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Geopolitica, finanza, classe dirigente: l’agenda strategica dell’Italia

Geopolitica, finanza, classe dirigente: l’agenda strategica dell’Italia

Dialoghiamo oggi con il professor Marco Giaconi sui grandi temi dell’agenda politica italiana, sul ruolo della classe dirigente e sull’inserimento delle sfide del Paese in un’ottica strategica. Buona lettura!

Professor Giaconi, la fase attuale sta segnando una grande evoluzione nel contesto degli equilibri economici e politici internazionali. Come vede lo scenario nel suo complesso alla luce degli sviluppi degli ultimi mesi?

Molti hanno fatto già osservazioni pertinenti. La Federazione Russa ha ancora un basso, in rapporto alla popolazione, tasso di infezione, 365 casi per milione, secondo i dati più recenti del Parlamento Europeo. Ma la reazione ospedaliera e politico-sanitaria al Covid-19 è stata particolarmente lenta, in Russia, con un sistema sanitario che è ancora evidentemente a bassi livelli di efficienza. Comunismo e Burocrazia, anche se oggi Putin è tutto meno che un “compagno”, lo diceva sempre Gaetano Salvemini, vanno sempre in coppia e si chiamano tra di loro. Come abbiamo visto anche noi in Italia. Senza spesa pubblica a gogò, niente socializzazione, vera o soprattutto presunta. Sempre per Mosca, la stabilità finanziaria è però sostanzialmente garantita, dato che il loro debito pubblico è oggi al 15%, mentre la media della UE è, ricordiamo, all’80%. Con riserve auree e di monete forti che stanno intorno ai 500 miliardi di usd. Dureranno certamente, i russi, e si prenderanno, in futuro, e senza particolari pressioni, le aree marginali della UE ai loro confini. Primo limite della geopolitica occidentalista, oggi: lottare contro la Russia, poi anche e simultaneamente contro la Cina, tentare infine una espansione in India e nel Sud-Est asiatico, ma il tutto senza soldi e con idee geopolitiche piuttosto vetuste. Né Mosca né Pechino, oggi, sono il classico dentifricio che non si può rimettere nel tubetto. Per ora, Cina e Russia si sono fortemente impegnate in quel che gli riesce meglio, la controinformazione e la psywar. Soprattutto dove gli serve, soprattutto in Medio Oriente e in Africa, dove la presenza di potenti influencer come Xin Wang, che opera soprattutto sui social, e lì ha milioni di “seguaci”. Servirebbe una nuova e intelligente Bretton Woods, invece dei tentativi maldestri di giocarsi le aree contese con operazioni maldestre e, nel caso degli occidentali, soprattutto pubblicitarie e ad usum delphini, ovvero la propria opinione pubblica. Come ha detto Joseph Borrell, “vi è una lotta di narrative nel mondo, in cui il tempo è il fattore cruciale”. Ma le “narrative” vanno bene per la rapida propaganda contemporanea, qui non si deve solo allungare il brodo delle tante chiacchiere, si deve operare davvero, e con idee anche rivoluzionarie.

Quali sono, a suo parere, gli scenari più caldi a cui guardare?

