Come il coronavirus cambierà la Cina e la globalizzazione
Anche se in Cina sembra si sia superato il picco, l’epidemia è ancora in corso e nessuno, realisticamente, può azzardate previsioni né sul quanto durerà né, tantomeno, che sviluppi avrà nei vari paesi. Ogni Paese è una incognita: come reagiranno i Paesi africani, dove la sanità è spesso assente o ridotta ai minimi termini? Come andrà in Iran dove l’epidemia dilaga e le sanzioni fanno pesare la carenza di presidi sanitari e medicinali? Ed anche negli Usa, paese dove non esiste una sanità pubblica ed almeno il 25% è privo di ogni assistenza sanitaria, come si comporterà la malattia? Dunque siamo ancora nel mezzo della tempesta. Tuttavia iniziano già le prime valutazioni dei danni. È curioso come negli anni scorsi si sia spesa con troppa leggerezza l’aggettivo epocale, anche per avvenimenti di minor conto, mentre in questa contingenza, che davvero lo è, si esiti a usare questo termine.
Il primo a farlo è stato Giulio Tremonti sul Corriere della Sera dicendo esplicitamente che il coronavirus investe frontalmente il modello cinese iniziandone, probabilmente, la decadenza. Nei dodici anni che ci separano dalla crisi finanziaria del 2008, i dirigenti cinesi, Xi Jinping in testa, hanno spesso vantato la superiorità del modello cinese, dirigista, autoritario ed elitario rispetto alla democrazia liberale, superiorità dimostrata, appunto, dalla migliore performance cinese di fronte alla crisi finanziaria. La selezione delle classi dirigenti dall’alto ed il lungo processo di formazione, secondo l’insegnamento confuciano, sarebbe alla base di questa superiorità. Ora il modello è sottoposto ad una prova molto dura.
Il sistema non ha brillato nella gestione del caso: in primo luogo per il ritardo con cui si è affrontata l’emergenza. I primi casi risalirebbero a dicembre (il salto di specie, secondo gli studi dei ricercatori del Sacco, a Milano, sarebbe stato compiuto fra il 20 ed il 25 novembre) e già dai primissimi di gennaio, c’era stato l’allarme di un medico di Wuhan, ma si sono attese altre settimane prima di assumere le prime misure. Certo, dopo il governo ha proceduto all’isolamento di una città di 11 milioni di abitanti con metodi inimmaginabili da noi e, a quanto pare, il contagio nel resto della Cina è stato contenuto (anche se questo non ha impedito che il morbo si diffondesse in ben 50 paesi nel giro di un mese). Se si fosse agito con qualche settimana d’anticipo, forse sarebbe stato più semplice circoscrivere l’infezione. Anche se la controprova non la avremo mai, va da sé che l’immagine del gruppo dirigente ne esca assai scossa agli occhi degli stessi cinesi.
C’è poi un secondo aspetto poco considerato: si sa di un centro per la manipolazione dei virus da Sars, promosso dai cinesi insieme a francesi ed Oms, che sarebbe stato infelicemente allocato a Wuhan. Non esiste alcuna prova che il contagio sia sfuggito da quel laboratorio, però la circostanza non depone a favore dell’oculatezza delle scelte del governo cinese.
Peraltro, anche il fatto che fosse ancora presente un mercato in cui si vendevano animali selvatici vivi, e per scopi alimentari, certamente non giova all’immagine della Cina.
Per fortuna, nonostante tutto, il costo umano dell’epidemia è lontano da quello di una vera e propria pandemia, ma i guai più seri sono quelli che riguardano l’economia.
Ovviamente la situazione registra un blocco di buona parte delle attività produttive cinesi ed anche la ripresa è lenta e non generalizzata. Il governo cinese parla di una crescita del Pil al 5% che, nonostante sia la più bassa dal 1986, sarebbe comunque un miracolo, mentre gli osservatori indipendenti dicono che quello potrebbe essere l’obbiettivo raggiunto nel 2021 e che, per questo anno, la soglia potrebbe attestarsi fra il 3 ed il 4%.
E c’è dell’altro: il blocco produttivo sta spingendo varie imprese a dirigersi altrove per trovare i pezzi di ricambio o anche le merci che gli necessitano: Apple ha spostato alcune sue produzioni a Taiwan, Microsoft e Google stanno spostandosi verso Thailandia e Vietnam, la giapponese Komatsu si sposta verso o il Vietnam, anche il produttore di merci per lo sport Asics si sposta verso Vietnam e Indonesia, la Dalkin sta valutando se spostare la produzione dei suoi condizionatori in Malaysia.
Soluzioni provvisorie di emergenza? Si ma inevitabilmente una parte degli investitori non tornerà indietro, soprattutto se avrà dovuto spostare gli impianti industriali.
