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Il futuro del Paese passa per la rinascita della scuola italiana

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Il futuro del Paese passa per la rinascita della scuola italiana

Nel mondo del politicamente corretto che domina incontrastato soprattutto nel mondo della scuola non c’è più il coraggio -e sovente neppure la capacità intellettuale-di descrivere la realtà per quella che è. D’altronde vi sono insegnanti che si riempiono la bocca di globalizzazione e neanche sanno quale sia il ruolo del Canale di Suez nella globalizzazione (ma ne conoscevano il ruolo prima dei recenti eventi?)

Un coraggio questo che invece non manca alla docente e saggista Paola Mastrocola autrice di uno splendido saggio sulla scuola italiana edito nel 2011 da Guanda dal titolo: “Togliamo il disturbo. Saggio sulla libertà di non studiare“.

Allo scopo di far comprendere al lettore qual è la realtà effettuale della scuola-direbbe Machiavelli-ci limitiamo a riportare per estenso alcuni brani che a nostro avviso sono fra i più significativi del saggio.

La lingua italiana : questa sconosciuta

“Non è più possibile insegnare a scrivere, a ragazzi che hanno quattordici anni e che per otto anni hanno fatto una scuola che non glielo ha insegnato. Vorrei spiegare perché non è più possibile, usando degli stralci di temi dei miei allievi di prima (opportunamente camuffati e trasfigurati). Prendiamo un tema sul viaggio, su come nel tempo si è trasformata l’idea del viaggio, da Ulisse in poi. L’argomento del tema comunque qui è irrilevante, badiamo innanzitutto a come si scrive, a quali sono le gravi incapacità. Devo premettere che sono gli ultimi temi della prima liceo, quindi sono il risultato di un anno intero del mio insegnamento.

Spesso il viaggio era fatto di episodi molto tragici, come la distruzione di una nave per una tempesta, lo sbagliare della strada.

Questi viaggi di Ulisse erano fatti di tristi vicende perché aveva inoltre l’ira divina contro di lui.

Il viaggio poi da episodio tragico è diventato frutto di esplorazioni e scoperte di nuove terre. Nelle quali coltivare nuove piante o per trovare cose non ancora scoperte.

Il brano che parla del ritorno di Odisseo l’ho trovato molto analogo a ciò che avviene nel Sabato del villaggio di Leopardi.

Nell’antichità a oggi diventare eroi non è e non sarà mai facile, però c’è molta differenza.”

Nell’antichità l’eroismo era soprattutto in guerra come Ettore che è diventato un’eroe per Troia, perché è andato a combattere contro achille che è molto più forte di lui ma è anche un semidio perché aveva uno dei due genitori divinità e l’altro umano quest’ultimo era un eroe perché con le sue arti di guerra aveva ucciso molte persone in battaglie, però poi è stato ucciso perché aveva un punto debole al tallone.

Ci sono alcune persone che hanno passato tutto questo che forse non sono neanche esistite, ma secondo la mitologia sìì

Unico commento possibile, a caldo: non sanno scrivere.

Siccome hanno avuto me come insegnante di italiano, e siccome va molto l’idea di valutare l’insegnante dai risultati dei suoi allievi, io dovrei come minimo essere licenziata. Ho cercato, in vari luoghi, di dire quanto sia drammaticamente impossibile ottenere che ragazzi mai abituati alla scrittura a quindici anni imparino a scrivere. Bisognerebbe farlo presente al Ministero, e anche all’Europa. Ma, detto ciò, non ho nessuna scusa: i miei allievi non sanno scrivere. Vorrei farvi notare che negli esempi sopra citati, purtroppo, non si tratta solo di errori ortografici, i quali sarebbero circoscritti e correggibilissimi. Si tratta di ben altro: mancanza quasi totale della punteggiatura, cambio di soggetto tra due frasi sintatticamente unite, improprietà lessicale, incapacità di strutturare il pensiero in frasi logicamente connesse tra loro. Nonché errori categoriali, come quando si dice che «un brano è molto analogo a ciò che avviene in una poesia», oppure che «il viaggio è frutto di nuove scoperte».”

Come si correggono temi tali? Ovvero, come si aiuta a strutturare il pensiero? Non certo facendo corsi o lezioni di scrittura creativa, né chiamando in classe l’esperto in materia, in genere lo scrittore di successo o il giornalista. Sono temi, questi, che non si correggono. Voglio dire: non basta una semplice correzione. Errori tali non valgono in sé, ma come grave segnale di una disabitudine cronica alla scrittura, di un costante e pervicace non-uso di tutti gli strumenti mentali che presiedono alla scrittura. Disordini del pensiero. Ma direi, più in generale, una disabitudine al pensiero, alla riflessione, allo stare (fermi) su un concetto, un’idea, un’immagine, una frase, una parola, una poesia… un oggetto (mentale o già testuale), insomma, davanti al quale sostare, contemplare: in una parola, pensare. Saper sostare davanti ai propri pensieri. Come davanti a un dipinto: per poterlo descrivere, e magari distenderlo in parole, in discorso agli altri, bisogna guardarlo a lungo, esplorarlo, indagarlo, notare i particolari. Si tratta della mente, non della grammatica: di un vuoto strutturale, quindi (quindi!) grammaticale, linguistico. D’altronde, mi chiedo: si fanno temi alle elementari e alle medie? Si esercita la scrittura, quella vera, che vuol dire riempire due o tre fogli almeno su un argomento dato? Mi risulta, da quel che mi si racconta un po’ ovunque, che si fanno tantissimi questionari, questo sì. Si viaggia su fotocopie distribuite a iosa, con caselle da crocettare, spazi bianchi da riempire, rispostine da sottolineare. Gli eserciziari degli attuali libri di testo, anche alle superiori, sono così: pieni di demenziali questionari, schede, moduli, domande. Scegli, crocetta, segna, sottolinea, completa, colloca, ricolloca, indica… (Mai scrivi, pensa, rifletti, studia…) E accanto numerini, quadratoni, livelli, linee, puntini da riempire. Non dirò mai abbastanza il mio disgusto di fronte ai libri di testo attuali. Si allevano i ragazzi a quiz (e li si valutano su quiz o test), e poi ci si stupisce che non sappiano né parlare né scrivere, cioè costruire (costruire!) un discorso? Sono temi che io chiamo, per disperazione definitoria, arrugginiti, e che non so neanche correggere. In genere mi limito a sottolineare tutto in rosso e a scrivere a lato: ruggine! Ruggine: commento da insegnante criptica e scolasticamente scorretta, lo so, i miei allievi credo che giustamente non capiscano. Ma è pura e semplice disperazione, non so cos’altro fare. 3 Di fronte a temi così, mi viene una sola idea: prendere una macchina del tempo e riportare i ragazzi indietro, a quando erano piccoli. È lì che si devono piantare i pilastri su cui poi mettere le basi perché uno sappia scrivere. Ed è un lavoro che si può fare solo indirettamente, educando all’espressione del pensiero, a ex-premerlo, a tirarlo fuori in una forma che sia «leggibile» agli altri. Lo si fa leggendo poesie e racconti al bambino di un anno, lo si fa parlandogli molto, e bene; lo si fa facendolo poi scrivere e leggere, e parlare, raccontare, spiegare, direi tutti i giorni. Un’abitudine quotidiana, senza dirglielo, senza farlo vedere.”

