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L’Occidente non esiste?

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L’Occidente non esiste?

Con questa approfondita riflessione di Emanuel Pietrobon l’Osservatorio prosegue oggi il suo dibattito sul concetto di Occidente: lo studioso di geopolitica, in questo articolo, pone di fronte la problematica natura duale dell’Occidente, concetto geopolitico che si è voluto ammantare con una sovrastruttura valoriale creata a posteriori. Ma nella sfera geopolitica statunitense molte tendenze innate permangono e continuano a manifestarsi, sotto diversi punti di vista, in vari Paesi: Pietrobon cita i casi di Turchia, Ungheria, Polonia e Germania.

Quando si parla di Occidente ci si riferisce ad un preciso blocco del mondo caratterizzato da una serie di elementi comuni come le tradizioni culturali, la filosofia politica e religiosa, i valori sociali, il sistema economico e la cultura politica incardinata sul binomio stato di diritto – democrazia.

L’Occidente, più nel dettaglio, corrisponderebbe ad una precisa entità geopolitica incardinata sul ruolo centrale degli Stati Uniti e sulla presenza periferica di altre potenze, come il Canada, il Giappone, l’Unione Europea, l’Australia, la Nuova Zelanda e la Turchia.

Piaccia o meno, l’Occidente è un blocco coeso, unito, difficile da destabilizzare perché incardinato su valori comuni e condivisi. Non sorprende, perciò, che la maggiore e migliore espressione dell’Occidente sia l’Organizzazione del Trattato dell’Atlantico del Nord (NATO), l’alleanza militare più numerosa e duratura del pianeta.

Nel nome della difesa del “mondo libero” che l’Occidente custodisce, salvaguarda e rappresenta, sono state combattute la guerra fredda e le guerre di Corea, del Vietnam e dell’Iraq, sono stati promossi colpi di stato in tutto il mondo, ed è stata lanciata addirittura quella che è stata ribattezzata la “guerra infinita”, ossia la guerra all’internazionale jihadista.

I paesi occidentali sono così uniti da sacrificare i loro interessi nazionali nel nome di un bene supremo, ovvero la tutela della collettività, la sopravvivenza del mondo libero, ed oggi si stanno preparando per quella che sembra sarà la guerra fredda del nuovo millennio: quella contro la Repubblica Popolare Cinese.

A questo punto, però, occorre fare un passo indietro e tornare al passaggio dell’unità e della coesione, perché era menzognero. L’Occidente, così come viene inteso attualmente, non è mai esistito ed è, infatti, tenuto in vita artificialmente dagli Stati Uniti poiché funzionale al perpetuamento dell’ordine internazionale emerso nel secondo dopoguerra, dalle ceneri dell’eurocentrismo, e consolidato con la caduta dell’Unione Sovietica.

L’Occidente non è mai esistito prima del 1945 e fatica ad esistere autonomamente ancora oggi, nonostante i miliardi di dollari investiti dagli Stati Uniti per egemonizzare culturalmente il Vecchio Continente. L’americanizzazione dell’Europa è una realtà inconfutabile: costumi, valori, idee, stile di vita, politica, abbigliamento, cultura, musica, lingua; tutto viene importato dal fu cugino ribelle diventato padre-padrone di una famiglia disfunzionale.

Un tempo si diceva che “quando Parigi prende freddo, l’Europa starnutisce”, oggi si può affermare che “quando l’America prende freddo, l’Europa va in ipotermia”. Gli eventi scaturiti dalla morte di George Floyd sono la prova più eloquente di ciò: la battaglia culturale della sinistra radicale e degli antirazzisti di Black Lives Matter ha attraversato rapidamente l’Oceano Atlantico, raggiungendo vette di estremismo anche maggiori di quelle toccate negli Stati Uniti.

Eppure, a parte l’americanizzazione dei costumi, la spettacolarizzazione hollywoodiana della politica, l’impoverimento linguistico causato dal dominio dell’inglese e le lotte combattute in tutto il mondo per difendere quell’idea di mondo che è l’Occidente, è legittimo sostenere che si tratti di un artifizio.

