Atlantropa, un “santuario” nel Mediterraneo?
Plinio il Vecchio comincia la sua Historia Naturalis descrivendo la geografia del Mediterraneo per come era conosciuta all’epoca. Echeggiando miti locali, Plinio racconta dei due promontori che cingono Gibilterra:
“Questo stretto è fra due monti, Abila in Africa e Calpe in Europa, ultimi termini delle fatiche d’Ercole. Per la qual cosa, gli uomini del paese le chiamano colonne di quel dio, e tengono ch’essendo rotto, egli vi facesse entrare il mare, che prima non v’entrava, e così si mutasse aspetto alla natura delle cose.”
Curiosamente, la chiusura del bacino mediterraneo è effettivamente avvenuta in un evento geologico chiamato crisi di salinità del Messiniano. Movimenti tettonici spinsero la placca africana verso quella euroasiatica circa sei milioni di anni fa, disconnettendo il bacino dall’oceano Atlantico per 700.000 anni. Durante quel periodo, l’acqua evaporò quasi completamente formando piane abissali asciutte in luogo del Mediterraneo.
All’inizio del ‘900, il prosciugamento del bacino mediterraneo è stato immaginato come progetto artificiale dall’architetto tedesco Herman Sörgel. Il piano, elaborato negli anni ’20, prevedeva un abbassamento di 100 metri nel bacino occidentale e di 200 metri nel bacino orientale mediante dighe a Gibilterra e nei canali di Sicilia. Il desiderio di nuovi spazi vitali contribuì ad alimentare l’interesse per l’opera, che continuò ad essere propagandata da Sörgel anche dopo la caduta del Reich. Nel 1958, sei anni dopo la morte dell’architetto, l’Istituto Atlantropa dichiarò il progetto “superato”. A differenza della politica espansionistica hitleriana, il Lebensraum di Atlantropa era stato pensato come un progetto pacifico, da realizzarsi in cooperazione con i paesi europei. Chiaramente non è detto che sconvolgendo così profondamente la geografia del bacino mediterraneo, gli effetti a cascata avrebbero portato i benefici immaginati. Dunque in ragione della limitata comprensione di fenomeni climatici ed ecologici del tempo, l’accantonamento del progetto fu probabilmente un bene per l’Europa.
Il tema di uno sbarramento lungo lo stretto di Gibilterra è riemerso in anni recenti in relazione ai cambiamenti climatici. Uno degli effetti, forse il più destabilizzante, del surriscaldamento terrestre è infatti lo scioglimento di ghiacciai e calotte polari, con il conseguente innalzamento del livello del mare. Dal 1880 al 1980, la maggior quantità d’acqua e la sua espansione termica hanno causato un innalzamento dei mari di circa 18 centimetri. Considerando che il ritmo di quest’innalzamento accelera, una serie di previsioni allarmate (o allarmiste a seconda dei punti di vista) sono state fatte circa il futuro delle linee costiere. Stando a Foster e Rohling, se il clima si stabilizzasse alla concentrazione di anidride carbonica attuale, i livelli del mare sarebbero circa 9 metri più su. Ovviamente questa stabilizzazione richiede tempi lunghi a causa dell’inerzia climatica; quanto lunghi è difficile dirlo. Va da sé che questa inerzia agisce in entrambe le direzioni, vale a dire che qualora la concentrazione di anidride carbonica cominciasse ad invertire la rotta, le conseguenze sul clima impiegherebbero tempo prima di poter essere apprezzate.
Stando alle previsioni dell’IPCC, l’organismo delle nazioni unite che si occupa di cambiamenti climatici, il livello del mare dovrebbe aumentare tra 0.6 e 1.1 metri entro il 2100. Benché questo aumento possa sembrare contenuto, è bene ricordare che il MOSE di Venezia è pensato per far fronte, oltre che alle maree, a un innalzamento del livello del mare di 60cm. Data la non linearità dei processi che conducono allo scioglimento dei ghiacci, la previsione dell’IPCC potrebbe anche essere ottimistica. Negli ultimi anni, notevole preoccupazione è sorta dall’instabilità del ghiacciaio Thwaites, un blocco di ghiaccio nel continente antartico grande circa due terzi l’Italia. Nel caso in cui questo ghiacciaio dovesse staccarsi dalla banchisa, esso da solo provocherebbe un incremento del livello del mare di circa 0.9 metri.
Qualora queste previsioni dovessero realizzarsi, le conseguenze per le regioni costiere del mondo sarebbero drammatiche. Circa 40% della popolazione vive infatti entro cento chilometri dalle coste e un innalzamento pronunciato del livello del mare comporterebbe enormi instabilità e migrazioni di massa. In questo senso, il bacino mediterraneo presenta una conformazione unica per implementare misure di mitigazione attraverso la costruzione di una diga nello stretto di Gibilterra. Con 15% della linea costiera mondiale ma soltanto 0.8% della superficie, e grazie alla sua conformazione facilmente “chiudibile”, il Mare Nostrum ha caratteristiche uniche per mettere in opera un sistema di protezione.
