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La Destra post-fascista tra “autarchia dei grandi spazi” e piccole patrie

Destra

La Destra post-fascista tra “autarchia dei grandi spazi” e piccole patrie

Con piacere ospitiamo questa approfondita riflessione del professor Luca Tedesco, docente all’Università di Roma Tre, sulla parabola politica e culturale della Destra contemporanea che, secondo l’autore, intestardendosi sui velleitari sovranismi di stampo nazionale dimentica una lunga tradizione fatta di approfondite riflessioni sugli equilibri geopolitici europei e globali.

A metà novembre è stato firmato il Regional Comprehensive Economic Partnership, un accordo di libero scambio tra i Paesi asiatici bagnati dal Pacifico, l’Australia e la Nuova Zelanda, che rappresentano circa il 30% del Pil mondiale.

Se tale trattato conferma come i processi di globalizzazione stiano assumendo sempre più marcatamente una fisionomia multipolare e macroregionale[1], eloquente è allora il silenzio di quell’area politico-culturale che, invece di tentare di essere all’altezza delle sfide geopolitiche odierne, si balocca e intestardisce in velleitarismi sovranisti su scala nazionale di tutta evidenza di retroguardia. Ciò è tanto più rilevante quanto più si consideri che non poche sarebbero, alla luce di riflessioni pluridecennali, le frecce disponibili nella faretra della Destra non liberale.

«Se la Nuova Cultura ha segnato nei nostri ambienti un più che notevole salto di qualità in molti settori, dalla politologia alla scienza, dalla sociologia all’ideologia ecc, altrettanto non si può dire a proposito dell’economia e della politica economica, materie che non sono ancora state oggetto di un adeguato riesame critico alla luce della multiforme realtà contemporanea»[2]; questo era il j’accuse mosso all’inizio degli anni Ottanta sulle colonne di «Diorama letterario» da Alberto Guascani che continuava l’affondo rimproverando alla Nuova Destra di Marco Tarchi[3] di oscillare «tra fughe bucolico-agresti e complotti mondialistico-massonici».

In terra francese, peraltro, nel corso del decennio vedevano la luce Contre l’économisme[4] di Guillaume Faye e i saggi raccolti in Tiers-mondisme et cause des peuples[5], a firma in gran parte di Alain de Benoist e pubblicati in Italia con il titolo Oltre l’Occidente. Europa-Terzo mondo: la nuova alleanza, da La roccia di Erec[6]. In quest’ultimo lavoro, condizione ineludibile per garantire ai Paesi del Terzo Mondo possibilità di sviluppo che rispettassero specificità collettive e culture differenziate[7] era la creazione di «grandi zone di sviluppo autocentriche, corrispondenti ad affinità storiche e culturali, zone sufficientemente vaste e diversificate»[8].

Solo difatti «uno sviluppo economico autocentrico, in grado di associare preferenzialmente le economie nazionali di paesi con una domanda interna simile ed appartenenti alle stesse zone storiche, culturali e geopolitiche, basantisi su di un saldo protezionismo di orientamento autarchico, può nello stesso tempo salvaguardare l’indipendenza reale di questi paesi, permettere la modernizzazione delle loro strutture nel rispetto della loro personalità e consentire contemporaneamente l’indispensabile accumulo di capitale necessario al “decollo”, nonché il reinvestimento sul posto dei profitti ottenuti sul mercato interno»[9]. Rifacendosi alla Nouvelle économie internationale. De la crise mondiale au développement autocentré[10] di François Grjebine, de Benoist auspicava che gli scambi si stabilissero tra Paesi pervenuti a stadi di sviluppo simili[11]. Ciò implicava l’abbandono delle ricette economiche marxiste e liberali, in particolar modo «dei dogmi del liberoscambismo internazionale»[12].

In questo tentativo, volto a spezzare la dipendenza economica dall’estero, il Terzo Mondo avrebbe potuto trovare nell’Europa un alleato naturale, interessato a sfuggire alla soffocante tutela delle superpotenze, a «costituire una “terza via”» e a «offrire un’alternativa alle ideologie dominanti»[13].