Un Occidente esiste, è chiaro, ma si tratta di un mondo nel mondo. Occidentali sono gli Stati Uniti, il Regno Unito, i Paesi Bassi e la Scandinavia, culle del liberalismo politico ed avanguardie di rivoluzioni (o involuzioni?) sociali e culturali che da lì si espandono nel resto del blocco-civiltà euroamericano. Ma occidentali non sono, e forse non saranno mai, paesi come la Turchia, l’Ungheria, la Polonia e la Germania.

Si potranno occidentalizzare i loro costumi e le loro menti, ed anche convincere i loro politici a partecipare ad alcune guerre, ma soltanto per un po’. L’epopea occidentale della Turchia è durata il tempo di Mustafa Kemal perché poi, dal 1960 ad oggi, le forze armate, messe a guardia di una costituzione anti-storica ed innaturale, poiché repubblicana, laica ed occidentale, sono dovute intervenire, o hanno minacciato un intervento, dieci volte per proteggere quei valori importati e trapiantati con la forza. Alla fine, la forza bruta non è bastata: Recep Tayyip Erdogan, il padre della nuova Turchia, ha prevalso sull’ordine kemalista, il cui ultimo e debole colpo di coda si è manifestato nel luglio 2016.

Se l’Occidente fosse realmente quel blocco coeso ed unitario che viene dipinto, le carte fondamentali dei suoi membri non verrebbero protette con la forza e, soprattutto, non si assisterebbe a delle simili altalene. L’ascesa inarrestabile di Erdogan è la prova che la Turchia non è Occidente ed il suo mantenimento all’interno di esso, coatto ed obbligato da ragioni geopolitiche, non è stato possibile.

Sono maggiori le rivalità che la Turchia ha in piedi con i suoi presunti alleati che non quelle in giro del mondo. Erdogan è, molto semplicemente, l’espressione di una rivoluzione che il popolo, ovvero la Turchia profonda, ricercava da sessant’anni e che ha infine ottenuto. La Turchia non era e non è Occidente, ma era ed è la Sublime Porta fra l’Europa e l’Asia, il cuore pulsante del panturchismo e del nazionalismo islamico e, soprattutto, il rivale per eccellenza del Vecchio Continente.

In Ungheria e Polonia, invece, la de-occidentalizzazione sta avvenendo in maniera più morbida, anche alla luce della loro appartenenza all’Unione Europea, ma sta avvenendo. Nessun partito, nella breve parentesi democratica dei due paesi, ha mai goduto del consenso di cui dispongono oggi Fidesz e Diritto e Giustizia, due forze politiche dalle aspirazioni rivoluzionarie e non-occidentali.

Viktor Orban, il capo di Fidesz, che oltre ad essere un politico è anche un pensatore di una certa complessità, è colui che ha dato il via alla rivoluzione illiberale che da anni sta avvolgendo l’Occidente e che nel 2016 è, infine, approdata negli Stati Uniti. Orban è il teorico di un nuovo modello di civiltà, antitetico all’Occidente perché illiberale, cristiano e con lo sguardo rivolto ad Oriente. Sempre Orban è colui che ha consentito alla piccola Ungheria di proiettarsi fuori dai confini europei, recuperando l’antica ideologia turanista, fino alle terre dell’Asia centrale e alle pendici del Monte Fuji.

Il turanismo è una scuola di pensiero creduta morta fino a pochi anni fa ma che, oggi, è materia di studio in Ungheria, in Turchia e nei paesi dell’Asia centrale. Fu un fallimento all’epoca della sua concezione, avvenuta a cavallo fra il 19esimo ed il 20esimo secolo, poiché non riuscì a convincere i popoli stanziati in Europa di origine turca, mongolica e/o uralo-altaica (come i magiari, i turchi, i finni, i tatari, ecc) ad unirsi in un’alleanza in chiave anti-panslavista ed anti-pangermanica.

Oggi, però, nel nome della fratellanza turanica, Ungheria, Turchia e –stan collaborano fruttuosamente ed attivamente nel quadro del Consiglio Turco, si scambiano studenti, organizzano eventi culturali, si fanno doni, si prestano denaro. I fratelli turchi sono stati i primi a rispondere alle richieste di aiuto di Budapest allo scoppio della pandemia di Covid-19; un segno dei tempi.

