultimo contesto ha partecipato al team che ha completato con successo la ricerca del celebre bosone di Higgs.
Professor Grassi, in tempo di pandemia la ricerca scientifica torna a diventare tema di grande attualità mediatica ed è oggetto di forti attenzioni. Lei fu tra i protagonisti di una corsa scientifica altrettanto affascinante di quella odierna al vaccino per il coronavirus, quella per trovare il bosone di Higgs. Perché, ai tempi, ritiene che la corsa alla “particella di Dio” attirò su di sé così tanta attenzione nell’opinione pubblica?
In primo luogo, scherzando, vorrei chiedermi di che Dio si tratta. Nel discorso sul bosone tendo sempre a evitare qualsiasi riferimento di tipo religioso: il nome “particella di Dio” è affascinante ma in realtà è un rifacimento della contrazione dell’espressione inglese Goddam Particle (“particella maledetta”), coniato dal fisico e Nobel Leon Lederman per definire la difficoltà nell’individuarla, in The God Particle, titolo di un suo libro del 1993 che ebbe grande fortuna. Certamente fu una ricerca entusiasmante, alla scoperta delle fondamenta ultime e delle origini del nostro universo. Lungamente cercata, fu prodotta dalla creazione di un “Big Bang in laboratorio” al Large Hadron Collider del Cern di Ginevra. La sua scoperta fu una vera e propria svolta epocale.
Una svolta a cui, molto spesso lo si dimentica, parteciparono anche diversi studiosi italiani…
Si, per quanto ciò segnali una problematica interna al nostro sistema formativo. Io ho calcolato che formare un fisico costi allo Stato italiano tra i 400 e i 500mila euro, inclusi i costi per farlo studiare, per gestire i laboratori, per finanziare la sua ricerca, i suoi viaggi, il suo (misero) stipendio e via dicendo. Molto spesso, per scelte miopi e scriteriate, poi queste competenze vengono regalate a attori esteri. Nel mio caso, ad esempio, gli Stati Uniti, Paese per cui ero affiliato nella ricerca al Cern (ero senior researcher per NY State). La ricchezza di ingegni italiani al Cern è da questo punto di vista anche l’emblema del fallimento della nostra politica scientifica. La stessa Gianotti, l’attuale Direttore generale, è di origine italiana e inizialmente formatasi a Milano, ma ha condotto al CERN la intera carriera scientifica.
Tocca un tema interessante: esiste una anche minima bozza di “politica” per la scienza e la ricerca nel nostro Paese? Abbiamo grandi eccellenze (Enea, Cineca etc.) ma non sappiamo farne sistema.
La risposta mi sembra negativa. Manca una regia comune, e la ricerca molto spesso è sottoposta a regole baronali, rispetto a Paesi come Francia e Stati Uniti. Ma del resto negli Stati Uniti Lederman fu scelto da Bill Clinton come suo consigliere scientifico, mentre con tutto il rispetto chi decide da noi in materia di politiche scientifiche è stato ad esempio un ex commesso di negozio di animali con solo il titolo di scuola media inferiore, Sergio Battelli del Movimento Cinque Stelle, assieme a altri personaggi improvvisati. Manca un coordinamento forte, con serie priorità governative e finanziamenti accordati solo ai progetti più promettenti utilizzando i soldi dei contribuenti. Vanno scelti con cura i filoni di ricerca di riferimento.
Ora più che mai, quindi, la spinta alla ricerca è una questione politica?
Si, e devo dire che non c’è scienza con ricadute politiche maggiori della fisica: pensiamo agli effetti geopolitici della creazione della prima bomba atomica o dello sviluppo di Internet a partire della ricerca sulle fibre ottiche. La fisica cambia costantemente il nostro mondo come motore d’innovazione. La ricerca scientifica deve adesso privilegiare comparti fortemente applicativi, pensando all’immediato e alle generazioni future nonchè alle applicazioni sociali delle nuove scoperte. In questa situazione economica e sociale complessa non può esserci spazio per lo sviluppo solo teorico di visioni che non hanno il benché minimo riscontro sperimentale. Occorre concretezza e rigore nello scegliere i progetti di ricerca da finanziare, come dicono al CERN “for the benefit of the humankind” ( a favore dell’intero genere umano, non per la vanità di pochi…).
Chiaro: del resto, conversando con l’Osservatorio un analista attento come Gianni Bessi legava il futuro del sistema-Paese alla capacità di posizionarsi al meglio nel comparto più innovativo delle nuove catene del valore…
Questo è fondamentale. Sensori, big data e strumenti di previsione come la intelligenza artificiale sono nuove frontiere, ed è fondamentale padroneggiare questi processi. E nella nostra era assistiamo a una scarsa consapevolezza nelle società delle fondamenta della tecnologia che abbiamo in mano, di cui spesso siamo meri esecutori. Per realizzare questo obiettivo serve creare consapevolezza e conoscenza diffuse sul tema della tecnologia, pena diventare terra di conquista. Mio papà lavorava all’Olivetti, che sviluppò il primo computer a transistor del mondo prima che una classe manageriale inetta distruggesse un’eccellenza italiana.
In Europa si sta già lavorando sul tema della “sovranità tecnologica” e digitale. I progetti guidati da Francia e Germania sono fuori tempo massimo o dettano la strada?
Io sono fortemente europeista. In Europa abbiamo avuto duecento anni di guerre continue prima di questi decenni di pace. Serve mantenere il know-how europeo e creare un’Europa solida nei confronti del mondo. Non siamo fuori tempo massimo, ma serve una cultura politica europeista rinnovata con obiettivi comuni, per costruire un’Unione forte e coesa. Lo spazio europeo dei dati, una cultura europea della ricerca e mosse simili eviteranno al continente che è la culla della civiltà occidentale di essere schiacciato tra Stati Uniti e giganti asiatici.
In Italia Abbiamo know-how e infrastrutture. Bisogna capire che sui dati e la tecnologia, molto spesso, gli spazi e i confini nazionali non valgono più. Nell’azienda che ho fondato, ad esempio, mi conviene di più conservare i dati a Portland che a Buccinasco. Mettere le nostre competenze per creare campioni europei sarebbe un buon passo avanti. È stato il vuoto lasciato ai player cinesi che ne ha permesso l’inserimento massiccio nei nostri sistemi. Il modello Cern, in questo contesto, può fornire un esempio di cooperazione vincente, creando team compositi in cui un Nobel e un giovane ricercatore possono lavorare costantemente fianco a fianco.
Un modello del genere può funzionare anche per il vaccino del coronavirus?
Il problema del vaccino è che alla fine qualcuno dovrà anche pagarlo. Il modello attuale è una corsa tra aziende che vogliono vendere un prodotto biomedicale. Un Centro Europeo Immunologico anti-Covid lo vedrei bene, ma serve un cambio di paradigma nel settore. E poi c’è il dato politico: arrivare per primi al vaccino del coronavirus è una questione politica. Il vaccino è un asset politico molto forte, e lo sarà per chi riuscirà ad ottenerlo prima dei concorrenti. La leva del controllo su un’arma tanto potente (io ce l’ho, il mio vicino no) può non piacere, ma è una ratio sufficiente per capire la competitività della corsa.
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