“Lo stato e la guerra” di Krippendorff – La ragion di Stato
Giuseppe Gagliano, che abbiamo ospitato sulle colonne dell’Osservatorio Globalizzazione come esperto intervistato e come analista dei nuovi volti della guerra asimmetrica, comincia oggi una rassegna approfondita sull’opera “Lo stato e la guerra” di Ekkehart Krippendorff, scomparso lo scorso anno, tra i più grandi studiosi politici del Novecento.
Lo Stato e la Guerra è – a giudizio del suo stesso autore – l’opera più importante di Ekkehart Krippendorff. Il volume è il prodotto di amicizie politiche di lungo periodo fra Krippendorff e vari esponenti della Sinistra non dogmatica europea e del Movimento per la Pace. Lo stesso libro ha avuto larga influenza sul movimento, almeno sulla sua compagine tedesca, come dimostrano le molte ristampe che se sono avute dal 1985 in poi. Alla base del saggio c’è l’analisi del rapporto fra la formazione degli Stati nell’era moderna (XVII secolo) e la guerra. Tale analisi porta l’autore a concludere che lo Stato moderno è essenzialmente Stato militare: l’apparato militare non è dunque uno dei caratteri dello Stato, ma ne è l’essenza stessa. Da ciò consegue che chi critica la guerra come “mezzo della politica” e si propone, nei limiti del possibile, di superarla deve (…) prendere di mira lo Stato. Krippendorff chiarisce come non fosse questa la propria ipotesi iniziale, ma che a tale conclusione è stato naturalmente condotto dell’analisi condotta.
La Scienza può e deve seguire le leggi della propria ricerca, e le conclusioni sono una conseguenza delle domande che essa si pone: è proprio questo che la rende interessante e coinvolgente.
La patologia della ragion di Stato
Il libro parte dalla costatazione che nessun grande evento ha colpito i contemporanei ed i posteri stessi come la Grande Guerra del 1914-18. Tale avvenimento ha costituito una sorta di soluzione di continuità rispetto all’epoca precedente. Fu la prima guerra mondiale ad aprire la strada ad ogni successiva forma di barbarie e di brutalità; si può dire che essa abbia condotto ad un senso di rassegnazione nei confronti di tutto ciò che da quel momento in poi di mostruoso si sarebbe generato (nazismo, Hiroshima …); niente da allora in poi sarebbe stato ritenuto impossibile. Sigmund Freud disse che due cose lo avevano personalmente colpito della guerra del 1914-’18: lo scarso senso etico dello Stato, anche di quegli Stati che si atteggiavano al proprio interno a paladini della morale, e la brutalità del comportamento dei singoli, cui nessuno in tempo di pace avrebbe potuto attribuire la capacità di compiere atti del genere. Secondo, E a sorprendere Freud non poteva certo essere la scoperta di forze distruttive all’interno dell’uomo, da sempre teorizzate dallo studioso viennese, quanto la prassi politica dello Stato. Sino ad allora lo Stato era considerato il guardiano della morale e si riteneva operasse con criteri razionali.
Durante la guerra invece – come constatò lo stesso padre della psicanalisi
Lo Stato combattente si concede ogni illecito, ogni violenza: quegli illeciti e quelle violenze che disonorerebbero il privato. Contro il nemico, si serve non solo di ogni astuzia consentita, ma anche delle menzogne consapevoli e dell’inganno internazionale, in misura maggiore di quanto si era usi fare nelle guerre precedenti.
Uno degli effetti, forse il maggiore dal punto di vista internazionale, della guerra fu la nascita di nuovi Stati nazionali, il parziale avverarsi delle speranze di molti di “auto-determinazione nazionale”, del “diritto di autodeterminazione dei popoli”, del diritto di popoli finora oppressi o retti da altri di avere un proprio Stato. Questo processo riguardò inizialmente solo l’Europa, per poi imporsi, proprio nel corso della guerra, come principio universale.
Proprio la prima guerra mondiale offre allo storico tedesco Friedrich Meinecke l’occasione di elaborare alcuni concetti circa la “norma d’azione” dello Stato e dunque anche sull’uomo di Stato, un uomo in carne d’ossa nel quale pure vive e deve vivere un istinto del tutto personale di dominio. Si tratta di una caratteristica importante (un mix di energia, ambizione e fortissima volontà) senza la quale lo Stato non acquisirebbe mai quella potenza che gli è necessaria. Colui che vuole essere un uomo di Stato deve perciò conformare la propria umanità a tale istinto, sacrificare le proprie propensioni personali alla ragion di Stato, la quale è portatrice di una morale diversa e superiore rispetto a quella comune e non di rado persino in conflitto con quest’ultima:
L’uomo di Stato, asceso alle vette spirituali della ragion di Stato può, nell’interesse superiore dello Stato, “ledere il diritto e la morale” e tuttavia sentirsi “moralmente giustificato di fronte al tribunale della propria coscienza.
