Il dilemma morale delle uccisioni coi droni
“L’occhio di Dio abbraccia col suo sguardo siderale la totalità del mondo. Il suo non è un semplice vedere: egli attraversa la pelle dei fenomeni e affonda fin nelle loro viscere. Nulla è opaco per Lui. Poiché il suo sguardo coincide con l’eternità, esso abbraccia tutto il tempo, passato e futuro. Per questo il sapere di Dio non è un sapere qualsiasi, all’onniscienza corrisponde l’onnipotenza.”
Grégoire Chamayou, “Teoria del drone”
Iraq, 3 gennaio 2020. – Il Drone utilizzato dagli Stati Uniti per mettere a segno l’attacco mortale contro il generale iraniano Qassem Soleimani è l’MQ-9 Reaper, conosciuto come Predator B: un velivolo senza pilota a controllo remote della United States Air Force ed è uno dei primi Uav (Unmanned Aerial Vehicle) hunter-killer progettato per la sorveglianza a lunga autonomia, ed a elevate altitudini. Sarebbero così stati sparati quattro missili contro due auto che stavano trasportando il capo della Niru-ye Qods ed altri alti funzionari vicino l’aeroporto di Baghdad. Un attacco che celebra la capacità di monitorare l’avversario e di ingaggiarlo a distanza, proiettando forza senza proiettare vulnerabilità: videre nec videri.
Lo sviluppo di tale tecnologia e la crescente frequenza della sua applicazione negli attuali scenari operativi, costituiscono un irreversibile mutamento del modo di condurre le azioni ostili.
La capacità di operare a distanza, lontano dalla zona di ingaggio – con l’azzeramento dei rischi per gli equipaggi impegnati nell’operazione, l’aumento della portata strategica e la possibilità di gestire le minacce in tutto il mondo – de-territorializza il tradizionale campo di battaglia, estendendolo al di là dei confini della zona di combattimento.
Quanto accade sullo scenario internazionale in questi primi giorni del 2020 rischia di innescare un’escalation pericolosa: il completo collasso della fragilissima situazione medio-orientale e nord-africana. L’uccisione a Baghdad di Qasem Soleimani da parte di un Drone in un’azione a freddo, è un evento pericoloso. L’uso crescente di velivoli armati e disabitati (droni) rappresenta una seria sfida politica con implicazioni per la sicurezza e la giustizia in tutto il mondo.
La tecnologia dei droni sta attirando alti livelli di investimento, i droni controllati da remoto stanno diventando sempre più numerosi e lo slancio tecnologico verso i droni controllati dall’intelligenza artificiale (AI) sta costruendo. Molte vite umane sono in gioco in questo, quindi l’uso violento dei droni continua a sollevare questioni etiche.
Sullo sfondo della guerra senza rischio i droni trasformano la nostra capacità di osservazione, rivoluzionando la nostra unicità fenomenologica. Il drone deforma e falsifica i concetti di campo di battaglia, di spazio, della stessa nozione di ostilità, predice il ritorno al bellum iustum, secondo una concezione sacrale del potere, incarnando compiutamente il progetto telechirico. Ma alla radice della asimmetria tecnologica c’è una incommensurabilità più profonda: quella etica.
La delocalizzazione dell’equipaggio dall’abitacolo di un aereo o da una trincea, in un posto di guida situato a migliaia di chilometri di distanza rispetto all’obiettivo preso di mira, consente una profonda ridefinizione del concetto di guerra, in aperta contraddizione con la definizione classica di essa: la guerra, difatti, non corrisponde più ad un duellum. La dislocazione di chi “combatte” con un drone, in un luogo safe, permette di conseguenza l’indeterminatezza dei confini dello spazio in cui è possibile colpire. La zona delle ostilità è qualsiasi punto sul pianeta in cui si sposta l’obiettivo, in forza di un diritto di inseguimento.
La caratterizzazione primaria dei droni, ebbene, risiede nella totale espunzione di ogni forma di reciprocità nell’esposizione alla violenza. L’estraniazione del pilota dalla realtà del teatro operativo, la conseguente aumentata dipendenza dalla componente virtuale, lo sradicamento di ogni corrispettività nell’assunzione del rischio, sono elementi alla base della crisi dei valori legati all’ethos militare, fondato sull’eroismo sacrificale.
Da qui la denuncia, di molti, di un “rischio morale” (Sette del 26 settembre, Corriere della Sera; p.38,39) ovvero quello della condizione in cui un individuo, se non deve affrontare le conseguenze del proprio comportamento, sarebbe maggiormente attratto dal commettere qualcosa di immorale. Creando quella separazione tra azione dell’operatore ed effetto del drone, il pilotaggio da remoto indurrebbe alla deresponsabilizzazione, come se quello che succede sul terreno, provocato dal mezzo meccanico, non sia la diretta conseguenza di una azione e scelta umane.
La percezione filtrata della drammaticità dell’atto letale, la riduzione figurativa del soggetto da ingaggiare a fuoco, l’assenza di ogni corrispettività dei sensi e dei campi percettivi sarebbero tutti fattori produttivi di quel rischio morale. Esercitare violenza bellica da una zona safe, dislocando nella zona ostile solo il senso ottico, corrisponde, secondo Chamayou, ad una diminuzione della sporcizia morale. Occorre, pur tuttavia, tenere debitamente conto che, nell’impiego militare dei c.d. U.C.A.V., agisce una catena di comando e controllo molto serrata che non permette improvvisazione. La decisione di procedere ad un ingaggio mirato, si forma e si dirama all’interno di tale catena all’esito di una serie numerosa di verifiche, analisi e valutazione.
La diffusione sui campi di battaglia delle nuove tecnologie pone problemi delicati, primo fra tutti quello di capire come la tecnologizzazione della guerra stia riuscendo a modificare anche il modo di percepirla. L’importanza e l’urgenza di tali questioni continueranno ad aumentare dato che la tecnologia robotica continua a essere sviluppata e utilizzata. Mentre stiamo per entrare in una nuova era, quella della completa automazione di tali sistemi unmanned, è fondamentale che tutti gli attori coinvolti si fermino a riflettere su tutte le implicazioni legate al loro uso.
Il Drone è un’arma invisibile, pilotata da migliaia di chilometri di distanza da un operatore che può uccidere senza mettere a repentaglio la sua vita; il suo impiego, in situazioni di combattimento, richiede, in forza della indiscutibile rottura dello schema della guerra nella sua canonica accezione, una riformulazione delle strategie e degli scenari di conflitto, un chiaro e definito quadro giuridico di riferimento nonché un profondo ripensamento di natura morale: le decisioni sulla vita e sulla morte sono di una difficoltà unica, una responsabilità pesante per chiunque operi dietro tali macchine.
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