Turanismo a parte, se coesione ed unitarietà fossero gli elementi costitutivi dell’Occidente, poiché rappresentato come un tutt’uno imperituro, l’Ungheria avrebbe anche dovuto seppellire antiche rivendicazioni territoriali nell’area balcanica ed est europea, ma così non è.

La Polonia, similmente all’Ungheria e Turchia, ha rispolverato vecchi sogni egemonici ed identitari che possono essere, sì, complementari all’Occidente ma che, infine, lavoreranno contro di esso per via di contraddizioni di fondo. Qui il riferimento è all’Intermarium (Międzymorze), un concetto geopolitico elaborato da uno dei padri della Polonia moderna, Józef Piłsudski, nel periodo interguerra.

Piłsudski, intimorito dal pensiero di un perenne accerchiamento russo-tedesco, credeva che la Polonia avrebbe dovuto investire ogni risorsa umana, economica e diplomatica nella ricostituzione dell’antico regno polacco, anche in maniera informale, creando un’unione inossidabile con il vicinato composto dalle attuali Bielorussia, Ucraina e Lituania (ed Estonia e Lettonia). La storia si sarebbe ripetuta, la Polonia inghiottita di nuovo da russi e tedeschi, i cattolici perseguitati per la loro fede, il Cristo d’Europa sarebbe morto di nuovo. Il tempo gli ha dato ragione e la Polonia ha rivisto la luce della libertà e dell’indipendenza soltanto nel 1989.

Dopo un breve paragrafo di puro europeismo ed incanto liberale, nel panorama politico si è assistito all’entrata in scena di Diritto e Giustizia, una creazione dei fratelli gemelli Lech e Jaroslaw Kaczyński. Quest’ultimo, succeduto al primo dopo la sua morte nel controverso incidente aereo di Smolensk del 2010, ha espresso una visione molto simile a quella di Orban, ma senza l’ingrediente eurasiatico, sognando la costruzione di una Polonia in posizione antagonistica, in senso culturale, all’Occidente.

Anche la Germania, pur avendo ceduto la propria identità nazionale nel secondo dopoguerra, in seguito agli orrori nazisti, continua a mostrare che le vecchie abitudini sono dure a morire, come palesato dal sodalizio creato silenziosamente con la Cina negli anni recenti. Sono state necessarie due guerre mondiali affinché la Germania si de-germanizzasse (quasi) del tutto, ma le tendenze eurasiatiche ed egemoniche non sono state cancellate. Tendenze che sono alla base dell’ostilità dell’amministrazione Trump nei confronti di Berlino: alleato fedele e prono alla sottomissione cieca più di molti altri, ma comunque temibile, perché naturalmente predisposto all’egemonia.

L’Occidente esiste, sì, e l’Italia, uno dei paesi più americanizzati d’Europa, ne è la prova, ma è la forza, e non la presunta condivisione di elementi comuni, a tenerlo in piedi e perpetuarne l’esistenza. Evitarne la disgregazione sarà, forse impossibile, ma i paesi che rimarranno al suo interno, saranno Occidente per sempre.

Ciclo di articoli dell’Osservatorio sul concetto di Occidente

Classe 1992, è laureato in Scienze internazionali, dello sviluppo e della cooperazione all’università degli studi di Torino con una tesi sperimentale intitolata “L’arte della guerra segreta”, focalizzata sulla creazione di, e sulla difesa dal, caos controllato. Presso la stessa università si sta specializzando in Studi di area e globali per la cooperazione allo sviluppo – Focus mondo ex sovietico. I suoi principali campi di interesse sono geopolitica della religione, guerre ibride e mondo russo, che negli anni lo hanno portato a studiare, lavorare e fare ricerca in Polonia, Romania e Russia. Scrive per e collabora con diverse testate, tra cui Inside Over, Opinio Juris – Law & Political Review, Vision and Global Trends, ASRIE, Geopolitical News. Le sue analisi sono state tradotte e pubblicate all’estero, ad esempio in Bulgaria, Germania, Romania, Russia.

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