Meinecke incorre però in una contraddizione: se lo Stato è un ente superiore, il quale dovrebbe eccellere su tutte le altre forme di collettività umana, per purezza della sua essenza, perché fa la guerra (la quale è sempre e comunque un’irruzione dello stato di natura nella civiltà, quali ne siano le forme giuridiche con cui la si voglia rivestire)? Di fronte a questo dilemma insolubile (l’impossibilità di eticizzare il gruppo umano che dovrebbe eccellere per purezza), lo storico tedesco ricorre ad una categoria religiosa, quella di peccato. La guerra costituisce un peccato, in cui lo Stato non può non incorrere, data la sua natura di organismo di potere. La guerra però deve essere giudicata sulla base degli scopi che lo Stato attraverso questa persegue e pertanto è un peccato assolvibile.
Bismarck, l’incarnazione dello statista
Un’incarnazione tipica dell’uomo di Stato sarebbe, secondo Meinecke (ma giudizi analoghi si possono rintracciare anche in Max Weber e persino in storici tutt’altro che acritici, come Gordon Craig e A.J.P. Taylor) Otto Von Bismarck. Uno degli aspetti che Krippendorff mette in rilievo del vecchio cancelliere prussiano è la sua religiosità, caratteristica che viene citata da più di un biografo: si tratterebbe però – secondo l’autore di Lo Stato e la guerra – di una religiosità del tutto fondata su questo mondo e “sull’etica della responsabilità”, che aveva un luogo molto concreto nel quale oggettivarsi: lo Stato. Lo Stato è l’istituzione che Dio ha posto a tutela dell’ordine degli uomini, quindi servire lo Stato è un modo (ed è il modo scelto da Bismarck) di servire Dio. Anche sotto un altro punto l’esempio di Bismarck è illuminante: il forte senso religioso di costui lo porta ad un sincero e non ipocrita rispetto verso la vita umana. Più volte nei discorsi parlamentari o nella corrispondenza privata dello statista tedesco, traspare la sua preoccupazione e la sua amarezza per le vite umane stroncate o mutilate dalla guerra.
Deriva da qui il rifiuto verso la guerra preventiva o comunque non strettamente necessaria: Bismarck si mostra nella silloge curata da Hans Rothfels(Bismarck und der Staat) come un uomo consapevole della propria responsabilità di uomo di Stato, cosciente che da una sua decisione errata o presa per leggerezza o anche per vanagloria della nazione possa dipendere il destino di molti uomini; il mestiere dello statista si presenta dunque, ai suoi occhi, semplice e complesso allo stesso tempo; semplice perché privo di reali rischi materiali per sé
è facile per un uomo di Stato (…) suonare le trombe della guerra e riscaldarsi al fuoco del suo camino o tenere infuocati discorsi dalle tribune, affidando al moschettiere che sanguina sulla neve di decidere se la sua politica ottenga o no la vittoria,
complesso perché dalle sue decisioni può dipendere la vita o l’integrità fisica dei sudditi del reich:
Ho visto sui campi di battaglia e, cosa ancora peggiore, nei lazzaretti, il fiore della nostra gioventù strappato via da ferite e malattie; e immagino di vedere, affacciandomi da questa finestra, un invalido che passa sulla Whilelmstrasse, e che lancia un’occhiata verso l’alto e probabilmente pensa: se non fosse per quell’uomo lassù, cui è venuto in mente di far questa brutta guerra, io adesso starei benissimo.
(dalla raccolta di testi curata da Hans Rothfels, Bismarck und der Staat).
La guerra immotivata si presenta al suo spirito religioso e alla sua coscienza come un peccato irredimibile:
Guai all’uomo di Stato che in quest’epoca non consideri se la guerra che vuole condurre abbia o meno un motivo che possa ancora ritenersi valida quando questa sia concluso.
Pur nella viva e sofferta consapevolezza delle proprie responsabilità, Bismarck non mette, tuttavia, mai in discussione completamente lo strumento della guerra: se la guerra preventiva, immotivata o insufficientemente motivata si presenta alla sua coscienza di credente come un peccato, la guerra realmente funzionale ai bisogni dello Stato è una dolorosa necessità. Nel 1863, rivendica la guerra come parte del proprio programma e successivamente affermerà:
Durante il mio governo ho raccomandato tre guerre: alla Danimarca, alla Boemia, e alla Francia, ma ogni volta mi sono preventivamente chiesto con attenzione se la guerra che si stava per combattere, qualora fosse stata vittoriosa, avrebbe portato ad un beneficio tale da valere le vittime che ogni guerra richiede e che oggi sono molto più numerose che nel passato.
Non un rifiuto tout court della guerra quindi, ma un attento esame se l’inevitabile sacrifico umano, ch’essa sempre comporta, sia compensato o meno in misura adeguata da vantaggi per lo Stato. Sono i fini che rendono il massacro legittimo. Krippendorff fa a questo punto notare come nessuno statista si chieda chi sia legittimato a fissare i fini e gli obiettivi dell’azione statale ed in quale misura essi autorizzino un sacrificio in termini di vite umane. L’autore si sofferma sul delirio di onnipotenza o comunque sull’eccessiva astrazione del modo di pensare degli statisti, il quale si muove su direttrici diverse rispetto al comune modo di pensare, trovandone la ragione nel concetto di ragion di Stato: una ragione cioè comunemente ritenuta superiore rispetto a quella ordinaria, ed a cui è estraneo il senso della pietà. Krippendorff sostiene che l’introduzione del concetto di ragion di Stato produca una sorta di astrazione dalla realtà.
1 – Continua
1 – La ragion di Stato
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