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Geopolitica degli Emirati Arabi Uniti – parte 2

Golfo

Geopolitica degli Emirati Arabi Uniti – parte 2

Articolo di Pasquale Noschese e Aurelio Poles

Parte seconda : geopolitica emiratina in un ordine mondiale sempre più instabile

Si è detto che l’ordine globale modellato dagli Stati Uniti d’America in conclusione del secondo conflitto mondiale funge da condizione di possibilità per l’azione di qualsiasi attore afferente alla regione del Golfo Persico. Quello a cui tuttavia non si è accennato sono le modifiche che, a partire dalla fine dello scorso secolo, hanno iniziato ad intaccare tale ordine globale, aprendo inediti spazi di manovra per attori di taglia minore. 

In primo luogo, in conclusione del secolo, è terminata la Guerra Fredda, ossia il conflitto in vista di cui l’attuale ordine internazionale era stato disegnato a Washington. In secondo luogo, a partire dall’inizio del nuovo secolo, la shale revolution, ossia lo sviluppo di nuove tecniche di estrazione di idrocarburi non convenzionali, ha permesso agli USA di raggiungere l’autonomia energetica. A ciò va poi aggiunta una terza considerazione di carattere strutturale relativa al fatto che lo stabilirsi di un determinato ordine internazionale rispecchia sempre gli equilibri di un dato momento storico ed è dunque volto a garantire gli interessi delle potenze dominanti (in queste caso quelle che uscirono vincenti dal secondo conflitto mondiale). Se nel breve periodo l’ordine internazionale gode di grande stabilità in quanto disegnato dagli attori geopoliticamente dominanti, nel lungo periodo, col modificarsi dei rapporti di forza a seguito di uno sviluppo economico-industriale asimmetrico, nuovi attori, insoddisfatti di un ruolo ormai inadatto alla loro nuova taglia, premono per la modifica, se non la rottura, dell’ordine internazionale stesso. Tutto ciò significa che gli Stati Uniti sono sempre meno interessati al mantenimento dell’attuale ordine internazionale, in primo luogo perché è venuto meno lo scopo per il quale era stato imbastito (il contenimento dell’URSS) e in secondo luogo perché l’autonomia energetica recentemente ottenuta, unitamente alla bassa dipendenza dell’economia interna dal commercio internazionale, rende Washington sempre più distaccata da ciò che avviene oltreoceano. A ciò si aggiunge il fatto che la portentosa crescita economica di nuovi attori regionali in tutto il mondo, alimentando la narrazione di una nuova era multipolare, spinge gli americani verso una condizione di vero e proprio overstretching, con la necessità di far fronte alle pressioni di Stati che spingono per un rimodellamento dell’ordine globale che tenga conto dei mutati rapporti di forza. 

Nel caso particolare del Medio Oriente i cambiamenti all’attuale ordine globale si traducono nella tendenza ad un progressivo disimpegno degli Stati Uniti dalla regione, il quale va ovviamente a detrimento degli attori che avevano beneficiato di tale sistema, come Arabia Saudita e EAU, e a vantaggio di Paesi in ascesa che reputano l’attuale configurazione troppo stretta rispetto alle proprie ambizioni geopolitiche, come Turchia e Iran. In tale contesto è chiaro che Abu Dhabi, la quale dipende disperatamente dall’ecosistema creato dall’ordine americano, sia chiamata ad assumere un ruolo sempre più proattivo per sostenere un’azione statunitense che tende progressivamente a ridursi di intensità ed efficacia. Fare ciò significa garantire l’indipendenza del Paese e la libertà di movimento di merci, persone e informazioni, le quali, combinate assieme, hanno reso possibile capitalizzare sulle riserve di idrocarburi e sulla posizione strategica della Penisola Arabica (in un mondo globalizzato infatti gli EAU, e nello specifico la città di Dubai, svolgono anche l’importante ruolo di hub logistico, finanziario e in generale di importante centro nel campo dei servizi e del turismo). Puntellare l’ordine americano contenendo attori ostili che intendono penetrare nella regione quali Turchia, Iran e Cina rende infine possibile l’ottenimento di un margine autonomo di manovra, il quale viene invece speso per combattere le minacce all’ordine interno del Paese, pressoché interamente riassumibili nella lotta contro l’Islam politico ed in particoare contro i Fratelli Musulmani.