Lo stato di salute della lingua italiana secondo l’Invalsi

“Avrei finito, ma all’inizio di luglio 2010 sono usciti dei risultati molto interessanti di cui, tanto per completare la descrizione (rigorosamente oggettiva!) del fenomeno, non vi vorrei privare… Si tratta dell’ultimo rapporto sugli esami di Stato per la scuola superiore italiana, una ricerca condotta dall’Istituto nazionale per la valutazione del sistema educativo di istruzione e di formazione (INVALSI) insieme con l’Accademia della Crusca su un campione, elaborato dall’Istat, di studenti in uscita dal liceo: una squadra di super esperti ha analizzato e appositamente ri-corretto i temi della maturità 2009. Sottolineo: maturità, non licenza elementare o media.

Risultato: l’ 85 per cento fa errori di grammatica (cioè non conosce le regole della lingua italiana), il 70 per cento è insufficiente per competenza lessicale e semantica (cioè usa un lessico poverissimo o lo usa impropriamente) e quasi il 60 per cento è insufficiente per capacità ideativa (cioè non ha idee o non le sa esprimere in un discorso logicamente strutturato e compiuto). Risultato tradotto in breve: quasi nessuno sa più scrivere. O meglio, media finale: più del 70 per cento non sa scrivere. Cioè più dei 2/ 3 dei ragazzi che escono dalle superiori. Venti su trenta, 700 su mille. Questo vuol dire che, dopo averli tenuti a bagno per ben quindici anni (dall’asilo all’esame di maturità), la scuola riconsegna alla società dei ragazzi che, due su tre, non sanno scrivere quello che (eventualmente) pensano! Domanda finale, anche detta «domanda dell’ottovolante»: ma se questi sono i risultati di quindici anni di scuola, non era meglio andare tutti sull’ottovolante?”

Passiamo adesso alle conseguenze devastanti che certe teorie psico pedagogiche hanno avuto all’interno della scuola italiana.L’autrice ci fa un ritratto volutamente ironico di alcune di queste teorie considerate scientifiche .

“Un anno dopo, nel 2001, Francesco Antinucci fa uscire un libro dal titolo La scuola si è rotta. È un cognitivista e si occupa dei processi di elaborazione, comunicazione e apprendimento delle conoscenze in relazione all’uso delle nuove tecnologie interattive. La tesi del suo libro è la seguente: la scuola occidentale scricchiola, fa acqua da tutte le parti per una ragione molto semplice e cioè per il fatto che è irrimediabilmente vecchia, si fonda ancora sui soliti e tradizionali modi di apprendimento, mentre dovrebbe fare il salto e affrontare il cambiamento. La scuola è vecchia perché si basa ancora sullo studio: «Si prende un libro, si legge, si studia e, alla fine, con più o meno fatica, si sa». Un libro è un testo scritto, la scrittura è fatta di parole, le parole sono simboli, quindi leggere e studiare sono attività che richiedono una forte dose di astrazione: «gli psicologi chiamano questo modo di apprendere ’simbolico-ricostruttivo’». Agli antipodi c’è invece il modo nuovo, «percettivo-motorio», secondo cui l’apprendimento non avviene leggendo un testo e ricostruendolo mentalmente, ma avviene attraverso la percezione della realtà e l’azione motoria. È una «conoscenza per esperienza», che si forma fuori e non dentro la mente, e per la quale non sono più necessarie doti quali la consapevolezza di quel che si fa, la concentrazione, l’attenzione, lo sforzo. Il sistema percettivo-motorio è un sistema di conoscenza antichissimo, dice Antinucci: lo abbiamo in comune con le scimmie. Mentre le scimmie, si sa, non possiedono il linguaggio verbale.

Esempio di questo mirabile antico approccio alla conoscenza sarebbe il fatto–verificabilissimo, in effetti, da tutti noi oggi–che un giovane è in grado di imparare a usare Word senza leggere una sola riga del manuale, cioè provando ad agire direttamente sui tasti e vedendo che succede, mentre noi antidiluviani no, abbiamo bisogno delle istruzioni scritte. A proposito, la mamma di un mio allievo mi ha raccontato estasiata di quando a Natale in casa loro è approdato l’enorme pacco del primo computer per la famiglia: Sapesse, il mio Sebastiano che meraviglia! Noi due, mio marito e io, siamo solo stati capaci di aprire lo scatolone e togliere l’imballaggio, Sebastiano invece, avesse visto!, in tre secondi frin fran, tutto acceso perfetto, e come funzionava! Sebastiano naturalmente ha 4 in italiano. Ma, avendo io letto Antinucci, che dire a cotanta fierezza di madre? Mi sono unita all’estasi. D’altronde, suo figlio ha 4 in questa dimensione vergognosamente antiquata della scuola d’oggi, in cui si usa ancora il linguaggio verbale. Se invece la scuola fosse andata avanti come doveva e una delle verifiche previste fosse la messa in funzione di nuovi computer appena arrivati per posta, il ragazzo avrebbe 10. È colpa nostra, dunque, ragazzi, se non avete 10 in italiano. Antinucci naturalmente, prevenendo obiezioni come le mie, si premura fin dall’inizio di dire che tale portento di novità, ovvero l’apprendimento percettivo-motorio, «non è confinato a saperi pratici, all’imparare a fare, come talvolta si sente dire». Meno male. Però a dire il vero, pur leggendo il suo libro attentamente fino alla fine, non mi è riuscito di trovare un cenno a come si imparerebbe dunque una cosuccia come la Divina Commedia, in modo percettivo-motorio anziché simbolico-ricostruttivo.

