La strategia europea contro la crisi pandemica: perché guardare oltre il Mes
Paolo Polinori è professore associato di Economia politica presso l’Università degli Studi di Perugia e membro del Consiglio di amministrazione dell’Associazione italiana degli economisti dell’energia. È anche il segretario dell’Unione comunale del Partito democratico di Perugia, nonché uno dei firmatari degli appelli al governo italiano da parte degli economisti critici circa il ricorso al Mes. Lo abbiamo intervistato per chiedergli le sue opinioni riguardo alle misure economiche prese a livello europeo per contrastare la crisi pandemica.
Professore, partiamo da un argomento di cui si dibatte da mesi: l’utilizzo del Mes per le spese sanitarie. Qual è la sua posizione a riguardo?
Io ritengo che i veri europeisti dovrebbero essere contro il Mes, perchè è uno strumento concepito dal lato dei creditori, perciò iniquo e destabilizzante.
Qui è utile fare una piccola cronistoria: io sono stato uno dei firmatari delle varie lettere aperte sul Mes che un centinaio di economisti ha sottoscritto a partire da aprile. È da allora che sosteniamo che ci troviamo in una situazione eccezionale, per la quale servono provvedimenti eccezionali, dotati delle seguenti caratteristiche: l’attivabilità in tempi brevissimi e la possibilità di rendere minimo l’aumento dell’indebitamento da parte degli Stati.
Da allora le cose sono andate come sono andate: il Mes non si è attivato e siamo entrati in un loop di tifo da stadio tra chi è pro e chi è contro. Il problema è la discrepanza tra ciò che sono le regole e ciò che è un documento politico. Perché, se ricordate, alcuni mesi fa Dombrovskis e Gentiloni firmarono una lettera in cui si annunciava che venivano rimosse le condizioni di accesso al Mes per le spese sanitarie. Ma l’accesso è solo uno degli aspetti, perché qui parliamo di uno strumento intergovernativo disciplinato da un regolamento, il 472 del 2013, che ha disposizioni ben precise.
In estrema sintesi, quando uno Stato chiede questo tipo di strumento, entra in sorveglianza rafforzata da parte della Commissione. Ciò comporta che, in un momento successivo, allo Stato possano essere imposte condizioni di rientro e programmi di aggiustamento macroeconomico sulla base di una serie di valutazioni e secondo alcune regole procedurali che coinvolgono vari attori: la stessa Commissione, il Consiglio europeo, la Bce ed eventualmente il Fmi.
Addirittura all’articolo 14 del trattato costitutivo del Mes si prevede che il Consiglio di amministrazione (un organo tecnico composto da membri di designazione statale) possa intervenire in qualsiasi momento, adottando direttive particolareggiate relative all’applicazione dell’assistenza finanziaria.
Proprio per questo scrivemmo le lettere di settembre e ottobre, in cui chiedevamo al ministro Gualtieri come queste criticità fossero state risolte al di là di un documento politico, che può essere in teoria revocato in qualsiasi momento e che in ogni caso, ripeto, riguarda solamente l’accesso.
Allora immagino avrà accolto favorevolmente l’intervista di David Sassoli a Repubblica. La riflessione del presidente del Parlamento europeo, ripresa anche da Enrico Letta, in sintesi è la seguente: il Mes è uno strumento anacronistico e politicamente inutilizzabile. Meglio far passare i relativi fondi alla Commissione europea.
Sì, occorre dire che sul Mes c’è comunque una differenza di posizione tra chi ne chiede la riforma e chi lo smantellamento, con la restituzione delle quote ai singoli Paesi (per l’Italia parliamo di circa 18 miliardi). E io preferirei questa seconda opzione, almeno nell’attesa di prendere una decisione definitiva riguardo alla prima. Sarebbe un segnale politico importante dal mio punto di vista e un’ipotesi da mettere sul tavolo delle trattative, anche per aumentare la forza contrattuale nei confronti di chi il Mes, invece, lo vuole mantenere così com’è.
Una posizione che anche da noi in Italia conta ancora parecchi sostenitori nel mondo politico e dell’informazione. Due gli argomenti principali dei fautori: la nostra sanità ha bisogno di quei soldi subito; è comunque un risparmio sugli interessi. Come risponde a queste posizioni?
Secondo me sono argomentazioni risibili per più di un motivo. Intanto, attualmente sui mercati l’Italia si finanzia a costi parimenti competitivi, se non forse addirittura più bassi, sfruttando l’intervento della Bce. Inoltre, l’entità del Mes è tutto sommato limitata e servirebbe a finanziare un piano nazionale sanitario con cui non si potrebbero fare azioni che poi determinino una spesa corrente. Per dire, tu Stato assumi i medici. Ma con che li paghi una volta che il Mes è terminato? Puoi fare al massimo investimenti che generino spese correnti molto contenute, perché il Mes è una tantum e deve essere resistutito.
