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Anche Fukuyama ora lo ammette: la fine della storia è rimandata

Quella che segue è un’intervista a Francis Fukuyama pubblicata online il 18 marzo 2017 dalla rivista svizzera NZZamSonntag in cui si ha modo di conoscere le evoluzioni e gli sviluppi del pensiero di uno degli intellettuali più celebri e controversi dei nostri tempi. Tradotta per la prima volta in italiano per “Osservatorio Globalizzazione”, ad essa l’autore dell’opera di traduzione ha voluto affiancare un lavoro di commento che viene pubblicato contestualmente.

Francis Fukuyama: «La fine della storia è rimandata»

Nel 1989 annunciò la «fine della storia». Il comunismo era morto, la democrazia aveva definitivamente vinto. Oggi Fukuyama ammette che questo ottimismo è stato troppo prematuro.

Nzz am Sonntag: Signor Fukuyama, l’umanità è oggi affascinata da figure come Putin, Erdogan, Orban o anche Trump. Come ci si può spiegare questo?

Francis Fukuyama:Tra le più ricorrenti critiche alla democrazia vi è quella per cui essa condurrebbe a governi deboli, a governi che chiacchierano troppo, necessitano di lunghi processi decisionali, devono cozzare contro continui ostruzionismi e alla fine producono pessimi compromessi. Io sono effettivamente dell’opinione che il sistema politico americano sia diventato piuttosto disfunzionale, polarizzato, paralizzato, dominato da interessi particolari. Di qui nasce il desiderio di politici che siano energici e che portino a casa i risultati. Ciò porta alla popolarità di figure come Putin.

Nzz am Sonntag: Questi politici soddisfano poi davvero quest’aspettativa?

Francis Fukuyama: Si deve essere semplicemente consapevoli che si pagano i “pro” con i “contro”. In una democrazia c’è una forte divisione dei poteri. Questo è particolarmente importante se ad un politico interessano poco i limiti d’esercizio del suo potere. La soluzione all’inazione non risiede però semplicemente nello scegliere una singola figura forte, quanto piuttosto nel creare istituzioni che rendano più semplice un agire efficace in accordo con le leggi e la negoziazione di buoni compromessi. Attualmente abbiamo negli USA un lento, complicato sistema che io chiamo “vetocrazia”, il governare per veti. L’insoddisfazione per questa situazione molti cittadini la imputano alla democrazia. Quindi hanno votato Trump.

Nzz am Sonntag: Parliamo adesso della democrazia liberale. Quali sono i suoi elementi chiave?

Francis Fukuyama: Una democrazia moderna si basa su tre pilastri. Ci deve essere innanzitutto uno stato che è in grado di esercitare il suo potere per difendere la comunità e far rispettare le leggi. Il secondo pilastro è lo stato di diritto. Attraverso di esso vengono posti dei limiti al monopolio statale della forza. Il terzo pilastro è il principio democratico: i cittadini possono votare e sanzionare i loro leader, non rieleggendoli. Quindi si ha un’istituzione, che è un’istituzione di potere, e una seconda istituzione, che limita il monopolio del potere. La chiave per una democrazia liberale di successo è che tutte e tre le componenti devono essere in un certo equilibrio. Se si ha uno stato troppo debole per imporre le leggi, il cittadino ottiene uno stato come l’India – di totale corruzione. Se lo stato è troppo forte si finisce come in Cina, dove il potere del governo è praticamente illimitato. Una democrazia liberale si vorrebbe più o meno a metà fra i due.

Nzz am Sonntag: Ma i politici come Erdogan vengono pur votati dal popolo. Essi dispongono conseguentemente di un mandato legittimato democraticamente.

Francis Fukuyama: Stato di diritto e libertà di voto democratica si trovano persino in una certa contraddizione. Si veda oggi in Turchia come i leader democraticamente eletti tendono a demolire lo stato di diritto ed estendere il loro potere personale. 

Nzz am Sonntag: È quindi la vetocrazia in un certo senso una semplice esasperazione dello stato di diritto?