Si pensi alla Libia. O al Corno d’Africa. O al Pacifico. Qui, ci sono tutte “ferite aperte”, come quelle dell’America Latina secondo un bello e vecchio libro di Eduardo Galeano, ma in risposta solo conferenze e chiacchiericcio, chiacchiere e distintivo, soprattutto occidentale. O si dà un segnale di resilienza, come la si definisce oggi, o tutti sapranno che l’Ovest ha la “lingua biforcuta”.  In Usa la crisi da coronavirus, apertamente negata prima o oggi messa sostanzialmente tra parentesi, è probabile che porti prima a una vera e grossa crisi economica, poi a una vera e costante crisi della sicurezza nazionale. O si pagano ancora quasi tutte le operazioni in 149 Paesi, dove operano oggi infatti le forze Usa, o si spende per la salute. O un nuovo welfare state, sia pure post-rooseveltiano, oppure il patto sociale, e quindi la difesa, si destabilizzano da soli. Nessuno ha oggi elasticità di bilancio tali da permettere la doppia spesa in crescita, o nemmeno in equilibrio. Il che vuol dire che tutti, da ora in poi, dovranno lasciare temporaneamente i loro costosi giochi geopolitici, più o meno fantasiosi, e pensare un po’ di più alla loro spesa interna. Si pensi qui alla crisi da coronavirus dei Paesi Arabi, che metterà in ginocchio, probabilmente, sia i Paesi che estraggono a costi elevati, after tax, come l’Algeria, o anche gli Usa che hanno quasi solo shale-oil, costosissimo da estrarre, che quelli che sono privi di riserve finanziarie, come Giordania e Libano, quella Beirut che prima era sostenuta dai sauditi o, per l’area meridionale sotto controllo Hez’bollah, dagli iraniani, anche loro, ormai, in grave crisi interna. Un blocco relativo della globalizzazione come finora l’abbiamo conosciuta, quindi, e una crisi pericolosa di varie aree periferiche che prima scommettevano sempre sul sostegno dei loro fratelli maggiori. Questo è il primo meccanismo che è saltato, poi vedremo altri nessi che salteranno, come la pace sociale in UE, con l’Italia in subbuglio a Ottobre-Novembre e la Germania che, mentre scrivo, è in recessione tecnica, e ancora la Francia che è, ormai, messa addirittura peggio di noi per quel che riguarda il rapporto tra debito pubblico e spesa corrente. Alcune rating agencies danno le PMI italiane in crisi da pre-default entro novembre, peraltro. Le nazioni più “sviluppate”, termine che mi fa venire i nervi, ormai, sono in linea verso una contrazione del Pil tra il 25 e il 30%, nei prossimi mesi. L’ONU ci informa poi che il costo globale della pandemia da Covid-19 sarà intorno ai 220 miliardi di usd, mentre anche il Recovery Fund europeo andrà, ma saremo già fuori tempo massimo, su un totale di pochissime centinaia di milioni di euro, probabilmente poco più di 500, da distribuire, dopo la sentenza della Corte Costituzionale di Karlsruhe, città splendida, peraltro, con il criterio di Fedro, quia sum leo. E a noi ne andranno circa 100, di miliardi, in gran parte a debito e in scarsa quota, lo vedrete, come dazione gratuita. Tralasciamo qui la farraginosità del Recovery Fund, che è solo un altro e grave costo. I cinque Paesi del Nord Europa, decisi a farla finita con il terribile cattolicesimo romano del Sud (queste cose contano ancora) proponevano che il pacchetto Ue del Recovery valesse appena 350 milioni di Euro. Il Sud, Francia compresa, propone anche oggi mille milioni di Euro. Uno strumento, il Fund, che sarà, probabilmente, garantito anche dalla BEI (Banca Europea deli Investimenti) e da altri Enti. Non cambierà nulla, quindi. Nessuno, al di là delle piccole beghe di cortile, si salverà davvero, nell’Unione Europea. La mentalità del beggar thy neighbour si rivolgerà contro chi la usa. Ma noi, intanto, saremo in crisi nerissima. Chi crede ancora nelle “magnifiche sorti e progressive” si farà più male degli altri, alla lunga. Oggi, nel giorno in cui scrivo, i maggiori quotidiani italiani scrivono che, ogni giorno, fuggono dall’Italia 16 miliardi. Ma ci saranno ben altri “buchi” finanziari, fino alla fine della Via Crucis del coronavirus.

  E i tanti marchi in mano ai cinesi, per esempio, da Candy alla Berloni, dalle penne stilografiche Omas bolognesi, dai carrelli elevatori OM fino a tutte le 740 PMI già acquisite dalle imprese o dalle banche cinesi, saranno solo il battistrada di una acquisizione che, poi arriverà alle grandi reti informatiche, al farmaco, all’elettronica fine e alle tecnologie di controllo-gestione dei trasferimenti informatici. E’ quello che qui interessa. Altrove in Europa la Cina comprerà altro.

L’Italia è tra gli Stati maggiormente impattati anche dal contagio economico e dall’instabilità politica. Come e su cosa ritiene che l’evoluzione del contesto globale stia influendo sugli scenari italiani? C’è una similitudine con la destabilizzazione del Paese tra il 1992 e il 1994?

Si e no. Nel 1992, ci fu una operazione, anche di Servizi “alieni”, che puntavano alla distruzione di una classe politica che era, certamente, “costosa”, anche per il peso finanziario che accollava alle imprese e alla “società civile”, un tema, talvolta un po’ stucchevole, che nasce in quegli anni, ma che aveva garantito la pace sociale, una crescita economica faticosa ma diffusa, anche in fasi di alto indebitamento pubblico, un mantenimento accettabile del welfare state. Dopo, costosa sarà, per le imprese, la burocrazia, che si prenderà una quota rilevante delle “mazzette” prima destinate alla politica. Vale ancora qui la vecchia battuta di Talleyrand, “chi non ha conosciuto l’Ancien Règime non potrà mai sapere cos’era la dolcezza della vita”. In Italia, comunque, il massimo delle esportazioni va verso gli Usa, almeno dal 2018. Con una quota di espansione notevole, che è un problema geopolitico, verso l’UE. La dipendenza delle PMI italiane dalle banche, poi, che spesso non sanno proprio fare il loro mestiere, è un ulteriore elemento di crisi per la PMI. I loro manager “creano valore” per gli azionisti, quindi se ne fregano di fare i bravi banchieri, arte ormai perduta, e si limitano a far crescere il fatturato, costi quello che costi. Dovrebbero occuparsi di pelati di pomodoro. Dal 2008 ad oggi, la media del credito bancario è sempre scesa, fino ad arrivare ad un -6,4% per il 2019.