Nel quadro sopra delineato, il duplice interesse di Abu Dhabi consiste nell’assicurare al Paese una posizione strategicamente vantaggiosa in mari vicini quali il Golfo Persico e il Mar Rosso e nel contenimento – se non soffocamento, ove possibile – delle iniziative promosse dall’Alleanza Musulmana e dai suoi campioni, ossia Qatar e Turchia. Se il Golfo Persico funge da collo di bottiglia per la quasi totalità delle esportazioni e importazioni dei Paesi rivieraschi e ha dunque un’ovvia importanza a livello securitario, il Mar Rosso, nella sua versione allargata comprendente Mediterraneo Orientale e Golfo di Aden, svolge il ruolo più ampio di snodo fondamentale per i commerci marittimi tra Europa ed Oriente, e per questo è guardato dalle élites emiratine come un vero e proprio moltiplicatore di potenza. È dunque entro tale quadrante che gli Emirati perseguono i propri interessi securitari, non solo tramite gli strumenti militare e finanziario, ma anche in larga parte anche per mezzo della tessitura di una complessa quanto efficace ragnatela diplomatica.

In primo luogo gli Emirati, proprio in virtù del loro bisogno di puntellare l’ordine mondiale statunitense, si offrono a Washington come pedina nel Great Game ingaggiato con Pechino lungo l’arco delle cosiddette Nuove Vie della Seta (ricordiamo che la prima base militare cinese all’estero è stata aperta proprio a Gibuti nel 2017). Qui Abu Dhabi si guadagna le simpatie USA offrendo i propri capitali e le proprie aziende (come il colosso della logistica Dp World) quali alternativa alle offerte di investimento in ambito infrastrutturale avanzate da Pechino ai Paesi della regione. In tal modo gli Emirati perseguono il triplice obiettivo di guadagnarsi l’appoggio americano, depotenziare un concorrente potenzialmente ostile e ampliare la propria influenza.

Per quanto riguarda il quadrante orientale rappresentato dal Golfo Persico Abu Dhabi deve rapportarsi essenzialmente con due importanti minacce, ossia Iran e Qatar. La prima intesa come minaccia per la sicurezza, l’integrità e la prosperità dello Stato inteso come entità sovrana e la seconda intesa come sostenitrice di movimenti potenzialmente sovversivi, non solo per gli alleati regionali, ma anche per gli Emirati stessi.

Partendo dell’Iran, senza dubbio il vicino più scomodo, al momento gli EAU possono permettersi una postura poco rigida, sia per il discreto interscambio commerciale che intercorre tra l’emirato di Dubai e Teheran, sia perché i territori degli EAU sono privi delle minoranze sciite presenti nel resto della Penisola Arabica, le quali, fungendo da potenziale quinta colonna in caso di aggressione persiana, esasperano le altri capitali del Golfo (prima tra tutte Riad). Ciò tuttavia non deve condurre al grossolano errore di scambiare i due Paesi per alleati strategici: il rapporto non eccessivamente conflittuale che caratterizza gli attuali rapporti è infatti di natura tattica e dipende dalla congiuntura geopolitica corrente. La massima pressione statunitense su Teheran e la morbosa ossessione saudita per il Paese sciita permettono per ora ad Abu Dhabi a non interessarsi in prima persona dell’ingombrante vicino, ma tale bonarietà è destinata ad invertirsi in maniera inversamente proporzionale alla pressione esercitata sulla Persia dagli altri alleati. Gli incidenti occorsi a diverse imbarcazioni mercantili nel Golfo nel corso degli ultimi mesi, probabilmente riconducibili all’azione di unità iraniane, sono utili a ricordare la fragilità di questo equilibrio e l’incombente minaccia rappresentata da Teheran per la sicurezza degli EAU.