Francis Fukuyama: Esattamente. Gli USA hanno uno stato di diritto totalmente esasperato. Qualcuno vuole costruire una strada in California: teoricamente 40 milioni di cittadini dispongono del diritto di obiezione. Pertanto possono passare in fretta anche 15 anni, prima che si inizi con la costruzione.

Nzz am Sonntag: Quindi hanno ragione quei critici che affermano che la democrazia liberale non è più in grado di risolvere problemi di lungo periodo?

Francis Fukuyama: Questo non è vero in modo così generico. Questo vale solo per determinati Paesi. Dove ci sono problemi, essi non risiedono nel sistema democratico in sé, ma nelle tensioni soggiacenti nella società. Gli Stati Uniti sono ad esempio un Paese incredibilmente polarizzato. Questa polarizzazione è costantemente cresciuta negli ultimi anni ed aggrava progressivamente la ricerca di compromessi. Al contrario la Germania ed i paesi scandinavi sono stati negli ultimi anni nella condizione di imporre maggiori progetti di riforma ad esempio nel mercato del lavoro.

Nzz am Sonntag: Quali sono quindi le cause di questa polarizzazione negli USA?

Francis Fukuyama: Ci sono delle ragioni ovvie: gli USA sono una nazione molto grande e variegata. Che cosa hanno in comune un abitante della rurale Louisiana e uno di San Francisco? Niente, in realtà. Questa perdita di punti in comune viene rafforzata dall’ascesa di internet, che permette alla gente di comunicare solo con chi ha la stessa opinione.

Nzz am Sonntag: Da ciò si potrebbe dedurre la seguente legge: più una società è polarizzata, peggio funziona la democrazia?

Francis Fukuyama: Effettivamente una democrazia non può funzionare se non si ha un minimo di valori fondamentali condivisi. Grazie a questi il sistema americano ha funzionato bene per buona parte del XX secolo. Tutte le grandi riforme sotto Franklin D. Roosevelt, Lyndon Johnson o Ronald Reagan sono andate a buon fine solo perché entrambi i partiti erano in grado di lavorare insieme. Dagli anni ‘90 questa capacità è andata largamente scomparendo.

Nzz am Sonntag: Intende con ciò che la democrazia liberale negli USA non funziona più?

Francis Fukuyama: Non andrei così in là. Tra le questioni interessanti su cui si è discusso dall’elezione di Trump, vi è quella su quanto forte sia il sistema di divisione dei poteri, di check and balances. Per me e molti dei miei colleghi, Trump ha tutte le qualità di un leader autoritario, che non si preoccupa delle regole, non osserva le procedure e attacca le istituzioni. Ora la domanda è se gli riuscirà di minare le istituzioni o se queste sono forti abbastanza da limitarlo. Fino ad ora mi sembra essere questo il caso.

Nzz am Sonntag: Ma la tendenza verso una polarizzazione sempre più forte cresce. Su questo le previsioni sembrano essere sfavorevoli.

Francis Fukuyama: Effettivamente credo che solo una grande crisi internazionale possa bloccare questo trend. Nient’altro porterà le persone a tornare ad ascoltarsi a vicenda e trovare dei compromessi.

Nzz am Sonntag: Oggi i leader autoritari non rappresentano l’unica minaccia per la democrazia liberale. Un’altra sono gli islamisti, che combattono per un modello di stato religioso.

Francis Fukuyama: Sto proprio iniziando a lavorare ad un libro sulla politica dell’identità. Gli islamisti sono da inquadrare al suo interno. Essi vengono motivati in maggioranza non da un’autentica religiosità, ma dalla ricerca di un’identità. Molti appartenenti all’Islam in Europa non si vedono parte della Svizzera o della Germania. Si sentono membri di un gruppo, appartenenti all’Islam. Naturalmente rispondo di conseguenza gli autoctoni: questa gente non è dei nostri. Così nasce un contro-movimento degli autoctoni che si definiscono attraverso un’identità di “bianchi” o “membri di uno stato nazionale”. A causa dei grandi sconvolgimenti nel mondo odierno c’è una grossa pressione ad assicurarsi un’identità.