Il tempo medio di riscossione delle fatture delle imprese è però sceso da 86 a 79 giorni, mentre la media europea è oggi di 34 giorni. L’aumento del fatturato, dopo gli anni bui, è salito fino al +16% medio, per tutte le PMI, ma l’aumento del fatturato non ha coinciso con l’aumento degli indici di redditività, che però sono ancora stabili. Ci vorrebbe, e so che la stanno già facendo, una “Mediobanca per le Piccole e Medie Imprese”. Il coronavirus, peraltro, aumenta il già pericoloso divide tra Nord e Sud dell’Italia, dove ormai il poco di impresa che rimane aspetta, date le incredibili lentezze dello Stato, solo la “mano” delle mafie. E’ duro dirlo, ma è così. Che è già all’opera. E che sta vincendo. SOS Impresa, l’associazione di Confindustria che si occupa di mafie e di economia “bianca” da esse penetrata, ci dice che oggi, con una perdita di 100 miliardi di fatturato, con la ‘ndrine che hanno già fatturato in “usura buona” 24 miliardi. Quasi 8 mila soci, azionisti o amministratori di aziende del Centro-Nord sono legati da vincoli familiari a clan ‘ndranghetisti. Due milioni di PMI sono oggi a rischio infiltrazioni. L’economia di tutta l’Eurozona diminuisce poi con un tasso che è il più veloce dell’Occidente, così ci dice oggi il Financial Times. Niente vieta che anche in Germania o in Francia la criminalità organizzata faccia poi quello che sta facendo oggi in Italia.  Gli investitori guardano però, oggi, solo alla BCE, per avere altri stimoli dopo il futuro, probabile, declassamento dell’Italia. Poi, c’è il lancio di obbligazioni “al dettaglio” per il finanziamento del coronavirus. Con un rating per i nostri titoli che è appena sopra quello del junk bonds, ma non c’è molto altro da fare. E non basterà di certo. Andremo verso un declassamento strutturale della nostra economia, un declassamento, per essere chiari, che è simile a quello di quando abbiamo subito l’Euro (che abbiamo voluto, comunque, sperando che la nuova moneta ci permettesse un bel ritorno dell’indebitamento fresco fresco e una ridistribuzione delle “dazioni” ai partiti) tra quelli nuovi e quelli vecchi, bollati come “corrotti”. Ma in quel momento si poteva fare anche di meglio, solo che non lo si fece, e si aspettò nel solito “amico esterno”, che non arrivò. Ecco, la crisi attuale è ben più rilevante di quella del 1992, dove gli equilibri nuovi dicevano una sola cosa: la presa del Nord da parte della Germania, presa che poi si è spostata ai Balcani, e questo spiega molto della “Lega Nord”, e la fine del Limes postbellico, con una caduta verticale del nostro potere contrattuale e strategico, visto che il Patto di Varsavia non c’era più. Cossiga queste cose me le ripeteva di continuo.

Ritiene realistico lo scenario di un conflitto tra cordate filo-cinesi e cordate filo-atlantiche nel potere italiano? Lo “schema Draghi” ipotizzato da molti media ricorda lo “schema Ciampi” del 1993?

Sicuramente. La Cina possiede, secondo un mio vecchio documento, che certamente dovrebbe essere oggi aggiornato, tramite 172 gruppi cinesi, esclusi quelli di Hong Kong, moltissime aziende italiane. A vario titolo, naturalmente. La Cina vuole l’Italia perché comprende perfettamente, non hanno studiato strategia a Pomigliano d’Arco, che il nostro Paese è l’asse del Mediterraneo, ed è proprio quello che loro vogliono per chiudere la loro nuova “Via della Seta”. Inoltre l’Italia è il Paese più debole della NATO, quello che ha meno sostegno popolare per UK e Usa, dopo le loro reazioni alla nostra pandemia, anche se gli Stati Uniti hanno mandato sostegni come gli altri e, diversamente dalla Cina, non si fanno pagare, poi, certo, alcuni Partiti che tifano Maduro o altri, il che agli Usa non va certo giù. Senza dimenticare la questione del 5G e di ZTE, cosa che gli Usa ritengono, giustamente dal loro punto di vista, dirimente, e inoltre Washington ha già notato, a parte l’oscura questione della visita del ministro Barr a Roma, come la accettazione del 5G in Italia comporti automaticamente la degradazione della nostra intelligence, che non avrebbe più la sua quota di SIGINT dagli Stati Uniti.  Gli Usa sono ancora, largamente, il primo mercato per le nostre PMI fuori dalla UE, con un interscambio da oltre 100 miliardi di usd. Oltre un surplus commerciale di 33 miliardi di dollari per i solo beni e che è comunque attivo anche nel Terziario. Gli Usa non sono peanuts, nemmeno oggi, per l’economia italiana. Solo che intercettano, è ovvio che sia così, un mercato medio alto degli Usa, mentre i cinesi puntano alle infrastrutture, alle PMI di nicchia (i motorini Morini) e al lusso e alla moda. Sarà una lotta all’ultimo sangue, tra Usa e Cina, ma sul nostro territorio economico. Le partecipazioni cinesi, per oltre il 10%, sono presenti in oltre 410 imprese italiane, per un totale di 23.400 dipendenti e di 14 miliardi di euro di fatturato. Sono dati non molto aggiornati, oggi sicuramente la quota è in crescita. L’Italia è il terzo Paese, come stock di fatturato, è insomma il terzo Paese europeo, dopo Gran Bretagna (e qui ci saranno tra poco due centrali nucleari in attività, entrambe con capitali cinesi) e Germania, a prendersi il grosso degli investimenti cinesi.  Se, come ormai il meccanismo della “Nuova Via della Seta” cinese è quello di arrivare al Mediterraneo, potremmo pensare ad una nuova guerra fredda, in cui, diversamente da quello che si poteva verificare ai tempi della prima, il pomo della discordia da controllare egemonicamente non è la “grande pianura europea”, come la chiamava Raymond Aron, citando implicitamente Hegel, ma proprio il Mediterraneo.