Relativamente al Qatar è nota la forte ostilità che intercorre tra Abu Dhabi e Doha, astio plasticamente espresso dalla rottura nelle relazioni diplomatiche consumatasi nel 2017. Il Qatar infatti rappresenta il baluardo della Fratellanza Musulmana in Medio Oriente, la quale irraggia dal piccolo emirato la propria influenza sia a livello di soft power – ivi ha sede la celebre emittente televisiva Al Jazeera – che a livello finanziario tramite i proventi qatarioti della vendita di idrocarburi. A rendere ancora più indigesta Doha ci pensa la presenza militare turca, avvertita con grande irritazioni negli Emirati, che non a caso, tra le richieste presenti per la rimozione del blocco avanzavano il ritiro delle truppe anatoliche dall’emirato.

È però nel quadrante occidentale, ossia nell’area del Mar Rosso, che lo sforzo emiratino si concentra arrivando a tessere una complessa rete di relazioni ed interessi che coinvolge pressoché tutti gli Stati rivieraschi.

In Yemen l’impegno militare diretto (fino al 2019) e indiretto (a partire dal 2019) delle forze emiratine non deve essere frainteso come l’inevitabile assunzione di responsabilità da parte di un junior partner dell’Arabia Saudita, la quale è la vera promotrice del conflitto. Abu Dhabi, in cambio del supporto alle operazioni belliche, ha potuto insediarsi nei luoghi di interesse strategico del Paese quali la città portuale di Mocha, l’aeroporto di Mukalla nonché l’isola di Socotra nell’Oceano Indiano.

Nel territorio del Corno d’Africa invece Abu Dhabi può estendere la sua influenza in forza della propria capacità di investimento, la quale sta alla base delle ottime relazioni con i Paesi della regione. Qui il territorio semi-autonomo del Puntland, nella Somalia nord-orientale, ha firmato un contratto per la concessione trentennale del porto di Bosaso ad una controllata di DP World, mentre il gruppo emiratino TISL è riuscito a rilevare l’aeroporto locale; in maniera analoga Abu Dhabi ha esteso la propria influenza in Somaliland, dove Dp World ha investito quasi mezzo miliardo di dollari nel porto di Berbera, mentre viene condotta una lenta e più generale operazione di conferimento di legittimità, merce preziosissima per il Paese ribelle, privo del riconoscimento della comunità internazionale. Gli sforzi per instaurare regimi alleati nel mosaico somalo, dunque a detrimento dell’autorità della Repubblica Federale, agiscono poi simmetricamente da argine dell’influenza di Ankara, e quindi anche di Doha, la quale supporta da anni il governo di Mogadiscio.

Più a nord la rete di interessi emiratini si inoltra in Eritrea e Sudan. Nella prima gli Emirati sono stati i primi a rompere l’isolamento diplomatico di Asmara, coniugando il consueto ruolo di megafono diplomatico delle istanze dei paesi amici con la più concreta costruzione di una base militare nella località marittima di Assab. Anche in Sudan Abu Dhabi, tramite l’appoggio al colpo di Stato del 2019, è finalmente riuscita ad estendere la propria influenza; la liquidazione di al-Bashir, tradizionalmente vicino alla Turchia e all’Alleanza Musulmana, ha permesso agli EAU di eliminare una fastidiosa spina nel fianco (la Turchia infatti sarebbe addirittura riuscita ad installare alcune basi militari presso Suakin, almeno stando ad alcune indiscrezioni). Oltre alle iniezioni di denaro e agli aiuti inviati durante la crisi pandemica, gli EAU si sono fatti attivamente promotori della normalizzazione dei rapporti diplomatici tra il Sudan e Israele, fungendo da terzo polo negli incontri trilaterali con gli Stati Uniti e assumendo dunque il ruolo di portavoce e garante della giunta militare sudanese. Similmente, il Sudan ha accettato di buon grado di appoggiare la proposta emiratina di rivestire il ruolo di mediatore nelle dispute territoriali tra il Paese e la vicina Etiopia, la quale a sua volta ha tratto vantaggio nel conflitto con l’Eritrea dalla mediazione degli Emirati (oltre che dagli aiuti economici emiratini), descritta come fondamentale per il raggiungimento di un accordo di pace.

