Il Trattato di Parigi del 1947 e le limitazioni della sovranità italiana
Anche grazie al saggio storico di Sara Lorenzini -docente di Storia contemporanea a Trento – dal titolo “L’Italia e il trattato di pace del 1947“ (Il Mulino, 2007) – diventa a nostro avviso certamente più comprensibile l’origine storica della assenza di sovranità militare e politica italiana nel dopoguerra.
Infatti le rilevantissimi limitazioni, a livello di sovranità militare e politica del nostro paese, sono da individuarsi già nel gennaio del ‘43 durante la Conferenza di Casablanca quando le potenze vincitrici si accordarono sulla base del principio della resa incondizionata: la Germania infatti e i suoi alleati non avrebbero in alcun modo avuto il diritto di negoziare alcun accomodamento con i vincitori. La seconda tappa relativa alla limitazione della sovranità del nostro paese fu l’armistizio firmato dal Maresciallo Badoglio e alludiamo, per essere più precisi, sia a quello del 3 settembre sia quello del 29 settembre. Entrambi infatti costituirono il presupposto per quella che sarà poi la pace punitiva del trattato di pace del ‘47. D’altronde l’8 settembre l’esercito italiano composto da 1.750.000 uomini si dileguò e ben 600.000 italiani finirono per diventare prigionieri tedeschi. Proprio per questo l’8 settembre rimane un giorno funesto per l’Italia, il giorno che rappresentò per il nostro paese la morte della patria.
Come opportunamente rileva l’autrice del saggio uno dei numerosi episodi che contraddistinsero l’atteggiamento punitivo nei confronti dell’Italia fu da un lato l’occupazione francese della Valle d’Aosta e soprattutto l’occupazione jugoslava di Trieste. Ma anche la proposta di William Morgan in base alla quale tutta l’Istria passava sotto l’amministrazione Jugoslavia rappresentò una umiliazione per il nostro paese.
Il terzo episodio, opportunamente sottolineato da numerosi storici che a lungo si sono occupati sia del trattato che delle clausole in esso presenti, è il fatto che la bozza del trattato che poi sarà firmato era stato già preparato prevalentemente dagli inglesi che avevano in mente di togliere all’Italia tutte le colonie del Mediterraneo orientale e del Corno d’Africa. Il quarto aspetto che va sottolineato è quello relativo al fatto che fin dall’inizio gli inglesi avevano deciso che l’Italia avrebbe potuto esprimere il suo parere solo una volta sentiti tutti gli altri componenti e cioè i dominios’, gli Stati Uniti, l’URSS, la Francia, la Grecia, la Jugoslavia e l’Etiopia. D’altronde, come hanno rilevatom gli storici che hanno a fondo analizzato la documentazione originaria, a decidere le sorti dell’Italia furono sostanzialmente tre personaggi politici e cioè l’americano James Byrnes, il sovietico Molotov e il britannico Bevin.
Un ruolo di rilievo, seppure marginale, fu svolto anche dal rappresentante francese Georges Bidault. Proprio per questo non pochi uomini politici e diplomatici compresero che il trattato che si sarebbe firmato a Parigi non sarebbe stato uno strumento di riconciliazione ma un vero e proprio diktat analogo a quello che fu imposto ai tedeschi con la pace di Versailles. Lo dimostra il fatto che le richieste italiane non furono tenute in alcuna considerazione dai diplomatici dei paesi vincitori i quali avevano come unico obiettivo quello di salvaguardare il loro interesse nazionale a danno dell’Italia.
Non meno significativo, perché implicitamente antinazionale, fu l’atteggiamento della Chiesa che si dimostrò neutrale: il Nunzio Apostolico Angelo Roncalli fece infatti presente ai propri connazionali che si trovavano a Parigi che il Vaticano non poteva impegnarsi a favore del nostro paese. Uno degli aspetti che emerge con maggiore chiarezza nel trattato fu il fatto che il nostro territorio fu privato della sua unità: a occidente infatti esso subiva delle rettifiche a favore della Francia per quasi 770 km mentre quelle più considerevoli erano sul confine orientale dove l’Italia aveva ceduto più di 8000 km abitati da circa 445.000 italiani.
