La sovranità ai tempi della globalizzazione
Nell’ondata di “politicamente corretto” che ci affligge, alcune parole come “sovranità”, “potere”, “forza”, suonano male e sono impronunciabili senza suscitare reazioni sdegnate nell’uditorio nutrito di pacifismo, non violenza, iper femminismo, ultra ecologismo, pensiero debole o, qualche volta, ultra debole.
Ricordo che durante la prima guerra del Golfo una mia collega di Facoltà se ne uscì con questa frase memorabile: “Dobbiamo pensare ad un uso del diritto non basato sulla forza”, risposi: “Bello! Cosa è il galateo?”. Il Diritto, per definizione è il sistema di norme dotate di potere cogente, piaccia o no. Il resto sono fesserie.
Questa melassa dolciastra ha prodotto il deperimento della cultura politica diffusa, a tutto vantaggio dello strapotere finanziario che, con la politica debole ci va a nozze. Nei giorni scorsi abbiamo parlato della necessità di una cultura politica all’altezza dell’era della globalizzazione: e in primo luogo, per essere edificata, essa necessita della capacità di cogliere i mutamenti occorsi nei rapporti di potere su scala globale.
Allora, riprendiamo contatto con la realtà, piedi per terra e recuperiamo le categorie del pensiero politico: “potere” non è una parolaccia, ma è un elemento necessario ed ineliminabile della vista sociale umana. Occorre che qualcuno assuma di volta in volta le decisioni politiche, economiche, giuridiche, sociali, culturali che occorrono alla società.
Produrre, distribuire, difendersi (o, se volete, attaccare), darsi un ordinamento giuridico eccetera, non sono cose che avvengono da sole come la pioggia.
Dopo possiamo discutere delle modalità con cui esercitare questo potere decisionale: possiamo pensare ad un potere unico o diffuso, ad una divisione dei poteri, a una gestione dittatoriale o democratica, ad una democrazia rappresentativa o diretta ma questo non annulla la funzione del potere: anche il referendum è un modo di esercitale il potere sociale.
Una delle forme di organizzazione del potere sociale è lo Stato che si basa su tre elementi costitutivi: il popolo (che è l’elemento personale ), il territorio (che è l’elemento materiale cioè l’ambito spaziale in cui si applica l’ordinamento giuridico dello Stato) e la sovranità (che è l’elemento formale, che legittima la capacità del soggetto Stato di produrre ordinamento giuridico).
La sovranità, pertanto, è la capacità di assumere decisioni in forma di norme vincolanti (appunto il diritto).
Nel 1648, con la pace di Westfalia si stabilì che c’era un unico soggetto “superiorem non recognoscens” che assume la sovranità di un territorio. Dunque, non esiste uno Stato che non sia titolare di sovranità.
Dalla prima guerra mondiale in poi (e più ancora dopo la seconda) l’ordinamento westfalico ha iniziato a cedere terreno, con la nascita di organismi a “sovranità condivisa” (la Società delle Nazioni e, molto di più l’Onu, il Fondo Monetario, la Banca Mondiale, l’organizzazione mondiale della Sanità e così via).
Con la fine dell’equilibrio bipolare e l’avvio della globalizzazione, questa tendenza è esplosa e gli organismi sovranazionali hanno assorbito sempre maggiori fette di sovranità, soprattutto in campo economico, ma con ricadute d’ogni genere: si pensi al Wto, alle varie istituzioni giudiziarie internazionali, alle camere di commercio sovranazionali eccetera, al punto che autorevoli giuristi hanno parlato di una sorta di nuova “lex mercatoria” sul modello di quella del basso Medioevo che ha preceduto la nascita degli stati nazionali.
E qui è nata la confusione, per la quale si è parlato di decadenza dello Stato Nazionale in quanto forma politica storicamente superata e, con esso si è iniziato a parlare di superamento della sovranità. Ma si tratta di un pasticcio teorico che va chiarito. In primo luogo, lo stato Nazionale è ben lontano dalla sua estinzione: non mi pare che la Cina, la Russia, gli Stati Uniti, l’India o il Brasile abbiano grande desiderio di sciogliersi in un ancora imprecisato ordinamento internazionale. Peraltro, il sistema internazionale, pur caratterizzato dalla presenza di una molteplicità di organismi a “sovranità condivisa” è pur sempre fondato sugli stati nazionali e gli stessi organismo sovranazionali, maggioritariamente, sono direttamente o indirettamente formati dagli stati nazionali o da loro emanazione.
Dunque, la sovranità non si è affatto estinta, ma ha subito in processo di suddivisione e trasferimento. Le decisioni degli organismi sovranazionali non sono emanazioni dello Spirito Santo, ma esercizio di potere decisionale da parte di soggetti di diritto internazionale dotati di sovranità
Dunque, togliamo di mezzo sia questa favola della fine dello Stato nazionale sia quella dell’esaurimento della sovranità, ma cerchiamo di capire come sia cambiata la sovranità nel mondo della globalizzazione.
Abbiamo detto, appunto che c’è stata una tendenza a frammentare e riunificare la sovranità. Da un lato frammentare, perché abbiamo sottratto fette di potere decisionale agli stati nazionali spezzando il carattere unitario della decisione politica, dall’altro riunificare perché si creano nuclei decisionali mondiali per tema.
Ma questo non significa affatto la fine della sovranità, quanto una sua diversa distribuzione fra sfera nazionale e sfera sovranazionale. E questo determina una conseguenza: a livello nazionale la residua quota di sovranità implica che la decisione può essere assoggettata a procedure democratiche (dove ci siano regimi democratici), mentre a livello sovranazionale questo non è possibile, perché la decisione è assunta da apparati tecnocratici al massimo responsabili di fronte ai governi nazionali e, peraltro, non è detto che siano tutti governi democratici.
Dunque, il conflitto non è fra “sovranisti” ed “anti sovranisti” che è una chiave di lettura volutamente fuorviante, ma quale quota di sovranità debba essere devoluta ad organismi sovranazionali ed a decisione non democratica e quali debbano essere trattenuti a livello nazionale per preservare la formazione di decisioni con metodo democratico.
massimo pizzo
Il tema è molto importante, per capire il fallimento delle politiche nazionali italiane degli ultimi decenni. Una politica che non riesce neanche a risolvere in tanto tempo questioni come povertà e emarginazione sociale è veramente fallimentare. Come dire, bisognerebbe focalizzarsi su un atteggiamento di questo tipo: troviamo in 5 anni una soluzione per chi non ha reddito o casa (quindi disoccupati e precari) e poi dividiamoci su altre questioni di lana caprina. Vengo al dunque siamo in un epoca in cui la politica nazionale ovvero la politica romana delega molto all’Europa e agli enti locali e rinuncia alla soluzione dei problemi fondamentali di milioni di persone nel giro di una legislatura. Sono convinto che abbiamo bisogno di più Italia e che bisogna smettere di cercare scuse tipo riforme e architetture istituzionali. La politica è fatta di soldi e idee e la politica romana dovrebbe rilanciare il proprio ruolo. Questo lo possiamo pure chiamare sovranismo, nazionalismo 2.0 oppure politica delle comunità linguistiche omogenee L’importante è capirsi e risolvere emergenze nel giro di una legislatura. Grazie per i suoi preziosi contributi di analisi e comprensione della realtà.
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