In effetti la proposta finale di Antinucci è che al posto della scuola nasca la «bottega», luogo dove si impara facendo e non studiando, luogo dove soprattutto verrebbero azzerati tutti i diabolici meccanismi sui quali la scuola si è sempre retta: studio sui libri, lezione frontale, appunti, compiti in classe, interrogazioni, correzione di compiti a casa e infine voti. Ovvio, dice Antinucci, che di fronte a tale sistema di «coercizione allo studio», la popolazione scolastica attuale sia «oltre modo recalcitrante»: «mi sembra assolutamente normale», dice. Ben altro invece sarebbe la bottega, dove l’apprendimento diventerebbe «attività naturale e tendenzialmente spontanea”.

Che dire di fronte a queste affermazioni? Pura follia?

Passiamo adesso a ruolo di Internet e alle modificazioni antropologiche di natura epocale che questo uso sta ponendo in essere .I commenti dell’autrice sono di una tagliente ironia

“I ragazzi sguazzano in questo universo, lo dominano: sono i signori del Web. Sono i born digital, l’Internet generation. Una nuova stirpe di umani. Nessuno sa ancora bene come si stiano evolvendo, ma è chiaro che nulla sarà più come prima. Neuroscienziati, studiosi della Rete e della comunicazione, computer scientists, futurologi internazionali stanno studiando l’impatto che le tecnologie digitali hanno sulla mente umana e sul comportamento dei nuovi giovani. Nulla è certo. Ma pare che si tratti di un vero e proprio cambiamento antropologico. Si stanno acquisendo nuove abilità mentali: dal pensiero non sequenziale al multitasking. Pare che la diversità sia persino rilevabile clinicamente: la risonanza magnetica può ora evidenziare modificazioni alla corteccia cerebrale. Dall’homo sapiens all’homo videns all’homo zappiens. Siamo di fronte a una nuova specie umana con la mente «ricablata», resistenze superiori, intrecci neuronali più complessi e un approccio non lineare al pensiero e al lavoro, reazioni più rapide agli stimoli, miglioramento dei riflessi e dei processi collaborativi…Se questo è vero, tutto ciò che ancora ci affanniamo stupidamente a insegnare a scuola è davvero obsoleto e patetico. Nonché obsoleta e patetica la scuola stessa. Che, quindi, andrebbe abolita o drasticamente cambiata. Per esempio, che senso avrebbe ancora l’ortografia? Perché mai incaponirsi sulla necessità vitale di un apostrofo? Cos’è un apostrofo a confronto delle innovazioni strabilianti del Web? Che senso avrebbero ancora complemento oggetto e predicato nominale, avverbi, congiunzioni, il pronome che, la sintassi dei casi, il periodo ipotetico, i pluralia tantum, Cesare che “conquista la Gallia, il Sabato del villaggio da studiare a memoria? Tutto si trova nel Web, non è più necessario nemmeno avere una memoria, basta saper usare un motore di ricerca. Anche scrivere: non serve imparare a strutturare il pensiero e a esprimerlo logicamente in sequenze dotate di senso compiuto; non importa imparare a dire ciò che si pensa, ciò che si prova: nel Web esiste tutto, tutti i libri già scritti, e soprattutto i testi che planetariamente si scrivono ogni giorno e sono disponibili nei siti, nei blog, nei social network: basta accedere, avere l’indirizzo, entrare, avere la chiave, accreditarsi, digitare la password e poi si prende a destra e a manca, si fa il copia-incolla e si costruiscono testi sempre nuovi e sempre diversi. Si usa il Web, l’infinito patrimonio ora a disposizione di tutti, si manipola, si linka, si copia, si compila. Esistono le griglie, gli schemi, i fac-simile preconfezionati. Non importa nemmeno conoscere la propria lingua. Non esiste più lo scrivere corretto o scorretto: concetto desueto, incomprensibile. Quando mi affanno a correggere i loro orripilanti dettati ortografici e compiti di analisi logica, i miei allievi mi guardano allibiti: ma che problema c’è? Esiste il correttore automatico… E quando correggo i loro temi sconclusionati, affettuosamente mi consolano: non si preoccupi, prof, e quando mai dovremo saper scrivere? Anche per trovar lavoro, un curriculum lo troviamo già fatto su Internet. Sono cari e comprensivi. Ma soprattutto, hanno ragione. Non devono imparare più niente, il sapere viene loro gentilmente offerto, servito all’istante bell’e caldo, documenti predefiniti, cibo predigerito, prodotti preconfezionati. Basta cercare, trovare, scaricare.

Ho solo una piccola perplessità. Come una pulce che indefessa mi parla all’orecchio: ma non è che per caso tutto questo nostro invasamento collettivo sulle meraviglie del Web non è altro che il colpo finale con cui definitivamente riusciremo a estirpare l’intollerabile parola «studio» dalla scuola? E non è l’ennesimo inganno con cui stiamo handicappando i giovani? Infine: ma non è che a noi, in fondo, la scuola non è mai piaciuta ed è da almeno quarant’anni che cerchiamo di distruggerla?”

In difesa – provocatoriamente – del nozionismo

“Avere nozione di qualcosa, dunque, vuol dire sapere. Conoscere. Il marinaio ha nozione dei venti, delle rotte, dei porti. Il contadino ha nozione dei trattori, del fieno, della trebbiatura. L’ingegnere ha nozione del cemento armato, delle fondamenta. Il panettiere ha nozione dei diversi tipi di farina, e di lievito, e di forni. L’insegnante di lettere ha nozione della grammatica e della letteratura. Non è peccato avere nozioni. Anzi, dovrebbe essere necessario, qualsiasi mestiere sia il nostro. Quindi, la scuola dovrebbe insegnare nozioni: dovrebbe condurre alla conoscenza, a che altro se no? Invece la parola nozione non ha avuto fortuna. È stata travolta da una valanga che si chiamò Sessantotto e che la sotterrò per sempre nella parola nozionismo riservandole solo odio e disprezzo. Nozionismo è, ancora oggi, una parola brutta, infame, vergognosa. Nessuno oggi conosce più la bontà e l’innocenza della parola nozione, nessuno ha provato mai a riportarla alla luce, pulendola dalle incrostazioni di terra come un vaso antico prezioso. E quelli che da sempre si occupano di nozioni, ovvero di conoscenza, gli studiosi, i professori, i maestri, fanno gli ultimi mestieri della terra, i più negletti, i meno considerati.