Fra i numerosi diktat imposti vi fu la perdita a ovest degli impianti dell’alta Valle Roja e del controllo della diga del Moncenisio e a est dei giacimenti carboniferi dell’Arsa, delle miniere di bauxite e mercurio dell’Istria, delle industrie e del grande potenziale commerciale di Trieste oltre naturalmente all’abbandono di tutte le attività economiche che l’Italia aveva costruito in tutte le sue colonie. Uno dei commenti maggiormente significativi, a nostro modo di vedere, fu quello del 26 luglio di Francesco Saverio Nitti il quale sottolineò come il fascismo non fu affatto un fenomeno solo italiano ma fu anche europeo e perfino americano. Tanto è vero che i giornali conservatori britannici – e gran parte dell’establishment americano – avevano appoggiato fino alla fine il regime fascista in funzione anticomunista. Quanto alla altisonante retorica della Società delle Nazioni – commentava Notti – questa non era forse stata una borsa dei valori dei vincitori oltre a essere un vero e proprio cumulo di tutti gli intrighi di tutti i grandi affari?
Quanto infine al piano Marshall, secondo l’autorevole esponente italiano, questo serviva solo all’America per trovare sbocchi per i suoi prodotti. In altri termini se gli Stati Uniti si serviranno della collocazione geografica italiana come un fondamentale avamposto per contrastare l’espansionismo sovietico e si serviranno del piano Marshall per trasformare l’Italia in una colonia economicamente parlando americana, gli inglesi – imponendo lo smantellamento delle infrastrutture sul Mediterraneo e promuovendo l’autodeterminazione di tutte le colonie italiane in Africa – riuscirono a ottenere non tanto l’indebolimento della marina italiana quanto la sua impotenza. Per quanto riguarda l’URSS questa, oltre a promuovere da un punto di vista ideologico il comunismo, vedeva nella Jugoslavia una importante via d’accesso al possibile dominio militare dell’Italia.
Per quanto concerne la Francia questa riuscì a ottenere compensazioni di carattere economico relative sia al commercio sia allo sfruttamento dell’energia idroelettrica. Per quanto riguarda la Grecia tutte le isole che le appartenevano ritorneranno sotto la sua sovranità ma anche sotto l’influenza britannica impedendo quindi all’Italia qualunque tipo di proiezione di potenza sul Mediterraneo. Perfino le concessioni stipulate per trarre vantaggio a livello economico che l’Italia aveva posto in essere con la Cina – alludiamo alle concessioni internazionali di Shanghai e di Amoy –furono abrogate. Per quanto riguarda le clausole di carattere militare lo smantellamento delle infrastrutture militari sia lungo la frontiera franco -italiana sia lungo la frontiera con la Jugoslavia priveranno l’Italia di qualunque possibilità di pianificare in modo autonomo la difesa del proprio territorio. Persino nella penisola delle Puglie all’Italia sarà proibito di costruire installazioni permanenti militari salvo poi consentire, in un secondo momento, agli americani di costruire le infrastrutture per i missili nucleari Jupiter in funzione antisovietica. La smilitarizzazione delle isole come Pantelleria, Lampedusa, Linosa e soprattutto di quelle presenti in Sicilia e Sardegna se da un lato priveranno l’Italia di qualunque possibilità di proiezione di potenza sul Mediterraneo dall’altro lato però consentiranno agli Stati Uniti di costituire il fianco sud della Nato. Quanto alla proibizione sancita nell’articolo 51 di costruire o sperimentare armi atomiche questo non impedirà agli Stati Uniti, alla Francia e all’URSS di sviluppare l’energia nucleare sia sul piano militare che sul piano civile.