Nzz am Sonntag: Lo Stato Islamico afferma che il suo modello di società sia equivalente alla democrazia liberale. Con ciò la democrazia viene messa fondamentalmente in discussione?

Francis Fukuyama: Certamente la pensano così i sostenitori dell’Islam radicale. Essi non sono interessati alla tolleranza, alla libertà di parola, alla libertà religiosa. Più difficile è il caso dei paesi con molti immigrati islamici, che non sono radicalizzati, ma neanche ben assimilati. Qui nasce una zona di conflitto tra la generazione dei genitori, che vuole prima di tutto condurre una vita tranquilla, e i figli, che si sentono attratti dai radicali. Presso quest’ultimi il modello democratico gode di poca attrattiva.

Nzz am Sonntag: Sembra che l’integrazione funzioni meglio negli USA che in Europa. Per quale motivo?

Francis Fukuyama: L’errore non è in alcun modo solo da parte, ad esempio, dei Turchi in Germania. È molto più difficile integrarsi nella società tedesca che in quella americana. La concezione di ciò che rende un Tedesco tale ha già una chiara componente etnica. Tedesco si è per legame di sangue, per lignaggio. Ho amici che vivono in Germania e mi dicono che è molto difficile essere accettati.

Nzz am Sonntag: Che accade di diverso negli USA?

Francis Fukuyama: Nel corso della storia ci sono state due diverse varianti dell’identità americana. La forma originaria era in effetti etnica. I primi coloni — bianchi, anglosassoni, protestanti — portavano con se un chiaro sistema di valori. Per questa ragione un politico della fine del XIX secolo poteva affermare: «Questo è un paese cristiano.» Successivamente però nel Paese arrivò in diverse ondate un grande numero di immigrati, dall’Irlanda, dall’Europa del Sud, dai Balcani, Ebrei dalla Russia. Ciò fu per il sistema un grosso schock e i discendenti dei coloni rifiutarono questi immigrati. Ma con il tempo la formazione dell’identità si spostò dall’etnia ai valori politici: la democrazia, la costituzione. Il paese venne saldato attraverso grandi crisi, la depressione degli anni ’30, la Seconda Guerra Mondiale. Negli anni ’60 tutto ciò iniziò ad allentarsi sotto la spinta del movimento per i diritti civili dei neri. Da quel momento l’identità, l’appartenenza ad un gruppo divenne più importante. Trump ha oggi provocato un contro-movimento bianco-nazionalistico.

Nzz am Sonntag: Ciò rafforza ancora di più la tendenza verso la politica dell’identità. Per quale motivo essa è diventata così importante?

Francis Fukuyama: Io guardo a me stesso: sono cresciuto a New York come figlio di immigrati giapponesi. All’inizio non volevo avere niente a che fare con il Giappone e di conseguenza non volevo neanche imparare il giapponese. Io volevo essere semplicemente un Americano. Ma negli anni ’60 e ’70 ci fu una svolta ideologica. Molte persone dissero improvvisamente: «Io non sono solo Americano, io provengo originariamente da questo o quel paese e sono orgoglioso delle mie origini etniche.» Questo sviluppo si collega con la politica delle pari opportunità negli USA. A questo proposito il progresso non si colloca più sul piano dell’individuo, ma del gruppo. Neri, donne, omosessuali, transessuali. Tutti si presentano come vittime della società. In questa maniera si è potuto conquistare più facilmente simpatie e privilegi. La reazione a ciò ha aiutato Donald Trump. Egli ha detto: «Si è andati troppo oltre».

Nzz am Sonntag: Quando lei scrisse «La fine della Storia», il mondo si trovava nel mezzo di un’apparente marcia trionfale della democrazia. Ma la tendenza sembra essersi invertita. 

Francis Fukuyama: Questo è giusto. Il punto più alto fu raggiunto nel 2005. Da quel momento in poi il trend è andato nella direzione opposta.