Il problema è che abbiamo continuato così fino a oggi. E oggi la maggioranza dei nostri ragazzi (anche quelli che escono dal liceo!) non è in grado di affrontare gli studi universitari: si tratta di un settanta per cento circa, che non ha le conoscenze di base e le capacità minime richieste.”

La scuola e l’importanza fondamentale della grammatica

“Le mie furiose maestre di Napoli sarebbero perfettamente d’accordo, credo. Così come è stata perfettamente d’accordo la scuola italiana (elementare) in generale degli ultimi decenni: sull’onda di un rodarismo genericamente inteso, ha cominciato a pensare che fare grammatica fosse male, e scrivere favole tutti insieme fosse molto meglio. La conseguenza diretta è stata che di colpo abbiamo ritenuto noiose materie come la grammatica, la storia, la letteratura, e abbiamo deciso quindi di non farle più, o di farle meno. O di farle senza grande convinzione. O di trasformarle in una versione più allegra e divertente: in un gioco, appunto. Così, abbiamo dato inizio alla «scuola del gioco»: la scuola è gioco, l’insegnante insegna giocando e gli alunni giocano imparando, e tutti sono felici e contenti. Il messaggio, insomma, è stato che, se non si gioca, non va bene e che tutto ciò che non è divertente è da buttare (vedi serietà, fatica, lavoro e studio: tutta roba molto disdicevole).”

Il ruolo dei concorsi nella scuola contemporanea

“Gli insegnanti amano molto i concorsi. Ho conosciuto, girando per l’Italia, moltissimi colleghi (perlopiù di elementari e medie) che si dedicano abitualmente ai concorsi scolastici: alcuni hanno collezionato anche dieci o venti vittorie, con le loro classi, di cui giustamente si sentono fieri. Anche i ragazzi, e le loro famiglie, amano molto i concorsi: vuol dire impostare un progetto, lavorare per gruppi, inventare insieme qualcosa, puntare a una meta, a una vittoria. Il concorso scolastico è l’emblema della scuola così come oggi ci piace: creativa, collettiva, democratica, divertente, gareggiante. Attraverso un concorso, però, si svicola tutti (insegnanti e allievi) dalla normale e noiosa programmazione didattica. Si esce, ancora una volta, da quello che è ritenuto un piatto e tedioso nozionismo per approdare alla creatività libera e gioiosa. L’insegnante, col pretesto di un concorso ad esempio sul tema dei diritti umani, può smettere di fare pedestremente il programma di grammatica e letteratura, può evitare di sudare per ore cercando di far entrare una pagina nella zucca dei suoi bambini, parola per parola, così come lo studente può smettere di spaccarsi la suddetta zucca sui libri, e tutti insieme possono invece, insegnanti e studenti, serenamente dedicarsi alla divertente e stimolante creazione di uno spettacolino teatrale–o di un grande manifesto colorato, o di un testo poetico o musicale a più voci, o di un articolo o dossier giornalistico, dipende dalla forma in cui sceglieranno di esprimersi. Molto meglio inventare tutti insieme una storia in classe che studiare i verbi a memoria o le guerre puniche. Il concorso scolastico può essere (spesso, non dico sempre!) il pretesto per un’autoaffermazione dell’insegnante, schiacciato dalla piatta e banale programmazione standard”.

L’importanza della cultura inutile

“È nota la battaglia di De Mauro contro il tema d’italiano. Ricordo un suo intervento a un convegno sull’insegnamento dell’italiano nelle superiori, che si tenne a Torino, dove egli sostenne che alle superiori bisognava smettere di far fare temi e cominciare a insegnare a redigere verbali. Era il 2000, eravamo in piena era luigiberlingueriana, ovvero completamente dentro la riforma del ministro Luigi Berlinguer, di cui uno dei tratti sicuramente più importanti fu la perfetta sintonia (imprevedibile davvero!) con il mondo del lavoro (una vera e propria alleanza di quel Ministero di sinistra con la Confindustria?): si voleva una scuola utile, dei saperi pratici, concreti, spendibili. Non una scuola dei saperi inutili, legati a una cultura astratta e inservibile per le imprese e i servizi. Si trattava quindi di insegnare ai ragazzi le scritture utili, quelle che il mondo del lavoro avrebbe loro richiesto dopo la scuola. Non più le scritture fumose e inutili legate all’ambito del letterario, tipo: Riflessioni sulla poesia del Foscolo, o Ritratto di me stesso, “o Il significato del viaggio da Ulisse ai giorni nostri. Redigere verbali, scrivere lettere commerciali, avvisi alla clientela, documenti tecnici: questo andava fatto. (Tra parentesi, vorrei dire quanto tutto ciò fosse nell’ottica di un clamoroso abbaglio, di cui l’America per esempio si sta da qualche anno rendendo conto appieno: gli americani cercano ormai di prendere le distanze da una formazione tutta appiattita sul presente e sull’utile, immediatamente e concretamente spendibile; stanno rivalutando gli aspetti più preziosi di una cultura apparentemente «inutile», ad esempio molte imprese decidono di formare i loro manager a colpi di cultura classica, anche predisponendo periodi di studio a base di filosofia, lingue classiche, lettura dei grandi capolavori letterari; periodi di solitudine coatta, al fine di favorire al massimo la concentrazione e la meditazione, al limite della reclusione vera e propria in spazi appositamente scollegati e remoti, quali monasteri e deserti…) Credo che l’idea di De Mauro avesse una sua ragion d’essere proprio in quanto legata alle richieste (confindustriali?) del tempo. Ciò non toglie che fu un colpo mortale alla scrittura, al libero esercizio dell’espressione verbale scritta, in particolare dell’espressione che si basa maggiormente sulle capacità logico-argomentative, di costruzione e strutturazione del discorso”.