Per costruire la diga sarebbero necessari circa 1.2 km3 di rocce da depositare man mano che si innalza la struttura. Inizialmente permeabile, la diga verrebbe poi compattata con materiale più fine e incrostazioni marine fino a renderla impermeabile. Il costo dell’opera è stato stimato in circa 43 miliardi di euro di cui 30 per il materiale di scavo. Se si confronta questo costo con quello del MOSE, 6.5 miliardi, l’opera non sembra poi così faraonica. Inoltre il costo per misure locali di protezione costiera volto a mettere in sicurezza le coste da un innalzamento di un metro è stato stimato in 220 miliardi di euro.
Una delle caratteristiche peculiari del bacino mediterraneo è che l’acqua contenuta evapora più velocemente di quanto venga reintrodotta dai fiumi. L’acqua in difetto rientra dunque attraverso gli stretti di Suez e Gibilterra. Qualora questi stretti venissero chiusi, il livello del Mediterraneo diminuirebbe di mezzo metro all’anno. Questo fatto implica che qualora si costruisse uno sbarramento, esso potrebbe essere utilizzato per la generazione di corrente idroelettrica. Con un innalzamento del livello del mare di un metro, l’energia potenziale di 40.000 tonnellate d’acqua al secondo corrisponderebbero a 400 MW. Considerando un efficienza di generazione del 60% e al prezzo dell’energia attuale, significherebbe circa 450 milioni di euro all’anno di introiti dalla generazione elettrica. Un ulteriore beneficio è costituito dalla possibilità di creare un collegamento stradale e ferroviario fra Africa e Europa, collegamento che potrebbe integrarsi con altre opere come il progetto Xlinks di generazione elettrica in Marocco per l’Inghilterra.
Per quanto riguarda le conseguenza ambientali, lo sbarramento comporterebbe un aumento della salinità all’interno del bacino. Tuttavia la scala temporale del fenomeno sarebbe estremamente lunga (500 anni per un aumento di concentrazione di 5-psu, vale a dire la differenza di salinità fra alto Adriatico e Mediterraneo orientale) e potrebbe comunque essere contrastato pompando fuori acque profonde o sale. Servirebbero circa 2000 anni affinché la salinità diventi realmente limitante per la fauna ittica. Un’altra conseguenza, questa positiva, sarebbe la limitazione all’entrata di specie non endemiche.
Da un punto di vista politico è difficile prevedere le ramificazioni di un tale progetto. Esso implicherebbe assenso e cooperazione della maggior parte dei paesi che si affacciano sul Mediterraneo. È probabile che questa cooperazione possa essere sollecitata da un’accelerazione dell’innalzamento del livello del mare, sia esso graduale o improvviso come nel caso del Thwaites. Per i paesi costieri non mediterranei, data la superficie contenuta del bacino, una riduzione di un metro all’interno comporterebbe un innalzamento di 8 millimetri all’esterno, dunque relativamente contenuto. Ulteriori conseguenze politiche, come ad esempio lo status della base inglese di Gibilterra, o il rallentamento del traffico navale dovuto alle chiuse, rimangono da valutare.
Per capire le enormi opportunità dell’opera si può considerare che un progetto affine è stato proposto per il Mare del Nord. In questo caso, l’opera ha effettivamente una portata faraonica essendo composta da tre tratti di mare per una lunghezza totale di 637 chilometri. Inoltre tale chiusura avrebbe il problema simmetrico alla chiusura del Mediterraneo poiché il bacino riceverebbe dai fiumi più acqua di quanta ne perderebbe per evaporazione. In questo caso dunque vi sarebbero enormi costi di pompaggio verso l’esterno. Una stima del costo di tale progetto indica almeno un ordine di grandezza in più rispetto ad una diga mediterranea e tempi di costruzione tra 50 e 100 anni. Benché la soluzione sia stata proposta più come campanello di allarme che come reale progetto, essa è sintomatica di uno stato di apprensione di paesi nordeuropei che, Olanda in particolare, rischierebbero sconvolgimenti esistenziali da un aumento pronunciato del livello del mare. A proposito di questo progetto esiste un interessante video esplicativo di Caspian Report.
Alla luce di quanto detto, i tempi dovrebbero essere maturi per riaprire una discussione sul progetto di Atlantropa. Non ci si auspica qui la partenza dei lavori, ma la formazione di organizzazioni per valutare più precisamente la sua fattibilità e per iniziare un dialogo fra i paesi coinvolti. L’obiettivo sarebbe dunque di “tenersi pronti” qualora dovessero esserci segnali, come un’ipotetica deriva del Thwaites, che è arrivato il momento di agire. La natura caotica delle interazione biogeochimiche implica che le simulazioni non potranno mai anticipare con precisione il futuro dei nostri mari ma le conseguenze di una totale impreparazione potrebbero essere gravi. Il Mediterraneo, unicum mondiale, ha le caratteristiche ideali per implementare questo tipo di misura di protezione e, data la sua importanza geografica e culturale, verrebbe così consacrato come patrimonio e santuario dell’umanità.
* Molti dei dati presentati in questo articolo sono tratti da:Gower, J. A sea surface height control dam at the Strait of Gibraltar. Nat Hazards78, 2109–2120 (2015). https://doi.org/10.1007/s11069-015-1821-8