Altrettanto significativo fu l’articolo 69 che fece divieto all’Italia di non utilizzare tecnici civili ma soprattutto militari di origine tedesca e giapponese, clausola questa che non valeva per i vincitori: gli Stati Uniti e l’URSS utilizzeranno infatti le competenze professionali di ex ufficiali tedeschi per rafforzare il proprio dispositivo militare e il proprio apparato di intelligence durante la guerra fredda.
A supporto di quanto affermato nel volume dalla studiosa italiana sia sufficiente fare riferimento a un classico della storiografia militare italiana e cioè al saggio di Virgilio Ilari dal titolo Storia militare della prima Repubblica 1943-1993 (Casa editrice Nuove Ricerche, 1994) il quale opportunamente sottolinea gli aspetti punitivi che, sotto il profilo militare, furono imposti dagli alleati all’Italia. In primo luogo, commentando il trattato di pace, l’autore opportunamente ricorda come la Francia riuscì a imporre la smilitarizzazione della frontiera occidentale per una profondità di circa 20 km e soprattutto come fu vietata la costruzione di nuove basi aeree e navali e lo sviluppo di quelle presenti in Puglia; così come furono vietati il possesso, la costruzione e la sperimentazione di armi atomiche, missili di artiglieria di portata superiore ai 30 km. Giustamente Ilari ricorda una affermazione datata 27 luglio 1946 da parte di Trezzani secondo il quale le limitazioni che furono imposte all’Italia erano di tale gravità che tanto valeva abolire le forze armate e dichiarare la neutralità perpetua nel nostro paese.
Altrettanto significativo l’affermazione di Cadorna per il quale le clausole trasformarono l’Italia in un paese disarmato alla mercé di due eserciti mentre le forze disponibili avrebbero potuto solo fare una modesta copertura in corrispondenza di una delle due frontiere (pag.19). Ma tuttavia l’osservazione che a nostro avviso è di maggiore significato è quella datata 15 aprile 1946 fatta da parte dell’Ambasciatore a Mosca Quaroni che paventava che gli alleati intendessero cucinare l’Italia nella migliore salsa egiziana imponendole una bella serie di basi aeree e navali come poi di fatto accade con l’adesione dell’Italia alla Nato. A tale proposito sia sufficiente fare riferimento a quanto Ilari sottolinea nel suo volume (pag. 57) quando ricorda come in un documento del maggio del 1949 lo Stato maggiore congiunto americano suggerì al Dipartimento di Stato di chiedere all’Italia il riconoscimento di numerosi e gravosi diritti militari fra i quali quelli di chiedere al governo italiano piani militari per l’utilizzazione dei porti come basi logistiche. Un’altra rilevante richiesta da parte americana fu quella dell’11 ottobre quando fu stabilita una linea di comunicazione dal porto di Livorno a Verona allo scopo di consolidare le forze americane a Trieste e a Salisburgo; nel settembre del ‘52 gli americani chiesero – e ottennero – una base di addestramento per i marines in Sardegna e l’uso delle basi aeree di Aviano e Orio al Serio. Ma la presenza in profondità delle forze armate americane sul nostro territorio avrà modo di consolidarsi sia con la Convenzione di Londra del giugno del 1951 sia con gli accordi bilaterali che saranno di volta in volta firmati nel 1957 in merito a Sigonella, nel 1972 in merito a Lampedusa e nel 1983 in relazione a Comiso.
Mentre l’Italia, come poc’anzi accennato, dovette rinunciare allo sviluppo di armi nucleari gli Stati Uniti negli anni ‘50 svilupparono la dottrina dell’impiego delle armi nucleari (il cosiddetto first use) e li collocarono sul nostro territorio. In ultima analisi le conseguenze della pace cartaginese voluta dagli alleati hanno gettato le basi della limitazione della sovranità italiana, limitazioni che durano ancora oggi. Tuttavia la nostra breve analisi non potrebbe dirsi compiuta se non ricordassimo anche l’articolo 11 della Costituzione commentato sia da Marco Giaconi che dal Gen. Marco Bertolini
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rosolino
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