Le devastanti riforme ministeriali

“Quando la sinistra va effettivamente al governo (dal 1996 al 2001) e Luigi Berlinguer diventa ministro dell’Istruzione, i numeri dei nostri diplomati e laureati sono troppo bassi e ci fanno sfigurare con gli altri Paesi. L’Italia è in Europa, e l’Europa giudica. Bisogna trovare un rimedio, qualcosa che alzi la nostra posizione nelle classifiche. L’idea centrale della riforma Berlinguer è il «diritto al successo formativo». I giovani hanno il diritto di conseguire diploma e laurea. Se non ci riescono, se tanti non si iscrivono nemmeno e tanti altri abbandonano prima, è colpa della scuola e dell’università. Che quindi bisogna affrettarsi a cambiare. Si alzano i numeri di diplomati e laureati, ma si capovolge drasticamente il concetto stesso di istruzione: da dovere, qual era sempre stato, a diritto. Nascono di qui la riforma della scuola secondaria e il nuovo sistema universitario del 3 + 2, che di fatto, se non nelle intenzioni, abbassano inesorabilmente il livello di istruzione reale.

È stato l’ultimo atto del cambiamento: iniziato alla fine degli anni Sessanta, il processo si conclude qui, con la riforma Berlinguer. Dopo, si sono succeduti governi di destra e di sinistra, ma nulla di sostanziale è più cambiato, le ideepilastro sono state piantate una volta per tutte. E, volendole alla rinfusa elencare, direi che sono le seguenti: l’obbligo scolastico il più possibile esteso, il tempo in classe il più possibile «pieno», la fede nelle nuove tecnologie multimediali, la predominanza del metodo di studio sui contenuti dello studio, l’importanza dell’apprendimento e non dell’insegnamento, la centralità dello studente, l’autonomia scolastica, il POF ovvero Piano dell’Offerta Formativa, elenco di tutte le attività e progetti extra che ogni singola scuola desidera offrire alle famiglie (dette Utenza), al di là delle semplici e viete e tristemente tradizionali materie di studio, diventate il simbolo di una scuola vecchia da buttare. In breve, si delinea come nuova una scuola che punti alla socializzazione e si alleggerisca dei contenuti più marcatamente culturali: era previsto, nei documenti della riforma Berlinguer, che l’insegnamento del latino fosse «affidato a resoconti in chiave moderna», che lo studio della letteratura italiana fosse abolito negli istituti tecnici (che, in compenso e paradossalmente, si sarebbero chiamati licei) e che piuttosto s’insegnasse a «saper scegliere e gustare le proprie letture». Riduzione dei contenuti, dunque, deculturalizzazione e deverbalizzazione: con vittoria conseguente delle verifiche a crocetta, delle animazioni visive e teatrali e soprattutto dei videogiochi. Maragliano, il presidente della commissione berlingueriana dei quaranta saggi, così scriveva: «Il videogioco è la più grande rivoluzione epistemologica di questo secolo. Ti dà una scioltezza, una “densità, una percezione delle situazioni e delle operazioni che puoi fare al loro interno che permette di esaltare dimensioni dell’intelligenza e dello stare al mondo finora sacrificate dalla cultura astratta». Più chiaro di così! Se nel 1975 la Nuova Pedagogia Linguistica dice che invece di fare ortografia si deve insegnare ai bambini ad allacciarsi le scarpe, e se alla fine degli anni Novanta la commissione dei «saggi» esalta il videogioco contro la cultura astratta, credo che la direzione sia chiara: ha stravinto la scuola del fare, del saper essere, del saper stare (insieme), dello smanettamento collettivo e dell’invasamento tecnologico, non certo la scuola del sapere, delle nozioni (intese come conoscenze), della letteratura e dello studio astratto, teoretico. L’antinozionismo tanto invocato negli anni Sessanta trova qui il suo perfetto compimento, e definitivamente trionfa”.

I cardini della riforma

“I suoi capisaldi sono alcuni punti cardine, direi quattro leggi indiscutibili: 1) la scuola non deve insegnare nozioni; 2) la scuola deve motivare allo studio (possibilmente divertendo); 3) la scuola deve far andare avanti tutti senza selezionare; 4) la scuola deve essere utile, e servire essenzialmente a trovar lavoro. Tale pensiero è talmente diffuso che non ha più bisogno di autori, di intellettuali che se ne facciano carico in modo esplicito: tutti ormai la pensano così. O meglio, se esiste un pensiero contrario o parzialmente non consono, non ha però la forza di manifestarsi, forse sonnecchia in qualche tana, rumoreggia blandamente, o si limita a emettere, ogni tanto, un quasi impercettibile flebile fischio. Come le marmotte in montagna, un sibilo gentile, discreto, quasi muto.”

Il ruolo delle famiglie nella nuova scuola

“In poche parole, alle famiglie sta benissimo che la scuola non sia più così severa, intransigente ed esigente, che voglia essere nuova e moderna e decida, per quest’opera di autosvecchiamento, proprio di dismettere lo studio e la disciplina. Voglio dire: le giuste e profonde aspirazioni progressiste si sono, snaturandosi e polverizzandosi, inevitabilmente mescolate agli appetiti consumistico-edonistici del nuovo ceto popolar-benestante, e hanno fatto bum! Un esplosivo devastante. Negli anni Ottanta-Novanta le famiglie hanno raggiunto un certo benessere e intendono goderselo. Se la scuola dà meno compiti, se dà poche insufficienze, e se comunque poi le recupera con appositi corsi di recupero, va benissimo: la famiglia così ha più agio di andare in montagna e al mare, fare viaggi, comprare computer e telefonini, fare shopping in centro e negli outlet. Ma soprattutto, se la scuola fa meno studiare e più giocare, se la scuola diventa un centro di socializzazione dove stare insieme e trovare amici e mostrare gadget e vestiario, se quindi i figli vanno volentieri a scuola, i genitori si sentiranno sollevati: la loro spinta edonistica e narcisistica non sarà in contrasto con la vita dei figli: tutti insieme allegramente, il benessere psico-fisico-sociale è condiviso, e i figli possono dunque diventare i re del consesso famigliare, ed essere al meglio coccolati e vezzeggiati.