Nzz am Sonntag: Con Trump  la decadenza potrebbe accelerare, essendo il primo presidente dai tempi di Woodrow Wilson che non fa della promozione della democrazia una delle questioni della politica internazionale.

Francis Fukuyama: Questa osservazione è calzante. Egli non parla né di democrazia, né di diritti umani, solo degli interessi particolari degli USA.

Nzz am Sonntag: Il più importante difensore della democrazia è pertanto…

Francis Fukuyama: La Germania!

Nzz am Sonntag: Gli USA si congedano quindi da questa tematica?

Francis Fukuyama: È un pò più complicato di così. Molti membri dei team di politica internazionale di Trump pensano secondo i criteri tradizionali della politica estera americana. Parlano di alleati, di partner, di democrazia. Sfortunatamente il presidente e le persone immediatamente intorno a lui, come il consigliere Steve Bannon, non hanno alcuna sensibilità per questa tematica.

Nzz am Sonntag: L’opinione pubblica americana sembra stare più dalla parte di Trump. 

Francis Fukuyama: Questo non lo credo. Questo confronto sarà uno degli esami più importanti per Trump, perché nel Congresso è ancora fortemente radicato il pensiero tradizionale. Così gli è sì riuscito di convincere molti della sua cerchia più ristretta che Putin è un tipo ammodo. Ma nel Congresso domina lo scetticismo su quanto sia sensato legarsi così strettamente con dei dittatori.

Nzz am Sonntag: L’atteggiamento di Trump non è una reazione comprensibile al fallimentare sforzo americano di esportare la democrazia, per esempio in Afganistan o in Iraq?

Francis Fukuyama: Probabilmente ciò è corretto. Già dopo la guerra in Vietnam c’è stato un allentamento di quest’ambizione alla guida. Dopo i fallimenti in Iraq e Afganistan si osserva una reazione comparabile, secondo cui gli Stati Uniti devono concentrarsi solo sui propri interessi. Tuttavia si deve pur tener conto che la popolazione americana non ha praticamente alcuna influenza sul corso della politica estera. Se un presidente come Ronald Reagan si alzava e diceva che la lotta per la democrazia e la libertà era importante e ciò significava buttare indietro l’Unione Sovietica, il popolo lo seguiva. La svolta isolazionista del presente non deve essere per forza permanente.

Nzz am Sonntag: Ora lei è però addirittura ottimista, mi sembra!

Francis Fukuyama: Bisogna capire che il governo Bush ha una grande colpa per il sentimento oggi dominante. Esso ha utilizzato tutti questi argomenti di facciata sulla democratizzazione e la libertà per giustificare l’invasione dell’Iraq. In verità l’intervento avvenne perché si era supposto che lì ci fossero delle armi chimiche. Ciò ha arrecato gravi danni all’idea di diffusione dell’ideale democratico. Mai prima di allora gli USA erano intervenuti militarmente all’estero per imporre la democrazia. Si erano sempre supportati gruppi locali di ispirazione democratica contro un regime dittatoriale.

Nzz am Sonntag: Eppure non c’era forse un’opposizione a Saddam Hussein?

Francis Fukuyama: Questa non aveva però niente a che fare con gli ideali democratici. In Medio Oriente, per gli ideali della democrazia liberale, sembra essere molto più difficile piantare radici. Nell’Europa dell’Est al contrario ciò ha avuto successo.

Nzz am Sonntag: Perché l’idea della democrazia ha in Medio Oriente poche chances?

Francis Fukuyama: Non solo l’Islam, ma nella cultura araba in generale si ritrovano certi tratti che portano a precludersi certe forme di modernizzazione.

Nzz am Sonntag: Oggi molti politici ed esperti sembrano sapere che la democrazia ha delle grandi mancanze e pertanto per molti versi non funziona. Perché allora la democrazia ha compiuto negli anni ’80 e ’90 tali progressi?