Quali potrebbero essere le conseguenze di una penetrazione cinese in forze tra Italia e Mediterraneo?

Se la Cina controllasse, in termini strettamente geo-economici, il Mare Nostrum, allora l’unione tra penisola eurasiatica e Landmass euro-asiatico, l’obiettivo che mai alcuno doveva poter realizzare, come ci ricordiamo dai tempi dei testi più famosi di Brzezinsky, sarebbe comunque raggiunto. E, certamente, nella penisola italiana si realizzerebbe di nuovo quel particolare condominio tra Cina e Usa che, prima, si era concretizzato nel rapporto tra NATO e Patto di Varsavia. Con relative partite economiche. Chi sono le forze politiche italiane che farebbero da “argine” alla preponderanza cinese? Impossibile prevederlo. Tutte sono candidate, in qualche modo, a questo premio parlamentare. C’è la Lega Nord, che è cascata nella melma russa, ma come un bambino, mesi fa. Poi ha fatto gli occhi dolci con Bannon, e poi è arrivato un incontro, sostanzialmente scortese, tra Salvini e Mike Pompeo. Non si cambia in no time, in politica estera. Infatti, la photo-opportunity che tanto Salvini voleva con Trump non c’è stata.  Proprio nelle more della caduta del governo giallo-verde. C’è il PD, che ha bisogno di referenti internazionali, proprio quando gli Usa sono in tensione elettorale e nessuno dei due candidati sembra molto curarsi dell’Italia, sempre meno rilevante nel quadrante mediterraneo e mediorientale. E anche i democratici Usa, adorati dal nostro provincialismo PD, pari ed eguale a quello del centro-destra, non sono interessati al quadrante italiano, nemmeno se se lo prendesse, oso dirlo, una quota di Cina. L’Italia è entrata nel dimenticatoio geopolitico. Lo ha scritto in Libia e lo ha dimostrato anche altrove. Mai generare segnali opposti continuamente. E’ il modo di arrivare a una schizofrenia che gli psichiatri di Palo Alto, negli anni ’80, descrivevano come “doppio legame”. Una metafora perfetta.

   I “Fratelli d’Italia” di Giorgia Meloni sono, ormai, interni al meccanismo di Steve Bannon e della sua squadra di influencer politici. Come accadde anche al MSI, che era l’ultima ruota a destra del “partito americano” in Italia, che partiva dal PRI al centro-sinistra, poi copriva una quota non irrilevante della DC e infine finiva, infatti,  al vecchio movimento sociale, nato peraltro nel 1946, credo su ispirazione del Ministero degli Interni e di altri, soprattutto per inglobare quella buona e gran parte della militanza di Salò che aveva già assaggiato, in qualche significativo caso, le sottili lusinghe del PCI, il quale aveva organizzato, diretta da Giancarlo Pajetta, una campagna per la seduzione, in termini qui letterali, di buona parte della militanza della RSI nei suoi quadri dirigenti. Saranno costosi, ma inutilmente, per i cinesi o per gli Usa, i partitini intermedi, le reti dei piccoli leader, le consorterie elettorali, ma ancora oggi tutto questo sell and buy rimane imprevedibile. E comunque, visto che la potenzialità strategica e geopolitica dell’Italia sarà ben minore a quella che si realizzò all’inizio della guerra fredda, arriveremo ai prezzi di realizzo e ai saldi.

La partita dei “due forni” tra Usa e Cina su temi come la difesa, la cybersicurezza e le nuove tecnologie è sostenibile?