Faccio un solo esempio, tanto per essere un po’ concreti: se la famiglia permette al figlio (o figlia) quindicenne di tornare dalla discoteca alle quattro di mattina, e se il papà (o la mamma) si mette persino la sveglia alle tre per andare a prenderlo, che cosa pensate possa mai fare la scuola? Quale impegno può pretendere, quale disciplina, quale senso di responsabilità e di autonomia? Fine del piccolo esempio. Inizia in quegli anni anche l’inversione di responsabilità: se i figli non studiano, la colpa è degli insegnanti che non li sanno motivare. Sono gli insegnanti i responsabili dell’insuccesso scolastico, e vanno infatti valutati e formati ex novo. Valutati non su quanto sanno e su come fanno lezione, ma su quanto sono bravi a innovare, sperimentare, aprire al «territorio » (famigerato territorio! chi ha inventato questa parola?). Non sono abbastanza nuovi e moderni, se non sanno divertire, se non aprono la scuola all’esterno, con viaggi di istruzione, uscite didattiche e interventi di esperti nelle classi. Tutto questo armamentario esogeno diventa la scuola preferibile ed elogiabile, la super-scuola di cui i genitori vanno orgogliosi e che ben si adatta al loro conquistato super-benessere. A nessuno importa più il solito banale insegnamento, le solite trite materie e i soliti tetri programmi. Importa l’extra, il di più, il «creativo», il divertente. A nessuno importa se al figlio viene insegnata o no, e come e quanto, la lingua italiana; importa che si faccia teatro in classe, e si vada alle mostre, e siano assicurati i viaggi di istruzione, possibilmente all’estero: quella è una scuola creativa, nuova, che apre le menti; l’altra è la scuola vecchia, inutile, noiosa.”

I consigli di classe, la riforma scolastica e l’offerta formativa

“Ad esempio ai consigli di classe (momento in cui, a scadenza più o meno bimestrale, gli insegnanti di una classe incontrano i genitori dei loro allievi), l’ordine del giorno è cambiato. Una volta era: la preparazione dei “ragazzi, i programmi, i libri da leggere, le ricerche, lo studio, la disciplina. Oggi è: i viaggi di istruzione, i corsi di recupero, gli stage extra, le verifiche, la trasparenza dei voti, gli sportelli aperti, le ore di ascolto, l’orientamento e il riorientamento. In una parola: i servizi. L’offerta. L’infinita offerta di servizi. Che cosa di succulento offriamo al servizio dello studente e della sua famiglia. È una scuola pronto soccorso (o gastronomia) che si chiede, non una scuola di cultura: una scuola che aiuta e soccorre e medica o ingozza di leccornie, non una scuola che insegna. Una scuola che dà brioche, non semplice pane: l’extra e il superfluo, prima che le nozioni di base. Negli anni Novanta, forse sulla spinta dello slogan berlingueriano del «diritto al successo formativo», i figli cominciano a essere difesi a oltranza: tutto è loro dovuto, soprattutto il cosiddetto «successo scolastico», il fatto che escano promossi dalla scuola, e nulla sia più colpa loro. Guai all’insegnante che ancora minimamente osi vessarli con interrogazioni a sorpresa, compiti difficili o, peggio che mai, umiliarli o demotivarli con brutti voti. Si va subito a protestare dal preside fino a che sarà l’insegnante a essere, più o meno gentilmente, ripreso, e a volte anche, nei casi più fortunati, allontanato dalla classe. I genitori che sindacalmente si schierano dalla parte dei figli sono forse il fenomeno più devastante nel mondo scolastico degli ultimi vent’anni. Di lì non si torna indietro, e non si farà più nulla di buono. Di lì la scuola ha perso la sua autorità, e autorevolezza, e funzione: ha sbracato! Oggi teme continuamente le proteste e i ricorsi delle famiglie, dette «utenza». L’utente, come il cliente, ha sempre ragione (forse perché l’utente è il cliente…).”

Il mammismo scolastico

“Ad esempio noi insegnanti siamo oggi obbligati a: trascrivere su un’apposita scheda i voti che diamo sul registro; controllare che tale scheda-voti sia mensilmente firmata dal genitore; avvertire il genitore (già informato dalla scheda-voti) per telefono o per lettera raccomandata che il figlio sta prendendo delle insufficienze; avvertirlo, per telefono o per lettera, che tali insufficienze potrebbero portare alla sospensione o bocciatura; avvertire verso fine maggio che tale evenienza potrebbe essere molto realistica; avvertire che tale evenienza si è davvero realizzata; quindi convocare i genitori per la pagella finale con la quale li si avverte definitivamente (ma in gran segreto, perché sui tabelloni esposti fuori è vietato scriverlo!) di quella bocciatura o sospensione ampiamente preannunciata nei mesi precedenti. Il nostro è diventato un lavoro di pre-avvertimento perpetuo. Si comincia verso ottobre a pre-avvertire la famiglia che il figlio non apre un libro. Bene. E cosa credete che succeda? Niente. Mediamente, su dieci genitori avvertiti ne arrivano due a colloquio, e in genere per mostrarsi stupiti e quasi offesi delle insufficienze che noi osiamo dare al figlio. Mai nessuno che dica al figlio: Come ti permetti di non aprire un libro? Io ti mando a scuola, e tu non apri un libro?”

Mobilitazione permanente e pedagogia delle competenze

“Mi astengo da ogni commento. Mi limito a citare un pezzo dell’articolo di Michele Boldrin, docente di Economia in varie università americane, uscito sul «Fatto quotidiano» del 3 dicembre 2010: «Le piazze e le torri d’Italia che oggi si riempiono di incazzatissimi e indignatissimi rivoltosi erano vuote sei mesi fa, un anno fa, due anni fa, eccetera. Erano ancor più vuote quando, tre o quattro anni fa, il precedente ministro, tal Fabio Mussi, contribuiva con la sua arrogante ignavia al declino della nostra università». Aggiungerei solo, di mio, che tali piazze e torri erano vuote anche dieci anni fa, quando tal ministro Berlinguer istituiva lo scellerato sistema del 3 + 2, con il suo seguito di crediti e saperi minimi e numero minimo di pagine minime… Fu un gran colpo allo studio, quello, non c’è che dire, insuperabile! Ma non si videro, allora, studenti protestare contro i tagli allo studio, la riduzione di libri da portare agli esami. Eppure era lì che veniva loro rubato il futuro…”