Francis Fukuyama: Un motivo di ciò è che le giovani generazioni vedono per molti versi la democrazia come un’ovvietà. Esse non conoscono più o hanno dimenticato quanto le alternative fossero pessime. La Polonia è in questo un buon esempio. Il Paese è stato la punta di lancia nella lotta contro il comunismo. La giovane generazione non sa però più che cos’era il comunismo. Così si lamentano dell’Unione Europea, dell’economia, ma non hanno però alcuna idea di come si vive in una dittatura. Ciò è però un corso quasi normale nell’alternanza tra generazioni. L’una si consacra alla lotta per la democrazia, per la successiva ci sono cose totalmente diverse in primo piano.

Nzz am Sonntag: Anche in questo lei è di nuovo molto ottimista. Si potrebbe con buone ragioni affermare che la «Fine della Democrazia» ritorni sui suoi passi?

Francis Fukuyama: L’idea di democrazia è più radicata di quanto al momento appaia. Ma vedremo. Avremo presto i risultati delle elezioni in Francia, per esempio.

Nzz am Sonntag: Una parola chiave non è emersa fino ad ora: crisi finanziaria. Questa potrebbe aver contribuito alla crisi della democrazia?

Francis Fukuyama: Si sottovaluta sempre quanto importante sia stato questo evento per il corso della storia. La crisi bancaria americana e anche la crisi dei debiti europea sono state l’opera di élite e la conseguenza di pessime scelte politiche. Esse hanno massivamente danneggiato il cittadino medio. Le élite ne sono venute invece fuori del tutto intonse. Pertanto la rabbia di molti cittadini verso la crisi è comprensibile. 

Nzz am Sonntag: Con la crisi è diventata per la prima volta davvero chiara al cittadino medio la disuguaglianza di redditi e patrimoni?

Francis Fukuyama: La globalizzazione ha negli ultimi trent’anni costantemente aumentato le dimensioni della disuguaglianza. In particolare negli USA e in Gran Bretagna gli stipendi dei lavoratori sono scesi persino in cifra assoluta. Ciò era osservabile già da prima della crisi. La crisi finanziaria ha accentuato però questo processo e ha rafforzato il senso di ingiustizia. La globalizzazione ha funzionato come un motivo che le élite hanno portato avanti a proprio vantaggio. Le vittime della globalizzazione sembrano essere state per loro irrilevanti. Purtroppo questo rimprovero non è totalmente illegittimo.

Nzz am Sonntag: Vede ulteriori motivi per cui il 2008 rappresenta una cesura?

Francis Fukuyama: Sicuramente il ruolo dell’identità e la ricerca di essa si sono rafforzate. Proprio in Europa è emersa l’impressione che le élite avrebbero creato un sistema che porta verso un’alta immigrazione, che nessuno può più controllare. Chi ha perso il lavoro, magari a favore di uno straniero, e allo stesso tempo vede come i richiedenti asilo si stabiliscono nel suo quartiere, questi forse cerca un punto fermo in un’identità che consiste nella presa di distanza dallo straniero.

Nzz am Sonntag: Obama ha quindi fallito, non riconoscendo questi problemi e tanto meno combattendoli?

Francis Fukuyama: L’attuale Partito Democratico negli USA si basa sulla politica dell’identità. Questa sostiene gli interessi di diversi gruppi: donne, neri, ispanici, omosessuali. Ma con ciò si è perso il contatto con i gruppi di lavoratori bianchi. Essi costituivano in passato il centro del partito. Oggi sono passati in massa con i repubblicani. I democratici sono oggi un partito della popolazione urbana benestante. Lavoratori e ceti medi urbani non hanno più alcun contatto gli uni con gli altri. Obama non ha affrontato questo problema e Hillary Clinton è stata in questo senso ancora più incapace.

Nzz am Sonntag: Gli europei credono ancora che i repubblicani sono il partito dei ricchi e i democratici i difensori della classe operaia.