Infine questo discorso maschera un altro problema serio: in Italia, se andiamo a controllare i dati ufficiali (Oms, Eurostat, eccetera) a partire dal momento dell’ingresso nell’unione monetaria, abbiamo tagliato la spesa sanitaria in maniera devastante. Per dire, la quantità di posti letto per malati acuti negli ultimi venticinque anni è una linea verticale. Noi abbiamo avuto una struttura sanitaria immolata sull’altare dell’austerità, del pareggio di bilancio e delle regole di eterodirezione dell’Ue (vincoli del 3%, del 60% e così via).
Anche se, a onor di verità, l’Europa ci ha detto sì di tagliare, ma non ci ha detto di farlo linearmente, quella è stata una scelta italiana. Con l’aggravante di aver creato una serie di cul-de-sac in ambito formativo, penso ad esempio al sistema delle specializzazioni. Sono tutti aspetti che avremmo pagato anche in condizioni normali, figuriamoci con un evento straordinario a livello secolare come la pandemia.Questa è la corresponsabilità che i governi di centrodestra e centrosinistra si portano dietro.
A proposito di centrosinistra, Lei che è un dirigente del Pd a livello locale ci aiuta a capire meglio il dibattito che si sta sviluppando all’interno del partito sulla vicenda Mes?
Il Pd in questo ha una posizione eterogenea, perché mentre i big (i vari Zingaretti, Gualtieri, Gentiloni) sono stati freddini, ad esempio gli europarlamentari hanno plaudito all’iniziativa di Sassoli.
In realtà la discussione analitica sul Mes secondo me era una cosa che andava fatta subito, sfruttando il fatto che una parte degli economisti progressisti aveva una posizione critica.
Per questo, insieme a persone come il responsabile nazionale Economia Emanuele Felice e Francesco Saraceno, abbiamo provato di recente a stimolare un dibattito interno, proprio perché penso ci sia la necessità in un partito riformista di stare “sulla frontiera”, valutare ciò che sta cambiando velocemente e prevenire l’utilizzo di queste argomentazioni da parte di forze politiche che hanno mire di tipo sovranista o di uscita dall’Ue.
Tornando ai vertici, comunque, io non ho contatti diretti con loro, quindi non posso avere tutte le informazioni. Potrebbe anche essere che continuino a mantenere questa posizione per strategie politiche, per negoziare meglio all’interno dell’Unione europea.
Tornando all’intervista di Sassoli, il presidente del Parlamento europeo ha detto una cosa in realtà ancora più significativa. Ha cioè proposto la cancellazione del debito da Covid accumulato dai Paesi europei, subito stoppato però dalla presidente Bce Lagarde. È una proposta infattibile?
La Lagarde ha detto che non si può fare perché i trattati lo vietano, non ha detto che non si può fare tecnicamente. Questo è un tema atavico, che è quello della monetizzazione del debito.
Il debito pubblico, infatti è storicamente inteso come strumento di finanziamento, attraverso il normale ciclo spesa-tassazione, mentre concetto diverso è quello di debito pubblico come strumento di politica monetaria.
Detta in maniera molto breve, le passività di un governo possono infatti essere di tre tipi: la moneta, le riserve presso la Banca centrale e il debito del Tesoro. In genere, quando si parla di denaro si intendono solo le prime due. Convertire il debito in denaro è un qualcosa etichettato come “monetizzazione” e determina una sovrapposizione tra politica fiscale e politica monetaria: si utilizzano i primi due strumenti (moneta e riserve) per finanziare il terzo (il debito pubblico).
A parte i precedenti storici (ad esempio quando gli statisti europei, tra cui De Gasperi, decisero di cancellare metà del debito della Germania a seguito della seconda guerra mondiale), andando a un periodo a noi più vicino, il Quantitative easing di Draghi può essere considerato una forma di monetizzazione? Questa è una domanda che non ha una risposta ancora, perché è una misura temporanea, però bisogna vedere cosa succede alle scadenze dei titoli: se questi saranno rifinanziati e mantenuti in pancia dalla Bce, ecco che il Qe diventa una monetizzazione di fatto.