 La Fase 1 della tregua commerciale, firmata tra il premier cinese Liu He e il presidente Usa Donald Trump, nel gennaio scorso, sancisce una tregua anche sulla cybesecurity. Il 5G è vero il pomo della discordia, lo sappiamo ormai tutti. Trump vuole la completa sicurezza delle sue reti cyber e il 5G cinese è in cima ai pensieri più funesti di tutto il sistema tecno-industriale Usa. E sono questi gli argomenti primari con i quali Washington tratta con i suoi alleati europei. La questione è molto semplice: se alcuni alleati europei degli Usa si affideranno, in seguito, alle reti 5G cinesi, allora si bloccherà immediatamente quel flusso di dati di intelligence che gli americani hanno sempre fornito all’Europa Atlantica. Quindi, aggiornare bene l’intelligence, che è un costo non trascurabile, o rimanere in questa rete Usa che garantisce ancora i “pace dividend” della fine della guerra fredda, pagati dagli Usa. O fare da soli, con costi colossali, o accettare l’offerta di Washington.  Si pensi alla partecipazione, recente, dell’Italia alla rete Five Eyes, risultato della nostra buona partecipazione militare alla guerra in Iraq. La recente legge sulla partecipazione all’intelligence delle grandi imprese cinesi, partecipazione obbligatoria, beninteso, ha reso sempre più sospettosi gli Usa, e gli americani fanno intendere che la tensione sul 5G sarà un punto di caduta per tutti i tipi di rapporti economici, politici, militari tra loro e i Paesi UE. Ma, dicono ci dicono i dirigenti Usa, i “nostri timori non sono legati al solo spionaggio”. Non credo, però, che il governo Conte, o anche altri che potessero sostituirlo, capisca la gravità o il modo, semplice, di risolvere alla fine la questione. Il comportamento dei dirigenti della Lega al Metropol di Mosca, la ingenua mancanza di correlazione tra scelte “terzomondiste” e sgangherate anche in America Latina, rimesse in lingua italiana ma con referenti Usa, anche di questo Governo italiano attuale, ci fanno pensare che, alla fine, il problema sarà solo quello della totale irrilevanza strategica e geopolitica dell’Italia, ironicamente e continuamente sottolineata dai nostri “alleati”. O lasciarli nelle loro inutili secche ideologiche, dicono in Usa (ma anche a Pechino) e fare politica estera e investimenti altrove, in Maghreb, in Medio Oriente, nei Paesi maggiori UE, nell’Est post-Patto di Varsavia, in Africa, nel Nord-Europa minore, oppure lasciarli nel loro brodo.

Che ruolo gioca il Quirinale in questa partita?

Molto importante. Il Quirinale di Mattarella, che è stato anche un apprezzato e stimato Ministro della Difesa e, oggi, un leader riconosciuto ed esperto nella macchina decisionale del Servizio e del CISR, è un punto di riferimento inevitabile, e che lo stesso Presidente Mattarella ha reso tale, rapidamente, per tutti gli alleati primari internazionali dell’Italia. E il coordinamento che il Quirinale oggi mette in atto tra le varie strutture dell’intelligence e delle FF.AA. italiane, quello che conta, alla fine. E questo gli “altri” lo sanno benissimo, e parlano con il Presidente Mattarella quando il gioco si fa duro. Peccato che la Legge di Riforma dei Servizi n. 124 del 3 agosto del 2007, con tutte le sue ambiguità, abbia incentrato il ruolo di capo politico del Servizio nelle mani del Presidente del Consiglio, che va e viene, ma abbia comunque in qualche modo trascurato la Presidenza della Repubblica. Temi di riforma del CISR si intersecano con il dibattito strategico, e sarebbe bene che, nel vasto capo degli aggiornamenti della nostra Riforma dell’intelligence, ci fosse anche questo, ovvero il nuovo ruolo della Presidenza (e quindi del CISR) nella direzione dei Servizi. Pardon, Agenzie.  Per non parlare delle reti imprenditoriali e informative private, ridotte oggi a poco, anche in una normativa che, all’origine, pensava di sburocratizzare o di “modernizzare” il Servizio. Ci dovrà essere, ora che rimarremo sempre più soli (e che la crescita anomala di certi partiti non sia stata preordinata da “fuori”?) una rete di intelligence economica delle PMI, ma non solo, che operi stabilmente dentro il CISR e che salvi il salvabile. Prevedo una lotta alla nostra rete delle PMI con acquisizioni strane e immediate, non solo della criminalità organizzata, ma anche di altri, di molti altri.

Come valuta il ruolo giocato dal Copasir, dagli apparati di intelligence e da istituzioni come la Consob nella tutela dei nostri asset strategici in questa fase di crisi?