I rapporti di Abu Dhabi con i restanti Stati rivieraschi, sebbene improntati ad una relazione più simmetrica rispetto a quelli sopra descritti, giocano comunque a favore del Paese, il quale può far vanto di una condizione strategica invidiabile. In primo luogo l’Arabia Saudita costituisce un alleato storico del Paese, con il rapporto personale tra MBS e MBZ a cementare l’asse arabo. In secondo luogo viene l’Egitto, con il quale Abu Dhabi condivide la lotta contro la Fratellanza Musulmana ed i suoi alleati (gli Emirati furono tra i maggiori sostenitori del colpo di stato militare che condusse al potere l’attuale presidente al-Sisi, proprio a scapito di un governo retto dalla Fratellanza). Infine non possono non essere menzionati gli ottimi rapporti che oggi intercorrono con Israele, suggellati di recente con gli storici Accordi di Abramo. Il rapporto tra Abu Dhabi e questi due ultimi Paesi trae forza dal contenimento della sempre maggiore aggressività turca nel Mediterraneo orientale; in Libia gli EAU sono schierati con l’Egitto al fianco di Haftar contro il governo di unità nazionale supportato da Turchia e Qatar, mentre nella disputa sui giacimenti gasiferi del Levante oppongono tenace resistenza alle iniziative turche volte a danneggiare il progetto EastMed, in cui sono coinvolti, tra i vari, Israele, Egitto e Grecia (altro Paese anti-turco con cui Abu Dhabi gode di ottimi rapporti).

Conclusione

Proviamo a riassumere l’analisi geopolitica fin qui condotta. Si è visto che la sicurezza e la prosperità degli EAU come Stato sovrano hanno come condizione di possibilità l’ordine mondiale a guida statunitense venutosi a formare a seguito del secondo conflitto mondiale. Si è anche potuto notare come tale ordine oggi stia progressivamente cedendo, sia per la sempre maggiore tendenza al disimpegno americano, sia per la crescente pressione di Paesi insoddisfatti dagli attuali equilibri internazionali. A partire da queste premesse si è osservato come oggi si aprano nuovi spazi di azione per attori di taglia minore, quali gli Emirati stessi; in questo contesto Abu Dhabi è chiamata sempre di più a sostenere attivamente i propri interessi, da un lato assumendosi in prima persona la difesa delle aree critiche per la sicurezza del Paese, come Golfo Persico e Mar Rosso, dall’altro respingendo i tentativi di espansione di attori intenzionati a forzare quello stesso ordine che gli EAU intendono difendere, in particolare Turchia e Iran. Per quel che riguarda l’ostilità nei confronti di questi due Paesi infine si è potuto constatare come al momento sussista un maggior grado di conflittualità con Ankara piuttosto che con Teheran. La direttrice di espansione neo-ottomana propugnata da Erdogan infatti si sovrappone agli interessi emiratini nell’area che va dal Mediterraneo orientale all’Oceano Indiano passando per Mar Rosso e Golfo di Aden, ma soprattutto trae forza dall’appoggio finanziario del Qatar, il quale, a causa della strenua opposizione alla Fratellanza Musulmana, non può essere tollerato. La bassa intensità delle ostilità con l’Iran tuttavia non deve essere sottovalutata, e anzi rappresenta l’aspetto più importante negli sviluppi futuri della regione; nel caso in cui la pressione statunitense diminuisse, le velleità dell’Iran (più di 80 milioni di abitanti) tornerebbero ad infiammarsi; ciò risulterebbe catastrofico per gli Emirati (meno di 10 milioni di abitanti, di cui il 90% stranieri), Paese difficilmente difendibile da un punto di vista geografico che importa la quasi totalità dei beni fondamentali (in primis quelli alimentari) da un collo di bottiglia facilmente ostruibile dall’esercito di Teheran.

Pasquale Noschese, 20 anni, frequenta il terzo anno di filosofia all'Università di Padova. E' nato a Salerno, dove si è diplomatico al liceo classico F. De Sanctis. Collabora con “Gazzetta filosofica” e “La Fionda”. I suoi interessi vanno dall’arte alla geopolitica passando, ovviamente, per la filosofia.

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