Adesso invece c’è la scuola nuova, «delle competenze». Dove le cose/ discipline che si insegnano/ imparano non importano più in sé e in senso assoluto, ma importano in quanto «utilizzabili», applicabili a un lavoro, traducibili in situazioni concrete, insomma «spendibili». Importa non il sapere, ma il fare, o meglio il saper fare: saper risolvere problemi, saper eseguire compiti, saper agire in situazioni significative, saper digitare e navigare, saper essere cittadini e soprattutto, competenza delle competenze, saper imparare: apprendere cioè quella mirabile arte del saper apprendere all’infinito, non importa più cosa se non, appunto, l’arte dell’apprendimento in sé. Il sapere tout court non importa più a nessuno, non viene acquisito in un preciso momento della vita, ma rincorso all’infinito. Per capire meglio, vi suggerisco questo: immaginatevi un gatto che insegue un topolino a cui sia stata legata una invisibile cordicella, con la quale venga perennemente spostato in avanti. Pensate al gatto, che è sempre sull’orlo di raggiungere il topo e non lo raggiungerà mai: bene, avrà comunque appreso l’arte di saper raggiungere il topo… È questo che oggi ci importa: la capacità di rincorrere un topo, non di acchiapparlo! Perché è andata così? Perché l’Europa è grande, e i Paesi sono tanti e diversi tra di loro. In uno magari si studia Dante, in un altro Goethe, in un altro si leggono solo le favole di Andersen, chissà… Come facciamo a misurare conoscenze così relative e caduche? Infatti, non le misuriamo. Eppure noi dobbiamo misurare, onde certificare: ciò che vale in Italia deve valere anche in Germania e in Danimarca, onde permettere il naturale e auspicabile trasmigrare di studenti da un Paese all’altro. Di qui il fatto che misureremo solo ciò che è misurabile: le competenze, appunto. Il saper fare e il saper imparare, i metodi e non i contenuti; le capacità verificabili: “manuali, tecniche, linguistiche, psicologiche, attitudinali, civiche, sociali… Misureremo e certificheremo i cosiddetti «risultati di apprendimento», i Learning Outcomes, usando gli EQF (European Qualifications Framework), ovvero le tre CAC. Siccome non so chiamarle in altro modo, uso le loro iniziali: Conoscenze, Abilità, Competenze. Le CAC. Dovessi spiegarvi cosa sono, non saprei. Nessuno lo sa con esattezza, neanche i minotauri, credo. Posso però tradurvi quel che sembra a me d’aver capito. Le Conoscenze sono le vecchie cosiddette nozioni, i contenuti in sé, tipo le guerre napoleoniche, che cos’è l’equatore, qual è la capitale della Finlandia, l’equazione della parabola e che cosa dice Dante nel canto I del Purgatorio. Le Abilità sono ciò che l’allievo è capace di fare usando le nozioni che gli ho insegnato (immagino si tratti di saper andare a Helsinki, dopo aver acquisito la Conoscenza che Helsinki è in Finlandia; per le guerre napoleoniche non saprei…). In quanto alla terza CAC, cioè alle Competenze, be’, qui si apre il baratro delle mille definizioni minotauriche. Comunque, quel che ho capito è più o meno questo: che le Competenze riguardano il dopo, la vita futura, lavorativa ma anche affettiva, dello studente. Cioè, una volta che ha imparato le nozioni (Conoscenze) e una volta che ci sa fare qualcosa con quelle nozioni (Abilità), le Competenze dovrebbero essere il modo in cui in futuro egli saprà utilizzare e le Conoscenze e le Abilità acquisite. Leggiamo la definizione europea ufficiale di competenza: «comprovata capacità di utilizzare conoscenze, abilità e capacità personali, sociali e/ o metodologiche, in situazioni di lavoro o di studio e nello sviluppo professionale e personale». Ecco: capacità di utilizzare quel che si è appreso, quel che di astratto e inutile (il mio Torquato Tasso, “per esempio) si è studiato e che rimarrebbe lettera morta, secondo l’Europa e i minotauri, se non lo si sapesse poi usare nel lavoro e nella vita anche personale… Cioè, tradotto: le competenze sono quel che tu te ne farai nella vita di Torquato Tasso. E di Napoleone, Kant, Newton. E del canto I del Purgatorio, cioè come lo utilizzerai nel lavoro e nella famiglia, per esempio con tuo fratello o la tua fidanzata. Già, che cosa te ne fai nella vita del canto I del Purgatorio? È questa la domanda centrale della rivoluzione in atto: una volta non ce lo chiedevamo, adesso sì. Una volta non pensavamo al fine e al senso e alla «ricaduta» concreta di un canto di Dante: perché per noi i canti di Dante avevano un senso e un fine in sé. La cultura era esattamente questo: qualcosa di assolutamente fine a se stesso, e dunque «utile in sé», utile a priori, utile di una sua specifica utilità, non verificabile, non misurabile, non commerciabile. Adesso invece è esattamente questo che ci fa paura. Ci fa una paura immensa e incontrollabile, non possiamo più sopportare che qualcosa abbia senso in sé e «ricada» naturalmente nella nostra vita un po’ come gli pare. Una volta, ai tempi di mio padre per esempio, si faceva studiare Dante ai futuri ragionieri e geometri, molto Dante. Non ci si chiedeva quale spendibilità avesse per il loro lavoro futuro, non ci si chiedeva in quale modo il canto di Paolo e Francesca avrebbe potuto tramutarsi nella competenza di disegnare il progetto di un condominio o controllare i conti e le fatture di una ditta. Non ce lo si chiedeva perché si sapeva che, in qualche imperscrutabile modo, sicuramente Dante sarebbe servito al geometra e al ragioniere. Dante era un sapere in sé e, secondo l’umanità di allora, produceva “comunque un bene all’individuo, lo rendeva migliore, come lavoratore e come cittadino. Insomma, chissà dove mai saranno andati a cadere in noi i canti di Dante che abbiamo studiato, e amato. Non lo sapremmo dire, neanche sotto tortura. E allora? Possiamo affermare che questa indicibilità e inverificabilità congenita li renda inutili? Sì, l’Europa ci sta dicendo questo. In modo subdolo e traverso, ma lo dice. Basta leggersi le otto competenze-chiave stabilite dal Trattato di Lisbona, per capire che cosa l’Europa vuole: 1) comunicazione in madrelingua; 2) comunicazione in lingue straniere; 3) competenza matematica e in scienze e tecnologia; 4) competenza digitale; 5) imparare a imparare; 6) competenze sociali e civiche; 7) spirito di iniziativa e imprenditorialità; 8) consapevolezza ed espressione culturale. Spariti i canti di Dante, come potete notare. O meglio, possono esserci o no, ma sono nascosti: nelle certificazioni europee sono irrilevanti. Non importa se li sai, importa cosa te ne fai. E poi, in quale di queste otto competenze potrà mai tradursi Dante? L’ottava? E cosa vorrebbe dire «essere consapevoli » di Dante? Non so, che i minotauri ci illuminino…”

