Alcuni sviluppi del dibattito. Charles Wright Mills e i suoi interpreti
I libri su cui ci siamo soffermati – L’élite del potere di Wright Mills, La ribellione delle élite di Lasch e Democrazia S.p.A. di Wolin – hanno la caratteristica di riferirsi al contesto americano. Naturalmente le loro pagine possono prestarsi anche a una lettura più generale, rivolta allo stato attuale dei regimi democratici, ma è indubbio che il loro comune denominatore siano proprio gli Stati Uniti a cavallo tra ventesimo e ventunesimo secolo.
Ora il dibattito sembra essersi spostato a un livello superiore. Non si tratta più di affermare o negare l’esistenza di una ruling élite su scala nazionale, bensì su scala globale. I termini della contesa, tuttavia, continuano a essere gli stessi. Come le sue fazioni, disposte ancora una volta su due file: quella dei monisti e quella dei pluralisti. Un esempio di questa letteratura è rappresentato da due saggi pubblicati in Italia nel corso del 2017, Dopo le classi dirigenti di Giulio Azzolini e Come si comanda il mondo di Giorgio Galli e Mario Caligiuri. Due saggi diversi, non lo nascondiamo: più articolato e rigoroso sul piano concettuale il primo, più interessato a fornire un identikit dei potenti il secondo; che però convergono nelle linee portanti.
Al pari di Wolin, anche gli autori menzionati riconoscono la preponderanza della componente economica rispetto a quella politica nella composizione dell’élite. A livello planetario, ci raccontano, dominano soprattutto imprenditori e finanzieri: a dettare legge è il capitale. Azzolini, smarcandosi dalle conclusioni di Leslie Sklair,[1] secondo cui la classe capitalistica transnazionale includerebbe una componente aziendale, una statale, una tecnica e una mediatica, sostiene che i detentori del potere siano soprattutto «i proprietari delle grandi imprese, i loro manager e i gestori dei fondi finanziari».[2] Alle medesime conclusioni pervengono Galli e Caligiuri, i quali si premurano di fornire in fondo al libro un dettagliatissimo elenco con i nomi e i cognomi degli uomini più influenti al mondo, allo scopo di mostrare come il potere, lungi dall’essere anonimo, abbia in realtà un profilo ben riconoscibile.[3]
Azzolini, più che di superclass o di élite globale, preferisce parlare di «gruppi dominanti, al plurale, mettendo così in guardia circa le ipotesi che paventano l’esistenza di un gruppo omogeneo capace di controllare l’intera economia globale».[4] Questi ultimi, pur occupando il vertice della piramide globale, non fanno necessariamente parte di una comunità di destino, non sempre condividono obiettivi e strategie.[5] Tale circostanza, nell’ottica dell’autore, non dipenderebbe da fattori puramente contingenti, ma affonderebbe le sue radici nell’impianto stesso della globalizzazione, poiché per definizione «la globalità reticolare non può conoscere un unico centro di irradiazione».[6]
Tuttavia, potrebbe anche non essere così. E se, passo dopo passo, con la crescita esponenziale dell’interdipendenza, si producesse a livello planetario quella concentrazione di potere che Wright Mills osservava a livello nazionale? Azzolini non elude affatto la questione: «parlando di gruppi dominanti, al plurale, non voglio tuttavia tacere sugli aspetti di comunanza che pure li legano»,[7] a cominciare dal bagaglio culturale ed esperienziale, per arrivare al comune apprendistato al vertice delle principali istituzioni internazionali. Ancora una volta, i caratteri rilevati dal sociologo statunitense più di mezzo secolo fa.
I rilievi di Azzolini e Galli, presentati qui per rapidi cenni, appaiono persuasivi: convince, in particolare, il loro tentativo di mediare tra monismo e pluralismo, l’identificazione di una élite del potere nella consapevolezza delle crepe che la attraversano. Quanto però alla svalutazione della componente politica, ridotta a mera appendice del capitale transnazionale, e condannata a recitare la parte della comparsa, ci sentiamo di nutrire qualche perplessità in più, in particolare per quel che concerne le grandi unità territoriali. Se la dimensione politica sembra aver perso la sua specificità e la sua autonomia, come ampiamente documentato, le posizioni di potere ai vertici delle piramidi imperiali continuano a giocare un ruolo fondamentale. Va in questa direzione un libro pubblicato di recente negli Stati Uniti da Mike Lofgren, il quale denuncia l’esistenza di uno Stato dentro lo Stato, uno Stato invisibile, sottratto alle logiche elettorali e al controllo democratico: si tratta del Deep State. Con l’espressione egli intende designare quel «complesso di elementi chiave del governo e dei vertici finanziari e industriali che è effettivamente in grado di governare gli Stati Uniti con solo un minimo riferimento al verdetto elettorale».[8] Del Deep State farebbero quindi parte non solo i consigli d’amministrazione della grandi multinazionali, ma anche (e in senso pieno) le principali agenzie governative, come il Dipartimento di Stato, il Dipartimento del Tesoro e il Dipartimento della Difesa.
Con le cautele del caso, queste parole ci portano nuovamente a interrogarci sull’eredità lasciata da Wright Mills. Forse ha ancora qualcosa da insegnarci.
[1] Il rimando è a Leslie Sklair, The transnational Capitalist Class, Blackwell, Oxford 2001.
[2] Giulio Azzolini, Dopo le classi dirigenti. La metamorfosi delle oligarchie nell’età globale, Laterza, Bari-Roma 2017, p. 93.
[3] Cfr. Giorgio Galli, Mario Caligiuri, Come si comanda il mondo. Teorie, volti, intrecci, Rubbettino, Soveria Mannelli 2017, p. 11: «La politica è stata neutralizzata dall’economia attraverso un potere che non è anonimo o legato agli sviluppi dell’innovazione tecnologica e dell’intelligenza artificiale, bensì è rappresentato dai manager che controllano determinate multinazionali economiche e finanziarie. Un’élite ampiamente ignota all’opinione pubblica mondiale, che tuttavia non è indefinita. Noi abbiamo provato a scriverli».
[4] Giulio Azzolini, op. cit., p. 91.
[5] Cfr. Giorgio Galli, Mario Caligiuri, op. cit., p. 45: «I componenti della superclass sono leali tra loro non più di quanto lo fossero i signori feudali del Medio Evo, sono reciproci lupi di hobbesiana memoria».
[6] Giulio Azzolini, op. cit., p. 91.
[7] Ibidem.
[8] Mike Lofgren, The Deep State. The fall of the Constitution and the rise of a shadow government, Penguin, New York 2016, p. 5. La traduzione del passo riportato è nostra.