In linea di massima, il Copasir diretto prima da Giacomo Stucchi, che è stato lucido e pratico, poi da Guerini, ora Ministro della Difesa, e oggi da Raffaele Volpi, altro leghista come Stucchi, ha funzionato molto bene. Da non dimenticare anche il ruolo di Adolfo Urso, che di Servizi ne sa moltissimo. Certo, il Copasir è molto cambiato, prima si riuniva solo per le Feste, ora fa il cane da guardia, attento e con particolari poteri, del Governo e delle altre Istituzioni, anche private. Ho notato con piacere le audizioni del Comitato per i tentativi esteri e ostili di acquisizione di banche e assicurazioni, ben note, l’attenzione alle “app” per la tracciatura del Covid-19, la strenua attenzione sulla questione del 5G. Oggi il Comitato non funziona tanto come cane da guardia delle  Libere e Democratiche Istituzioni contro le eventuali “prepotenze” dei Servizi, che era, probabilmente, la ratio iniziale della norma, sempre figlia delle chiacchiere sulle “deviazioni” del Servizio, che non ci sono mai state, ma sono state casomai esecuzioni di ordini complessi e da varie fonti autoritative, quanto come organismo parlamentare tra il tecnico e il politico, per vedere bene e costantemente il cosa e il come. L’idea che un Servizio possa “deviare”, per chi lo conosce, fa ridere i polli. Se “devia”, è a causa di un ordine che è stato emanato dalla autorità politica e che il Direttore del Servizio, che lo ha ascoltato, ha anche fatto eseguire. E allora la responsabilità è in capo al responsabile, appunto, politico. Se invece è una “deviazione” del Servizio stesso, allora sono responsabili in primo luogo il Direttore, poi il funzionario che lo ha eseguito. Tertium non datur. Tutti gli onanismi convulsi di certi organi di stampa, negli anni ’70 e ’80, non hanno quindi nessun fondamento. Un settimanale, molto attento a questi problemi, poteva poi chiedere, in quegli anni, a un suo collaboratore gastronomico, che avrebbe potuto illuminarli molto bene. I Servizio non è un condominio, ma una struttura riservata dello Stato, e risponde solo e unicamente ai responsabili politici che sono stati individuati dalla legge.  Finora, il Copasir ha anche innovato sul piano delle audizioni. Come abbiamo già notato. Il 22 aprile scorso, per esempio, il Comitato ha audito Consob, l’AISE, alcuni amministratori di banche importanti, o la Borsa, la “app” IMMUNI, il sistema bancario-assicurativo, ecco tutta una serie di interessi nuovi che il Copasir fa molto bene a analizzare in termini di intelligence. Che è l’unico criterio che ormai conta, in queste cose.

La crisi impone un ripensamento delle priorità politiche sugli aspetti industriali e produttivi. Emanuele Felice, accademico e esponente di primo piano del PD, ai nostri microfoni ha dichiarato come prioritario il ritorno a una sana politica industriale, evocando anche il nome dell’Iri. Lei che idea ha a riguardo?

L’IRI è un sogno che non ritornerà. Non può ritornare. Nessun sistema industriale moderno ha, oggi, un nucleo esplicito di industrie di Stato stabilmente definite. I tempi sono più stretti, e nella fase eroica dell’IRI, ma qui si deve distinguere l’IRI “fascista” che copre in buona parte l’Italia dalla grande crisi originatasi nel 1929 in Usa, dall’IRI “repubblicana” che ricostruisce la rete di grandi imprese che permetteranno, insieme, la Ricostruzione e l’inizio del nuovo Welfare State. I tempi di definizione dell’interesse nazionale industriale e economico sono oggi troppo rapidi, mobili, non necessariamente legati alle grandi masse da occupare o ai grandi capitali da muovere, o anche troppo raffinatamente tecnologici, e quindi di intelligence, e infine sempre più attenti a una evoluzione tecno-finanziaria che è più veloce, spesso, della innovazione di prodotto-processo. Ci sono certamente necessità di protezione del nucleo produttivo, tecnologico, di mercato, del nostro sistema economico, ma non sarà certo una nuova IRI a ricomporlo. Questo è il vero problema che i migliori studiosi agitano parlando di Nuova IRI. Un nucleo di comando dell’economia, fatto di tecnocrati bravissimi, come erano quelli che, in fase fascista o democratica, hanno tenuto in piedi l’IRI. Abbiamo, con l’IRI, fatto, e a buon prezzo, l’Autostrada del Sole, il grande Ponte del Bosforo, ora il FrecciaRossa in Spagna, infinite opere pubbliche che durano anche ora, la STET, all’avanguardia mondiale in quegli anni, e altre mille e mille operazioni che ci hanno fatto crescere, in pochi anni, come mai prima era accaduto. Tutto vero, ma oggi fare impresa è diventato un’altra cosa. Certo, ci sono le grandi imprese delle opere pubbliche, ben coperte anche dal Servizio, le nuove reti di area CDP, alcune banche che fanno ancora sistema. Tutto bene, ci mancherebbe, ma certi settori li abbiamo persi ed altri sono da fare in condominio con altri Paesi. Penso alla Francia nella Difesa o nella cantieristica, o ad altre iniziative che, ormai, non possiamo più fare da soli. E’ un bene? E’ un male? Non lo so, ma i fatti sono quelli. Immagino, piuttosto, un sistema leggero di coordinamento tra imprese, banche, governi, intelligence, che sia rapido nelle trasformazioni e che si occupi soprattutto di rinnovamento tecnologico. Oggi, nessun sistema fisso e preordinato di imprese regge alla sfida del tempo.