Dunque, non tutto sarà recuperato. E sin qui stiamo alle conseguenze di breve periodo, ma se ne profilano anche di più lunga gittata. Difficilmente la lezione di Covid-19 resterà senza un ripensamento del modello di globalizzazione attuale. Ad esempio è probabile che entri in crisi il modello della “fabbrica globale” per cui la scocca si produce a San Paolo del Brasile, i parabrezza a Seul, i tergicristalli a Djakarta, le batterie a La Paz, i motori a Shanghai e tutto si assembla a Detroit o Torino. Si sta dimostrando che il blocco di uno dei passaggi ferma l’intera catena e non sempre è possibile sopperire, per cui i danni sono ingenti. E in questo ripensamento della globalizzazione è possibile che ci sia meno Cina. Dunque, la “fabbrica del mondo”, potrebbe uscire ridimensionata in prospettiva. E questo ridimensionamento coinciderebbe con la prevedibile crisi demografica in arrivo: 500 milioni di anziani in un paese con pochi giovani (relativamente pochi) e senza uno stato sociale.
Dunque, non solo il “trentennio glorioso” è definitivamente chiuso (e questo già da alcuni anni) ma anche il “soft landing” appare poco probabile. Anzi si prospetta un periodo di “hard landing” né facile né breve. Il Pcc aveva promesso ai cinesi (o , almeno, al ceto medio urbano) che sarebbero diventati ricchi prima che vecchi ed ora quella promessa vacilla insieme a tante altre fatte durante il trentennio. Questo non significa che ci sarà una rivoluzione in Cina (per lo meno non c’è nessun sintomo che la preannunci) ma è difficile pensare che tutto resti come prima e che il grado di legittimazione del regime non subisca delle incrinature. Per di più, in questa situazione diventa secondaria la rivolta di Hong Kong sulla cui opposta sponda sono state ammassate tre divisioni già ad agosto, ma che resteranno probabilmente inoperose e questo incoraggerà altri focolai di rivolta.
Peraltro l’epidemia ridesta fantasmi che sono nel profondo immaginario dei cinesi e che non preannunciano niente di buono per Xi Jinping. Vero è che per statuto è diventato Presidente a Vita, ma di fronte al deteriorarsi della situazione politica, le prescrizioni statutarie servono sino ad un certo punto.
Leonardo Facchin
“Il sistema non ha brillato nella gestione del caso: in primo luogo per il ritardo con cui si è affrontata l’emergenza. I primi casi risalirebbero a dicembre (il salto di specie, secondo gli studi dei ricercatori del Sacco, a Milano, sarebbe stato compiuto fra il 20 ed il 25 novembre) e già dai primissimi di gennaio, c’era stato l’allarme di un medico di Wuhan, ma si sono attese altre settimane prima di assumere le prime misure.”
Onestamente mi sembra un’accusa ingenerosa.
Stiamo parlando di un virus che ha un periodo di incubazione medio di circa 5-6 giorni e che può arrivare fino a 14 e passa. I primi casi, nel 2019, saranno probabilmente passati inosservati, perché si trattava di un virus mai isolato in precedenza e i cui effetti più gravi si presentavano sotto forma di polminiti atipiche il cui pattern non era probabilmente facile da riconoscere senza centralizzare i dati.
La questione dell’allarme lanciato dal medico poi spentosi a Wuhan mi sembra poi abbastanza discutibile: la narrazione è che il governo centrale ne ha ignorato l’allarme. Ma sono convinto che sia condita dai pregiudizi anti-cinesi che circolano qui in Occidente. E’ più probabile che in realtà lo abbia semplicemente redarguito sull’opportunità di diffondere notizie potenzialmente allarmistiche fino a quando si sono attivati i meccanismi che hanno portato l’apparato sanitario cinese a confermare e sequenziare il virus, i cui dati sono stati trasmessi all’OMS il 10 Gennaio.
La stessa OMS ha ampiamente elogiato la velocità di reazione cinese, che sinceramente non mi pare differire molto da quella di altri Paesi nel mondo, Italia inclusa. Inizialmente (prime due settimane) si è cercato di limitare il contagio ricorrendo ai buoni consigli. Poi, quando ci si è resi conto della gravità della situazione, sono state implementate le draconiane misure che abbiamo visto a Wuhan e che adesso stiamo implementando anche qui da noi su scala nazionale. A differenza di quanto accaduto qui da noi, in Cina all’inizio non era neppure disponibile un test, dato che il virus era nuovo. E questo sicuramente ha ritardato l’identificazione dei casi nelle prime fasi dell’epidemia.