Francis Fukuyama: Una volta era così. Oggi i repubblicani vivono una grande contraddizione interna. Essi sono da una parte ancora il partito dell’economia. Ma allo stesso tempo sono anche il partito dei lavoratori, che di conseguenza spesso votano contro i loro interessi economici immediati. Questo si può osservare bene attualmente: molti repubblicani con disabilità vogliono adesso abrogare a tutti i costi l’Obamacare. Peraltro tra i principali beneficiari di questo programma figura proprio quella classe operaia bianca che guadagna poco e vota repubblicano.

Nzz am Sonntag: Ascoltandola si potrebbe trarre la conclusione che la democrazia sia un progetto elitario.

Francis Fukuyama: Tutti i sistemi politici nella storia dell’umanità sono il prodotto delle élite. Effettivamente le trasformazioni politiche, che periodicamente hanno luogo, iniziano per lo più dal basso, nel popolo. Ma il sistema politico che ne risulta non è opera della base, ma di un élite. Se oggi si attaccano le élite, negli USA come in Europa, ciò non è così ingiustificato. Queste hanno commesso grandi errori. Ma questa critica è anche per parte essenziale l’opera di politici opportunisti, che vogliono sfruttare la rabbia di molta gente per i propri fini, fomentando ulteriormente questa rabbia. Questo è esattamente ciò che ha fatto Donald Trump.

Nzz am Sonntag: Ciò non è inquietante?

Francis Fukuyama: Sì, certo. Trump non ha alcuna soluzione per i problemi della classe operaia bianca. Egli ha promesso a questa base elettorale di riportare il lavoro perduto. Questo è semplicemente insensato, perché egli non sa come.

Nzz am Sonntag: Cosa succederà poi?

Francis Fukuyama: Questa è una domanda davvero interessante. Trump potrebbe effettivamente riuscire a posticipare l’ora della verità così in là da ottenere una rielezione. Egli può rilanciare l’economia con ogni mezzo. Egli può mantenere ancora a lungo l’impressione di essere un presidente di successo. Ma prima o poi le contraddizione del suo programma non potranno essere più imbellettate. Ci sarà quindi un crash — forse in sei anni.

Nzz am Sonntag: Abbiamo ancora parlato poco di un’ulteriore sfida per la democrazia, ossia la crescente popolarità del nazionalismo, il ritorno al concetto di stato nazionale. Esso si concilia con la democrazia liberale?

Francis Fukuyama: Noi viviamo effettivamente in un mondo molto nazionalistico, non solo negli USA o in Europa. In Giappone, in Cina o in India questa tendenza è altrettanto osservabile.

Nzz am Sonntag: Ciò potrebbe insidiare anche la UE. In passato lei ha giudicato quest’ultima in chiave fondamentalmente positiva.

Francis Fukuyama: I Fondatori della UE non hanno mai intrapreso uno sforzo per creare un’identità europea. Essi credevano semplicemente che la creazione di un mercato interno avrebbe condotto in qualche modo ad un sentimento di valori e interessi europei condivisi. Questo è stato un errore. La crisi dell’euro ha al contrario acuito nei diversi stati membri la coscienza delle differenze, delle disomogeneità. I Tedeschi adesso sanno quanto i Greci siano diversi da loro. I Greci per parte loro si pongono prevalentemente con astio verso i Tedeschi.

Nzz am Sonntag: Lei non vede quindi il futuro dell’UE molto roseo…

Francis Fukuyama: Ho sempre avuto simpatia per questo progetto. Ma adesso si capisce che ci sono grandi ostacoli. Purtroppo la Germania ha assunto troppo poca responsabilità nel correggere i problemi e le debolezze della UE.

Nzz am Sonntag: Proseguirà il ritorno dello stato nazionale o addirittura accelererà?

Francis Fukuyama: Temporaneamente di sicuro.

Nzz am Sonntag: Cosa significa questo per l’ordine mondiale?

Francis Fukuyama: Questo non è di sicuro un buono sviluppo. L’ultima volta che il mondo ha attraversato una simile fase, negli anni 30’ del secolo scorso, l’esperienza non è stata poi così positiva. La domanda è se questo ritorno dello stato nazionale conduca anche ad una politica estera aggressiva. In questo senso ci sono già chiari indizi. La Cina è un esempio. Il nazionalismo cinese è terrificante, è molto robusto, molto espansivo.