La classe dirigente industriale e burocratica in che condizione versa? Assistiamo a un crescente fenomeno di sliding doors, ad esempio recentemente Luciano Carta ha potuto congedarsi con la liberazione di Silvia Romano dai vertici dell’Aise per passare alla guida di Leonardo-Finmeccanica. Sta nascendo una burocrazia securitaria nel nostro Paese?

 E’ assolutamente normale che un dirigente di prestigio dell’AISE come Luciano Carta sia andato a dirigere, dopo la sua presenza nei Servizi, una impresa come Leonardo-Finmeccanica. E chi altri poteva andarci? Per non parlare dell’amb. Massolo, ottimo capo del DIS e poi, ancora oggi, presidente di Fincantieri. Certo, questo meccanismo è nuovo, nella gerarchia dei poteri italiani, dove queste cariche ufficiali spesso non avevano nessun rapporto di carriera e ufficiale con l’intelligence. Ora ritornano, queste cariche, ai loro legittimi possessori, dato che le sliding doors tra Servizi e alta dirigenza statale sono esistite ovunque, penso al fondatore della Total francese, Guillemet, uomo dei Servizi francesi, e a tante aziende Usa che sono nate nell’ambito delle operazioni di CIA e NSA. Per non parlare delle agenzie di consulenza e di analisi, privatissime, negli Usa, ma del tutto integrate con il deep State che, non da oggi, domina le reti informative, pubblicitarie, amministrative degli Usa. E’ del tutto normale che sia così, era quindi anormale che questo non accadesse in Italia, dove la tradizione della “Prima Repubblica” di politicizzare tutte le cariche è venuta oggi meno, per un distacco evidente tra classe politica e partitica e “élite del potere”. Ma, certamente, certi vecchi “boiardi di Stato” avevano rapporti con la nostra intelligence, e con quelle altrui, che spesso, oggi, molti dirigenti che, magari, vengono proprio dai Servizi manco se lo sognano.  I Servizi si sono regolarizzati, anche presso la pubblica opinione, dopo aver confessato quello che non avevano fatto o, se l’avevano fatto, era stato per ordini felloni e pericolosi di qualche politico, noto o meno, della “Prima Repubblica”. Per trasformarsi, sono diventati meno importanti e però più integrati nell’élite del potere, mentre la stessa élite ha perso di smalto, potere e carisma con la fine della “Prima Repubblica”. Una lotta tra cose molto più piccole di quanto non fossero prima.

L’Italia è uno dei paesi del mondo occidentale con il più alto livello di risparmio privato, appetibile per diversi attori stranieri. Nel sistema finanziario sono emerse varie proposte di attori come quella di Bazoli e Tremonti sul “prestito nazionale”, a cui si aggiungono cinque proposte lanciate su il Sole 24 Ore da Carlo Messina per ridurre il debito. Paolo Savona in più occasioni ha lanciato un invito a irreggimentare la finanza in funzione della crescita. Queste dichiarazioni sembrano lasciar presagire un ralliement dei settori più lungimiranti della nostra classe dirigente. Che giudizio ne dà?

Tutte proposte razionali. Ma perché creare un filo rosso tra debito privato e debito pubblico? Certamente occorre irreggimentare, come dice Lei, la finanza in funzione della crescita. Ma perché rapinare i fondi privati? Si possono pensare altre soluzioni, alle quali i capitali privati interni possano accedere con qualche tranquillità. Un Fondo Strategico garantito dagli immobili di Stato, ma tutti, senza errori. Oppure un Fondo che raccolga risparmio privato ma che possa emettere titoli, come la Cassa Depositi e Prestiti. Oppure, ancora, una Mediobanca delle PMI che possa raccogliere fondi privati e emettere Titoli di debito. E, ancora, una emissione di Titoli (e qui ricordo la proposta di Tremonti) che possa essere particolarmente appetibile, a medio e lungo termine, per il pubblico privato, ma a questo punto non solo italiano. Messina propone una serie di bond sociali, un uso razionale del TFR, l’accelerare della crisi. Tutte idee intelligenti. Ma il presupposto è quello di utilizzare, con le dovute attenzioni, il risparmio privato per ritornare ad essere grandi esportatori con le nostre PMI. E se questa scommessa non fosse più del tutto vera? E se UE, altri concorrenti mediterranei, altri lontani, ci sostituissero nelle nostre produzioni-chiave, utilizzando la pandemia e la nostra crisi interna? Sul debito pubblico, Messina ha poi mille ragioni: troppo alto, ma noi abbiamo 10 trilioni, tra risparmi delle imprese e quelli delle famiglie. Fare quindi nuovi titoli del debito pubblico, ad uso soprattutto interno, che mobilizzino il risparmio dei privati, che è inserito nel sistema dei titoli del nostro debito pubblico solo per un misero 4%. Una prospettiva “giapponese”, mi sembra di dedurre. Tutto vero, ma se quella grande massa di raccolta dei privati fosse necessaria soprattutto per far ripartire la produzione, visto che la raccolta bancaria è positiva solo per una piccola quota di clienti, e invece critica per moltissimi altri? E, certo, una quota potrebbe andare allo Stato, ma occorrerebbero titoli “frizzanti” e a lunghissimo termine. Anche Tremonti, poi, pensa a titoli di Stato a lunghissima scadenza. Il fatto è che, oggi, alla gente servirà il risparmio, visto che dovranno mantenersi dentro a una crisi dai tempi imprevedibili e che sanno di dover risolvere da soli. Ma, certo, si tratta di buone idee. Che, invece di pensare alla solita “patrimoniale”, folle in questo momento, potrebbero essere utilizzate da Bankitalia e dal Governo.