A questo proposito c’è una bella frase di Fitoussi: “nel momento in cui capisci che puoi farlo, non serve farlo”. Lo stesso Mario Draghi, in un discorso fatto verso la fine del suo mandato, alla domanda di un giornalista se quello che lui aveva fatto fosse stato il modo migliore di intervenire sull’economia, rispose: “Io non lo so, era quello che potevo fare”. E ne aveva fatte di cotte e di crude dal punto di vista dell’ortodossia monetaria. Sempre Draghi citò un articolo di Stanley Fischer sull’helicopter money, citò una scuola di pensiero, la Modern money theory, tutte cose che teoricamente sembrano funzionare, andrebbero messe alla prova.
Alla fine penso che non ci dobbiamo impiccare altri sei mesi sulla monetizzazione come abbiamo fatto col Mes: è un tema che andrebbe messo sul tavolo, valutando costi e benefici. Tenendo presente che nel Regno Unito l’hanno fatto a marzo, hanno monetizzato direttamente gli interventi di supporto all’economia, con una misura pari al 15% del Pil. E che la Banca del Giappone monetizza abitualmente il deficit, acquistando i titoli senza limiti per la quantità che occorre così da controllare il tasso d’interesse.
Insomma, la monetizzazione è una strada che non so se nella realtà si possa perseguire, ma che non si può neanche mettere nel cassetto sulla base di posizioni ideologiche, che si sentono troppo spesso, del tipo “il debito chi lo ripaga?”, “ogni italiano ha 45mila euro di debito sulle spalle”, “lo Stato deve essere come un buon padre di famiglia”, posizioni degne dei terrapiattisti. Sono tutte costruzioni che fanno male, perché debito pubblico e debito privato sono due concetti totalmente diversi.
Qui il problema è politico, normativo e di quale tipo di Europa si vuole. Premesso che secondo me l’Europa unita è necessaria e che questa pandemia ha oscurato il fatto che dentro gli organismi europei era già stata avviata a prescindere una discussione delle politiche di austerità e degli strumenti a esse collegati.
A questo punto Le chiedo una valutazione complessiva sugli altri strumenti messi in campo dall’Unione europea come contrasto alla crisi economica provocata dalla pandemia. Quindi Sure (in corso di erogazione), sostegno della Bei (sparito dai radar) e Next generation Eu (impantanato tra mille veti). Sono misure sufficienti o rischiano di essere troppo timide, a maggior ragione alla luce della seconda ondata?
Credo che bisogna scindere l’impatto economico da quello politico. Il significato politico in particolare del Next generation Eu è grandissimo, perché è un debito comune. È una cosa che si è rincorsa per tanto tempo, che ha un profondo significato e che fa reagire anche i mercati molto positivamente.
Certo, l’ammontare è un tema non così roseo, perché queste misure sarebbero importanti in condizioni normali, ma in un contesto di questo tipo corrono il rischio di essere troppo risicate, di non avere una ricaduta tangibile, tale da consentire il famoso e auspicato andamento a V dell’economia europea. Come si dice in inglese, too little, too late.
Dopodiché, un aspetto che non viene mai discusso è quali saranno le condizionalità di questi fondi. Non credo che siamo più nell’epoca del contenimento del deficit eccetera, però quei soldi saranno comunque condizionati. Ora come ora, l’unica cosa che secondo me ha senso è avere coraggio sullo scostamento, dato l’ombrello della Banca centrale europea, che è l’unica cosa che tiene a galla l’Eurozona allo stato attuale.
Si aspetta perciò un ulteriore ampliamento del piano di acquisto pandemico?
Io credo di sì. Perché la situazione è altamente incerta. Anche il discorso che si sentiva fare, e cioè che l’ombrello Bce fosse condizionato all’adozione di tutti gli strumenti di intervento, Mes incluso, mi sembra uno scenario superato.
Certo, c’è la questione del capital key, con l’Italia che ad esempio ha circa il 14% della quota azionaria della Banca centrale europea, mentre con i vari programmi Bce stiamo andando ben oltre il 20% di acquisto di titoli italiani, quindi questo è un elemento di discussione all’interno degli organismi preposti. Però, d’altra parte, secondo me deve ancora nascere il banchiere centrale che vuole passare alla storia come quello che ha fatto implodere l’euro.
Una cosa che potrebbe succedere è che, con un’esplicita presa di posizione, ci sia non la sospensione ma la ridiscussione profonda dei parametri di eterodirezione, quindi criteri non più quantitativi, ma qualitativi.
Credo comunque che sia difficile tornare al passato, anche sulla scorta di quello che stanno facendo gli altri, a partire dalla Fed: tutti stanno pompando denaro in maniera impressionante. In pratica, è successo più in questi ultimi dieci-dodici anni che in un secolo di economia!
Il mio auspicio è perciò che si discuta in termini seri di monetizzazione, di allentamento dei criteri di austerità e così via. Tanto ormai è chiaro a tutti che questo modello, per l’Europa, non funziona.
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