Nzz am Sonntag: Le democrazie non hanno mai condotto una guerra l’una contro l’altra, così recita una regola generale della storia. Non vi è una conferma di ciò: l’idea di democrazia mostra segni di debolezza e subito cresce il rischio di una guerra?

Francis Fukuyama: Non si può escludere nulla. Certamente il rischio di una grande guerra è più alto che dieci anni fa. Senza dubbio esiste un collegamento con il fatto che le diverse grandi potenze come Russia e Cina hanno decisamente deviato dal modello di democrazia liberale. Che le democrazie al più raramente conducono guerre le une contro le altre, è confermato.

Nzz am Sonntag: Vede delle possibilità nel fermare l’ondata populista, prendendo in qualche modo sul serio le sue istanze?

Francis Fukuyama: L’opinione che una globalizzazione sempre più forte sia positiva per il mondo è ormai poco sostenibile. Un ulteriore incremento della migrazione non sarà certamente accolto positivamente. Ogni politico democraticamente eletto, che intenda combattere le cause del populismo, dovrà affrontare questi problemi. Nella UE è ancora più semplice dare un nome a queste cause: l’euro non è solido, Schengen non funziona. Si devono correggere tali debolezze per togliere il vento alle vele dei populisti. Questo è esattamente un vantaggio della democrazia, che essa può e deve reagire alla pressione del popolo ed è così riformabile.

Nzz am Sonntag: In questa conversazione si è parlato molto dei problemi, delle mancanze, delle debolezze della democrazia liberale. Potrebbe sorgere l’impressione che si ha a che fare con un sistema da “bella giornata” che non è però in grado di risolvere grandi difficoltà. Non c’è niente da dire a difesa di questa idea?

Francis Fukuyama: Si vedano gli enormi vantaggi della democrazia liberale al confronto con il Medio Oriente, dove c’è questo conflitto tra Sciiti e Sunniti. La Turchia, l’Iran, l’Arabia Saudita: tutti questi paesi alimentano questo conflitto. Essi appoggiano gruppi che si danno reciprocamente la caccia. Questa è la versione estrema di ciò che è avvenuto in Europa nella Guerra dei Trent’anni. Il motivo per cui l’umanità è approdata all’idea di una democrazia liberale è una consapevolezza assolutamente semplice: se gli uomini prendono in modo talmente serio temi come la religione e l’identità, ci deve essere un contesto per la pacifica risoluzione dei conflitti. E poiché oggi in sempre più paesi uomini di diversa provenienza vivono insieme, ciò è più importante che mai. Questo pacifico bilanciamento lo può realizzare solo un sistema che si basa sull’idea di tolleranza, di rispetto reciproco e diversità d’opinione. Ossia: la democrazia liberale. Il liberalismo rappresenta la soluzione razionale per il compito di dover governare in mezzo alla diversità.

Nzz am Sonntag: Ma la fine della storia non giungerà così rapidamente?

Francis Fukuyama: Io intendevo allora con “fine della storia” il fatto che, secondo me, non ci sono alternative che sul lungo periodo siano migliori del sistema di democrazia liberale. La fine della storia è rimandata, non essendo attualmente una realtà per molti uomini. Noi ci stiamo effettivamente muovendo nella direzione sbagliata. Ma alla fine lo sviluppo storico sfocerà in una forma di democrazia liberale. Di questo sono convinto oggi come ieri.

Link al testo originale: https://nzzas.nzz.ch/notizen/francis-fukuyama-ende-geschichte-ist-vertagt-ld.152130

Nato a Reggio Calabria, classe 1990, è dottorando in Filosofia presso la Goethe Universität di Frankfurt am Main. La sua attività di ricerca ha come principale focus la teoria politica ed è particolarmente rivolta all’analisi della categoria di totalitarismo nel suo rapporto con la modernità.

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