L’Italia ha le capacità e le forze per rilanciarsi dopo il superamento dell’emergenza sanitaria? Paragoni permettendo, chi (e dove) sono i Mattei, i Mattioli, i Vanoni, i La Pira capaci di diventare i nuovi artefici dello sviluppo?

I grandi uomini nascono per conto loro. Certo, le grandi élites, come quelle riferibili agli uomini che Lei ha citato, nascono da una guerra (vinta o persa poco importa) e da una tradizione. Per Mattei, ci fu il primo innamoramento verso il fascismo, poi rapidamente rinnegato, la vita scapestrata da ragazzino, la piccola borghesia marchigiana, la voglia di vincere, una “certa idea dell’Italia” che era insieme De Amicis, Pareto, Carducci e Il Savoia-Marchetti che romba sulla pista. Chi deve vincere lo sa dall’inizio, ma ci si prepara in ogni momento della vita. La Pira? Un cattolico vero, come quelli che hanno fatto la Democrazia Cristiana, che nasce nello studio di un notaio ai Parioli, padre poi di un bravo diplomatico, ma che si fonda nelle idee del “Codice di Camaldoli”, tra personalismo di Mounier e teorie avanzate sull’economia di Stato. Certo, Mattei rispondeva di notte alle telefonate di La Pira, che gli chiedeva di salvare il Nuovo Pignone fiorentino. Quindi, niente formalismi e molto cameratismo, così nascono le vere élites. Raffaele Mattioli? Un uomo di raffinatissima cultura, editore in proprio e lui, anticomunista e liberale della scuola di Benedetto Croce, che salva i quaderni dal carcere di Gramsci. Certo, non usciva Mattioli da quelle scuole di management dove si imparano formuline da quattro soldi. Usciva dalla Vita: dall’esperienza, di banchiere e di intellettuale tra i più brillanti dei suoi anni. Ezio Vanoni? Un uomo di Morbegno, che va a studiare in Germania con una Borsa di Rockefeller, poi si scopre antifascista, ma anche cattolico, tramite il suo amico, concittadino e collega Paronetto. Ricetta? Studi seri, quando Giorgio Bassani doveva parlar male di qualcuno, lui fin troppo beneducato, diceva “quello non ha fatto studi regolari”, ed era la massima offesa che Giorgio poteva immaginare.

 Poi la Provincia, che è la vera natura dell’Italia. È il Liceo severissimo, la famiglia tradizionale ma anche piena di risorse di carattere e intellettuali, è la conoscenza delle nostre storie politiche. Chi non è mai passato da una sezione di qualsiasi vecchio partito della “Prima Repubblica” non sa cos’è la passione politica, il rapporto con le masse, la militanza, il rituale dello scontro pacifico. Poi, il Lavoro. Quando Giorgio La Malfa andò a trovare proprio Mattioli, a Mediobanca, il vecchio banchiere gli chiese “cosa fai?” E Giorgio La Malfa gli rispose: “Ora studio giurispudenza a Roma, poi vorrei occuparmi di economia”. “Bene-rispose un po’ scandalizzato Mattioli- ma non vorrai mica fare solo lo studente? E’ cosa indegna. Vieni qui, c’è un concorso a Mediobanca, vediamo se sei abbastanza bravo per superarlo. Mai studiare come mestiere”. Ecco, è la tempra, l’esperienza degli uomini e delle cose, il carattere e la formazione ampia e, aggiungo “popolare” che costruisce le grandi élites.

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Bresciano classe 1994, si è formato studiando alla Facoltà di Scienze Politiche, Economiche e Sociali della Statale di Milano. Dopo la laurea triennale in Economia e Management nel 2017 ha conseguito la laurea magistrale in Economics and Political Science nel 2019. Attualmente è analista geopolitico ed economico per "Inside Over" e "Kritica Economica" e svolge attività di ricerca presso il CISINT - Centro Italia di Strategia e Intelligence.

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