Superate le tradizionali dicotomie concettuali sviluppo/sottosviluppo e arretratezza/modernizzazione, dicotomie che caratterizzavano sia le teorie modernizzanti stadiali liberali come quella di Walt Whitman Rostow che quelle marxiste di Paul Baran, Maurice Dobb, Arghiri Emmanuel e Samir Amin, i quali benché criticassero «il carattere astorico delle categorie concettuali impiegate dagli studiosi “borghesi”» andavano in realtà elaborando «una teoria del sistema economico internazionale altrettanto reificata quanto quella funzionalista» e ancorata a una «filosofa sviluppista» e determinista della storia, i Paesi del Terzo mondo, avrebbe ribadito Gambescia su «Trasgessioni», avrebbero dovuto puntare «su nuove strategie economiche di tipo regionale volte alla soddisfazione dei bisogni interni e non di quelli imposti dal mercato internazionale»[14], come proposto dall’economista francese Michel Beard[15] e dal sociologo René Dumont[16].

Faye, da parte sua, in una intervista a «Diorama letterario», sempre negli anni Ottanta, sintetizzava così le sue posizioni:

del marxismo io conservo l’idea della pianificazione, del liberalismo conservo l’idea del mercato (che non gli appartiene tuttavia in esclusiva). Lo scacco delle alternative ai sistemi economici borghesi proviene dal fatto che esse hanno voluto contestare la società industriale stessa a vantaggio di utopie regressive. Io provo, al contrario, interpretando la società industriale e la tecnocrazia come parti integranti della nostra cultura, a dare loro un altro significato, di riformarne il funzionamento e le finalità. Perché non credo che l’industria, la tecnica, la prosperità, siano necessariamente legate al consumismo individuale e alla modernità borghese[17].

All’interno di spazi economici non mondiali ma subcontinentali (l’«autarchia dei grandi spazi»[18]), in quello europeo (il «grande mercato industriale autarchico intra-europeo preservato dall’estero»[19]) per combattere disoccupazione e deindustrializzazione occorreva quindi non «tanto sopprimere il mercato quanto sottometterlo ai principi del surplus, della “creazione monetaria diretta”»[20]. «Più mercato, così come il libero scambio intra-europeo», dunque, più investimenti e «meno consumismo e meno prodotti di consumo individuale, meno scambi extra-europei e internazionali, meno “Stato sociale”»[21] e «assistenzialismo» e «la fine degli interventi socio-fiscali penalizzanti». Da qui la proposta di uno Stato che, fatti salvi i settori strategici che dovevano essere sottratti alla concorrenza, ponesse all’economia privata delle regole finalizzate al conseguimento di obiettivi anche politici, senza arrivare però giungere alla nazionalizzazione, come quello della massima occupazione. La libera concorrenza, negata «a livello di mercato mondiale», avrebbe dovuto essere praticata «a livello intra-europeo»[22].

Nello stesso torno di tempo, Marco Tarchi presentava l’Europa come «centro geopolitico delle strategie planetarie, concentrazione di capacità umane, tecnologiche ed economiche ma anche scacchiere primario del conflitto Est/Ovest»[23]. Non un terzo inter partes, quindi, ma «contra partes» (in questa, come nelle citazioni seguenti, in grassetto nel testo). La fine dell’avventura coloniale «apre all’Europa la via della creazione di una grande forza di sviluppo autocentrata fondata su un’alleanza di nuovo genere con il Terzo Mondo»[24]. Tarchi individuava nella recrudescenza del protezionismo americano e nella sfida del produttivismo a basso costo giapponese, nell’integrazione europea dettata dalla Cee e nell’incremento dell’interscambio Est-Ovest «l’esigenza di un’autonomia continentale del ciclo produzione-consumo» e di «un progetto di aggregazione nazionale europea graduale e bilanciata»[25].