Origine della pedagogia della competenza

“Forse vi chiederete: ma come ce lo siamo sognato tutto ciò? Ebbene, come spiega Giorgio Israel in vari articoli e nel suo blog, il sistema delle competenze appartiene di fatto a un ambito prima militare (era il sistema per valutare, durante la Seconda guerra mondiale, nelle Forze armate britanniche e statunitensi, le performance dei piloti a partire dal numero degli obiettivi, ovvero aerei colpiti) e poi a un ambito lavorativo-aziendale: schemi che servivano a valutare i dipendenti ai fini dell’assunzione, degli avanzamenti di carriera e dei licenziamenti. L’origine dunque della strategia delle competenze non è certo culturale o, peggio che mai, umanistica… Infine, il primo a parlare di Risultati di apprendimento fu lo psicologo americano Benjamin Bloom, in un suo libro del 1956: Taxonomy of Educational Objectives. Significa che noi stiamo scoprendo e applicando oggi una teoria di quasi sessant’anni fa, che per giunta il suo autore stesso aveva criticato quarant’anni fa (nel 1971), dicendosi sorpreso che avessero preso tanto sul serio, e mitizzato, il suo piccolo manuale! Abbiamo, cioè, orecchiato termini e concetti americani, provenienti da ambiti ben diversi da quello culturale-educativo, e per giunta anche vecchi, li abbiamo estesi a tutto il nostro sistema di istruzione e li stiamo oggi passando come novità e modernizzazione di una scuola antiquata. Bloom stesso, per esempio, ci avvertiva di non estendere la sua tassonomia a tutte le discipline, ché, anzi, ogni disciplina deve avere i suoi schemi precisi. La sua è una teoria che serve ai costruttori di test! Serve per ideare le domande “da inserire nei test: è una teoria per la classificazione degli item! Avete capito? La classificazione delle prove, delle domande di un test! Siamo sicuri di voler impostare il riordino dei licei sull’importanza del numero di aerei abbattuti, sulla misurazione delle ragioni per licenziare un dipendente e sulla teoria di Psicologia dell’Educazione che ha sfasciato l’istruzione pubblica americana? Perché, almeno sul fatto che la scuola americana pubblica sia disastrosa, siamo d’accordo, spero: e anche sul fatto che dallo sfascio della scuola pubblica nasce l’enorme successo in America delle scuole e università d’élite, spesso private. Vogliamo dunque anche noi in Italia arrivare a questo, e cioè alla nascita di stupende scuole private che, almeno per i ricchi, soppiantino le sfasciate scuole pubbliche? Capisco che i Learning Outcomes siano meravigliosamente consoni alle esigenze del mercato. Facilitano, come ho detto, una equiparazione di qualifiche all’interno dell’Europa. Ma temo che stiamo facendo una scuola su misura dei test (e non viceversa!): siccome i test hanno bisogno di un materiale «oggettivamente valutabile», noi possiamo prevedere contenuti solo tecnico-formali, tipo la grammatica e il lessico. Non certo la letteratura o la filosofia. Va bene. Ma va bene (forse!) per l’istruzione tecnico-professionale, non per i licei: come possiamo applicare l’istruzione permanente allo studio umanistico? come potrebbero mai cambiare nel tempo le opere di Omero, Lucrezio, Giotto o Canova, nonché le imprese di Annibale e di Garibaldi e i miti di Platone e le categorie kantiane, come diavolo diventerebbero obsoleti argomenti simili, e come potrebbero mai necessitare di aggiornamenti?.

Credo che la scuola delle competenze darà il colpo mortale a tutto ciò che ancora resta di culturale e speculativo nelle nostre scuole superiori, licei innanzitutto, spazzando via qualsiasi intento ancora minimamente volto a una trasmissione del sapere astratto e «inutile», in nome di qualcosa che sia invece immediatamente spendibile e professionalizzante.

Quando sento espressioni come «saper imparare» e «risolvere problemi» mi prende un senso di vuoto allo stomaco. Risulta lampante che il punto qui, oggi, è «risolvere problemi »: il mondo del futuro si apre a noi come un enorme e continuo «problema da risolvere»–per questo non ha più senso studiare, ma bisogna solo imparare a imparare. In genere quando leggo cose simili, per contrappunto, mi siedo e apro un libro, a caso. Il primo che mi viene, basta che sia un libro. Qualcosa che non c’entri col problem solving: non so, le poesie di Brodskij, la vita di Chagall, Astolfo sulla luna. Qualcosa che non mi faccia risolvere un bel niente, ma che mi porti via. Un cavallo, per esempio. Alato…”

Due considerazioni per concludere: domandarsi se il titolo di laurea serva per svolgere la professione del docente nelle attuali scuole superiori non è una domanda pleonastica soprattutto se il docente viene posto di fronte alla situazione che l’autrice ha argomentato in modo così articolato. In secondo luogo se questa è la preparazione che viene data ai discendenti quale tipo di classe politica avrà il nostro paese?

Nel 2011 ha fondato il Network internazionale Cestudec (Centro studi strategici Carlo de Cristoforis) con sede a Como, centro studi iscritto all'Anagrafe della Ricerca dal 2015. La finalità del centro è quella di studiare, in una ottica realistica, le dinamiche conflittuali delle relazioni internazionali ponendo l'enfasi sulla dimensione della intelligence e della geopolitica alla luce delle riflessioni di Christian Harbulot fondatore e direttore della Scuola di guerra economica(Ege) di Parigi

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