Aumento dei ricoveri e assenza di strategie: il lungo autunno del coronavirus
Ora come a marzo/aprile avventurandosi nella selva di numeri sul coronavirus si rischia di perdersi e di disorientarsi. Molto spesso manca nel sistema informativo la capacità di fare ordine e di sistematizzare cifre che non sono mai auto-esplicative. Segnaliamo pochi esempi, tra cui la rubrica del vicedirettore di Sky TG24, Alessandro Marenzi (non a caso matematico di formazione) e i data-lab di Gedi e Il Sole 24 ORE.
Si parla di record di contagi, record di tamponi e via dicendo, ma la questione sostanziale è capire quali cifre effettivamente vadano tenute d’occhio per capire quanto la nuova corsa della pandemia si stia avvicinando a soglie preoccupanti. C’è un’analisi del sempre attento Pierluigi Fagan che ha una funzione informativa e sociale fondamentale indicando nell’andamento degli ospedalizzati e delle terapie intensive la chiave di volta. ” Il segreto dl potere ansiolitico di questi numeri è che d’un colpo, azzerano tutto il confuso vociare da social. Non c’è gente che si diverte a farsi ricoverare senza motivo e soprattutto abbiamo un servizio sanitario che è in grado di decidere con coscienza chi va ricoverato e chi no”, nota l’analista e studioso della complessità che più volte abbiamo avuto come ospite sulle colonne dell’Osservatorio.
Anche il numero dei morti, tornato a salire, risulta una derivata: la questione fondamentale è, come detto più volte, l’appiattimento della curva dei ricoveri, evitare dunque una pressione tale sul sistema sanitario da far esplodere esponenzialmente i ricoveri. Con 8.804 nuovi casi totali nella giornata del 15 ottobre per il secondo giorno di fila abbiamo battuto il precedente primato fatto segnare lo scorso 21 marzo. Allora i contagi furono 6.557, con 793 nuove vittime (a fronte di 83). I ricoverati in regime ordinario erano 17.708, contro i 5.796 odierni, mentre quelli in terapia intensiva erano 2.857, oltre 5 volte quelli attuali (586).
La curva dei ricoveri, però, sale continuativamente da fine luglio: il 24 luglio i ricoveri erano solo 713 e le terapie intensive 46, e allora come oggi gli ospedalizzati rappresentavano circa il 6% dei casi totali. In primavera, quando le capacità di tracciamento erano molto minori, i dati parlavano di un 24% dei nuovi pazienti positivi come severi (da ricovero) e oltre il 4% come critici (da terapia intensiva).La realtà è che, pur gradualmente, quella curva cresce e va tenuta d’occhio. Converge con questa visione anche l’invito all’attenzione rivolto nella giornata del 14 ottobre da Emanuele Catena, direttore della terapia intensiva dell’ospedale Sacco di Milano: “Ci sono elementi di forte preoccupazione. Non tanto legati al numero dei ricoveri in terapia intensiva, ieri in Lombardia avevamo 63 ricoveri effettuati nelle nostre rianimazioni, ma a preoccuparci è l’andamento dei ricoveri.”
La prevenzione rimane necessità ineludibile, e la serietà nella risposta rimane una necessità, ma (visto l’ultimo DPCM) alla possibile necessità di nuove restrizioni alla socialità è impossibile non associare un appunto e una legittima domanda circa cosa si sia fatto per passare da una logica puramente emergenziale a una di convivenza col rischio e prevenzione degli eccessi.
Mascherine e presidi sanitari restano indispensabili, certamente, ma ancor di più lo sarà nel lungo autunno-inverno che ci aspetta la rete preventiva fatta da medicina territoriale, pronta assistenza, capacità reale di tracciamento e isolamento dei focolai. O la stabilizzazione dei reparti più critici nelle aree del Paese non travolte nella prima fase: la Campania insegna che più che promettere i lanciafiamme, in primavera era necessario garantire alla sanità i respiratori e i posti letto. L’impreparazione alla pandemia può forse (ma abbiamo i nostri dubbi) essere rubricata a evento imponderabile, “cigno nero”, l’ascesa dei contagi autunnale era da attendersi nell’ordine delle cose dopo la tregua estiva. Ci si chiede perchè si stia andando nuovamente all’inseguimento e già dall’estate non si siano approntate strategie preventive per modulare interventi di rafforzamento alla sanità, eventuali chiusure e, soprattutto, un’agenda comunicativa meno isterica e paternalistica capace di invitare a una responsabilità condivisa tra cittadini e istituzioni.
Per ora i numeri ci dicono che ce la stiamo cavando meglio di Paesi come Regno Unito e Francia, dove la sicumera dei governanti è stata presto travolta dai fatti, ma il momento impone serietà e, soprattutto, programmazione. Quello che il governo Conte II non sembra aver voluto comprendere. ” Se prendiamo infatti in esame i mesi che vanno da maggio a settembre, notiamo che il governo ha perso il proprio tempo parlando di misure secondarie (citiamo, a titolo di esempio, il bonus monopattini e i banchi a rotelle) senza concentrarsi su un vero piano pandemico”, ha fatto notare Matteo Carnieletto su Il Giornale, indicando in cinque punti i fattori di maggiori criticità: tamponi (ci si chiede che considerazione abbiano avuto le autorità del piano da 300mila tamponi al giorno del virologo Andrea Crisanti), vaccini (grave la mancanza di governo e regioni di una politica sistemica sul fondamentale vaccino anti-influenzale, antemurale della lotta al Covid), consolidamento delle terapie intensive, trasporto pubblico e strategie volte a prevenire il rischio di un secondo lockdown. Leggere dati raffazonati senza capire cosa implichino e, soprattutto, come separare il grano dal loglio è fuorviante; non aver deciso come risolvere le criticità può risultare rovinoso. Una volta di più, scontiamo l’assoluta impreparazione a ragionare prendendo in considerazione l’evoluzione di fenomeni complessi.