Nel decennio successivo veniva poi dato alle stampe La mondialisation, la destruction des emplois et de la croissance. L’évidence empirique[26] di Maurice Allais. Già cofondatore, nel 1947, della liberista e liberoscambista Mont Pelerin Society e sostenitore della liberalizzazione degli scambi tra Occidente e Terzo Mondo[27], in questo lavoro, invece, rilevata l’implausibilità della teoria ricardiana dei vantaggi comparati in condizioni non statiche e quindi caratterizzate dall’evoluzione delle specializzazioni, giungeva a difendere l’apertura dei mercati in contesti sufficientemente omogenei sotto il profilo socio-economico ma a considerarla, secondo quanto già segnalato da Immanuel Maurice Wallerstein[28], foriera di gravi squilibri in contesti privi di tale omogeneità.

Ovviamente, non tutto questo armamentario culturale può reggere all’usura del tempo, che il perimetro del cosiddetto Terzo Mondo è andato modificandosi sensibilmente nel corso degli ultimi decenni e l’antiamericanismo non può non tener conto del fatto che gli USA sono oramai solo uno degli attori, per quanto cruciali, del quadro multipolare odierno. Cionondimeno, stupisce che la Destra postfascista non faccia il minimo uso di strumenti analitici che pur potrebbero corroborare e conferire credibilità al suo discorso antimondialista, autorizzando così più di un dubbio sulla linearità di tale discorso[29], lasciando questo tentativo a frange minoritarie dell’universo ‘non conforme’ no global[30].


* Questo saggio si inserisce all’interno del Progetto PRID Dimensione interculturale del Dipartimento di Scienze della Formazione dell’Università degli Studi Roma Tre.

[1] P. Fagan, L’accordo commerciale asiatico plasma il mondo multipolare, in https://osservatorioglobalizzazione.it/osservatorio/accordo-cina-multipolare/

[2] Recensione, a firma di A. Guascani, di R. Parboni, Finanza e Crisi Internazionale, Milano, Etas, 1980, in «Diorama letterario», 43, novembre 1981, p. 16.

[3] La Nuova destra nasce nella prima metà degli anni Settanta (cfr. M. Tarchi, Postfazione. I Campi Hobbit, la Nuova destra e la “Destra Nuova”. Una controversia politico-genealogica, in Idem(a cura di), La rivoluzione impossibile. Dai Campi Hobbit alla Nuova destra, Firenze, Vallecchi, 2010, p. 445) su iniziativa di una costola del mondo missino, più precisamente di alcuni dirigenti del Fronte della gioventù, e tenterà un esperimento di rifondazione culturale del mondo valoriale della destra neofascista negli anni in cui la guerra ‘civile’ strisciante tra rossi e neri andava sacrificando la riflessione intellettuale a tutto vantaggio della contrapposizione armata. Essa, attenta al discorso comunitario, mostrava diffidenza nei confronti della forma mentis occidentalista, tacciata di voler imporre, perlomeno dall’illuminismo in poi, gli stessi modelli razionalisti e le medesime categorie utilitaristiche delle relazioni sociali a qualsiasi latitudine, traendo ispirazione dal Groupement de Recherches et d’Études pour la Civilisation Européenne (Grece), che, nato in Francia nel 1968, soprattutto attraverso le analisi sviluppate dal suo fondatore e protagonista più prolifico, Alain de Benoist (per una biografia intellettuale del quale si rinvia a F. Germinario, La destra degli dei. Alain de Benoist e la cultura politica della Nouvelle droite, Torino, Bollati Boringhieri, 2002), si incaricò di rinnovare riferimenti culturali e orizzonti intellettuali di una destra francese che si consolava e crogiolava pigramente nelle secche rassicuranti del tradizionalismo (cfr. M. Tarchi, Prefazione. Il problema di una “Nuova destra” italiana, in A. de Benoist, Visto da Destra. Antologia critica delle idee contemporanee, Napoli, Akropolis, 1981, p. 13. Sulla Nuova destra, mi permetto di rinviar anche al mio L’America a destra. L’antiamericanismo nella stampa neofascista dal Patto Atlantico alla Seconda Guerra del Golfo, Firenze, Le Lettere, 2014, pp. 60-80).