Insomma, 2-3 settimane per mobilitare misure di sicurezza delle proporzioni di quelle messe in campo dalla Cina di fronte ad un fenomeno nuovo e inaspettato non mi sembrano rappresentare un grosso ritardo.
Anche sulle conseguenze economiche che dovrebbero avviare il declino cinese ci andrei cauto, fossi in Tremonti. Dipende molto anche da come gli altri Paesi sapranno affrontare la situazione quando toccherà a loro. Finora quello che abbiamo visto è una generalizzata superficialità e una certa indolenza nell’apprestare immediatamente misure di contenimento drastiche che vanno a colpire la sfera economica, salvo ripensarci non appena diventa chiara la dimensione locale del fenomeno (è successo in Italia, Francia, Germania e Spagna, e potrebbe accadere anche in UK e USA). Non è detto che gli altri Paesi ne escano meglio della Cina, Paese dalle ingenti risorse.
Anche il trasferimento permanente della produzione fuori dai confini cinesi non è detto che sia permanente: le attività potrebbero rifluire proprio in Cina se veramente quel Paese confermasse la capacità di controllare l’epidemia mentre in contemporanea questa si va diffondendo in altri Paesi del globo, magari meno pronti ad affrontarla.
Leonardo Facchin
“Il sistema non ha brillato nella gestione del caso: in primo luogo per il ritardo con cui si è affrontata l’emergenza. I primi casi risalirebbero a dicembre (il salto di specie, secondo gli studi dei ricercatori del Sacco, a Milano, sarebbe stato compiuto fra il 20 ed il 25 novembre) e già dai primissimi di gennaio, c’era stato l’allarme di un medico di Wuhan, ma si sono attese altre settimane prima di assumere le prime misure.”
Onestamente mi sembra un’accusa ingenerosa.
Stiamo parlando di un virus che ha un periodo di incubazione medio di circa 5-6 giorni e che può arrivare fino a 14 e passa. I primi casi, nel 2019, saranno probabilmente passati inosservati, perché si trattava di un virus mai isolato in precedenza e i cui effetti più gravi si presentavano sotto forma di polminiti atipiche il cui pattern non era probabilmente facile da riconoscere senza centralizzare i dati.
La questione dell’allarme lanciato dal medico poi spentosi a Wuhan mi sembra poi abbastanza discutibile: la narrazione è che il governo centrale ne ha ignorato l’allarme. Ma sono convinto che sia condita dai pregiudizi anti-cinesi che circolano qui in Occidente. E’ più probabile che in realtà lo abbia semplicemente redarguito sull’opportunità di diffondere notizie potenzialmente allarmistiche fino a quando si sono attivati i meccanismi che hanno portato l’apparato sanitario cinese a confermare e sequenziare il virus, i cui dati sono stati trasmessi all’OMS il 10 Gennaio.
La stessa OMS ha ampiamente elogiato la velocità di reazione cinese, che sinceramente non mi pare differire molto da quella di altri Paesi nel mondo, Italia inclusa. Inizialmente (prime due settimane) si è cercato di limitare il contagio ricorrendo ai buoni consigli. Poi, quando ci si è resi conto della gravità della situazione, sono state implementate le draconiane misure che abbiamo visto a Wuhan e che adesso stiamo implementando anche qui da noi su scala nazionale. A differenza di quanto accaduto qui da noi, in Cina all’inizio non era neppure disponibile un test, dato che il virus era nuovo. E questo sicuramente ha ritardato l’identificazione dei casi nelle prime fasi dell’epidemia.
Insomma, 2-3 settimane per mobilitare misure di sicurezza delle proporzioni di quelle messe in campo dalla Cina di fronte ad un fenomeno nuovo e inaspettato non mi sembrano rappresentare un grosso ritardo.
Anche sulle conseguenze economiche che dovrebbero avviare il declino cinese ci andrei cauto, fossi in Tremonti. Dipende molto anche da come gli altri Paesi sapranno affrontare la situazione quando toccherà a loro. Finora quello che abbiamo visto è una generalizzata superficialità e una certa indolenza nell’apprestare immediatamente misure di contenimento drastiche che vanno a colpire la sfera economica, salvo ripensarci non appena diventa chiara la dimensione locale del fenomeno (è successo in Italia, Francia, Germania e Spagna, e potrebbe accadere anche in UK e USA). Non è detto che gli altri Paesi ne escano meglio della Cina, Paese dalle ingenti risorse.
Anche il trasferimento permanente della produzione fuori dai confini cinesi non è detto che sia permanente: le attività potrebbero rifluire proprio in Cina se veramente quel Paese confermasse la capacità di controllare l’epidemia mentre in contemporanea questa si va diffondendo in altri Paesi del globo, magari meno pronti ad affrontarla.
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