[4] Paris, Le Labyrinthe, 1983.

[5] In «Éléments pour la civilisation européenne», 48-49, décembre 1983.

[6] Firenze, La Roccia di Erec, 1986.

[7] Ivi, p. 91.

[8] Ivi, p. 75.

[9]Ivi, p. 76.

[10] PUF, Paris, 1980. L’economista e filosofo francese, pur diffidente nei confronti di soluzioni integralmente autarchiche, proponeva per il Terzo Mondo soluzioni fondate su potenziamento della domanda interna piuttosto che sulle specializzazioni volte ad incrementare le esportazioni e a rispondere alle necessità economiche degli ex Paesi colonizzatori: «en réalité, de nombreuses expériences suggèrent que si une dépendance excessive vis-à-vis de l’extérieur est un facteur de fragilité et de crise, les tentatives de développement autarcique sont le plus souvent vouées à l’échec, voire à la catastrophe. Il s’agit donc aujourd’hui de dépasser les dogmatismes libéraux ou marxistes qui ont fait la preuve de leur nocivité, pour faciliter l’éclosion d’une nouvelle vision de l’économie mondiale et rechercher les conditions internationales d’un aussi éloigné d’un repli sur soi autarcique que du libre-échange anarchique actuel. Pour ce faire, il paraît nécessaire de renverser l’ordre des priorités et de privilégier dorénavant les exigences internes de chaque pays, de chaque région du monde. Chacune de ces régions devrait rechercher un développement équilibré en évitant des spécialisations trop étroites et en préservant en son sein une gamme aussi complète que possible d’activités» (ivi, p. 16).

[11] A. de Benoist, Oltre l’Occidente. Europa-Terzo mondo: la nuova alleanza, cit., p. 76.

[12] Ivi, p. 91.

[13] Ivi, pp. 92-3.

[14] C. Gambescia, Comunitarismo contro universalismo. Per una critica del paradigma occidentale della modernizzazione, in «Trasgressioni», gennaio-aprile 1992, p. 29.

[15] M. Beaud, Le système mondial hiérarchisé, Paris, La Découverte, 1987.

[16] R. Dumont, Démocratie pour l’Afrique. La longue marche de l’Afrique noire vers la liberté, Paris, Seuil, 1991.

[17] Intervista, intitolata Quale economia?, di Mario Bozzi Sentieri a G. Faye in «Diorama letterario», 90, febbraio 1986, p. 2. Nel corso dell’intervista, Bozzi Sentieri osservava che chi intendeva «fuoriuscire» dal capitalismo aveva l’onere di disegnare orizzonti sociali e economici «plausibili» e non «la fuga regressiva verso immaginari mondi» e «infantilismi socio-economici di varia natura», ibidem.

[18] Ibidem.

[19] Ivi, p. 3.

[20] Ivi, p. 2.

[21] Ibidem.

[22] Ivi, p. 3.

[23] M. Tarchi, Per un neutralismo attivo, ivi, 97, ottobre 1986, p. 5.

[24] Ivi, p. 3.

[25] Ivi, p. 6.

[26] 1999, Paris, Juglar.

[27] M. Allais, Il Terzo Mondo al bivio. Centralizzazione autoritaria o pianificazione di concorrenza, Firenze, Sansoni, 1962 (ed. or.1961).

[28] Il capitalismo storico, Torino, Einaudi, 1985 (ed. or. 1983)

[29] M. L. Andriola, L’ascesa di Fratelli d’Italia di Giorgia Meloni: dalla “destra sociale” al liberismo nazional-conservatore trumpista, in https://osservatorioglobalizzazione.it/wp-content/uploads/2020/07/Fratelli-dItalia-Paginauno.pdf .

[30] Il programma di CasaPound Italia,  in ELEZIONI 2013/ Il programma di CasaPound Italia (ilsussidiario.net)..

Luca Tedesco insegna Storia contemporanea e Storia e Didattica della Storia presso il Dipartimento di Scienze della Formazione dell'Università degli Studi Roma Tre.

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