Nord Africa e Medio Oriente nella morsa della crisi alimentare
La guerra in Ucraina getta ombre sul mondo mentre la crisi alimentare si avvicina. In un cocktail esplosivo tra speculazione finanziaria, riduzione delle esportazioni e aumento dei prezzi del carburante, si disegna sempre più chiaramente il rischio di una crisi alimentare in quei paesi più fragili, che ad oggi dipendono quasi esclusivamente dall’importazione di grano da Ucraina e Russia. I due paesi, infatti, coprono quasi il 30% dell’export globale di grano tenero ed altri prodotti di base.
Diversi Stati dell’Africa Sub Sahariana, del Medio Oriente e del Nord Africa come Egitto, Algeria e Libano importano oltre il 50% del loro fabbisogno di cereali dall’Ucraina e dalla Russia ed in questo scenario tra blocco dei rifornimenti e rincaro dei prezzi stanno pagando il prezzo più alto. I costi dell’importazione sono diventati sempre più onerosi, tanto che la FAO stima che il conto delle importazioni alimentari mondiali stia per raggiungere un nuovo record di 1.800 miliardi di dollari, un massimo storico, quasi interamente causato dell’aumento dei prezzi (UN News, 2022).
Tutto ciò si inserisce in un quadro emergenziale ben sedimentato nella regione: 12,4 milioni i siriani attualmente in condizioni di insicurezza alimentare, 17,4 milioni in Yemen, cifra destinata ad aumentare a 19 milioni secondo le previsioni per dicembre 2022. La crisi alimentare in un contesto così fragile non può che accendere il ricordo delle rivolte del 2011, che dalla Tunisia si espansero a macchia d’olio in tutta la regione del MENA. La situazione allarmante ha subito richiamato l’attenzione del Segretario delle Nazioni Unite António Guterres che già lo scorso marzo dichiarava la necessità di fare il possibile per sventare ‘un uragano di carestie’. Per quanto centrale il ruolo della guerra, non bisogna però perdere di vista le basi strutturali della crisi alimentare le cui radici affondano nel complesso sistema di trasformazioni economiche e sociali in corso da più di cinquant’anni.
La maggior fragilità di alcune regioni di fronte alle oscillazioni dei prezzi dei cereali sui mercati internazionali deve prima di tutto far riflettere sui motivi che hanno portato nel tempo la loro dipendenza totale dalle importazioni. È infatti solo in tempi più recenti che i paesi arabi sono costretti a importare massivamente cereali per soddisfare le proprie esigenze interne. Tra il 1961 e il 1991 l’importazione di cereali è aumentata del 40.7% in Giordania, del 48.5% in Yemen e del 25.5% in Siria (Bruins, 2005). Nel 2009, l’import dei beni di prima necessità rappresentava almeno la metà del consumo alimentare nella regione, facendo di quest’ultima la più dipendente al mondo.
Il grande peso dell’import per supplire al fabbisogno regionale non ha fatto che indebolire le economie locali, ormai alla mercé delle fluttuazioni del mercato e del critico aumento dei prezzi. Ovviamente questo trend in crescita deve essere collegato prima di tutto alla scarsità di risorse nella regione e all’aumento senza precedenti della popolazione (Houdret, 2020). D’altra parte, crescita demografica e scarsità di risorse spiegano solo in parte l’aumento delle importazioni e più in generale il cambio di paradigma nelle politiche agricole, da collocare all’interno di un momento storico complesso, segnato da politiche economiche neoliberali, dalla mondializzazione e da una forte instabilità politica regionale.
Le Istituzioni Finanziarie di Bretton Woods che avevano precedentemente investito nella ricostruzione dell’Europa dopo la Seconda Guerra Mondiale, indirizzarono i propri capitali verso il Sud Globale ed il settore agricolo fu al centro del progetto neoliberale. I Programmi di Aggiustamento Strutturale (SAPs) diventarono un elemento dominante della gestione economica in Africa e Medio Oriente (Hanieh, 2013) post crisi petrolifera. Si tratta di percorsi di ristrutturazione economica con l’obiettivo di orientare la regione verso la privatizzazione delle imprese, la liberalizzazione del commercio, la soppressione dei monopoli e delle quote di importazione, la riduzione dell’intervento statale e una rigida politica di austerità fiscale con tagli alla spesa pubblica (Hanieh, 2013).
In reazione alle trasformazioni imposte con le politiche di aggiustamento strutturale, seguirono proteste in tutta la regione, a cui aderirono decine di migliaia di persone insorte contro l’aumento del prezzo del pane e la disoccupazione. Nel 1977 in Egitto, i bread riots, anche noti come FMI riots, scoppiarono nelle maggiori città del paese dopo che il governo aveva annunciato l’aumento dei prezzi del cibo e del carburante del 30% come da accordo con il Fondo Monetario Internazionale. Simili proteste si replicarono in Giordania nel 1989 in seguito all’eliminazione dei sussidi alimentari, così come in Tunisia, in Marocco ed in Libano.
La riorganizzazione della filiera agroalimentare in senso neoliberale ed export-oriented trovò la sua realizzazione tramite l’ascesa delle grandi corporation, l’efficientamento produttivo e l’accaparramento delle terre. Se negli anni ‘50 molti paesi liberati dal giogo francese ed inglese si posero come obiettivo quello dell’autosufficienza alimentare, e attuarono politiche di redistribuzione delle terre, negli anni ‘80 il percorso fu inverso.
In Tunisia tra il 1970 e il 1986 il governo vendette molte delle terre statali e introdusse leggi per trasferire in mani private le terre gestite collettivamente dalle tribù locali (Hanieh, 2013). Oggi circa il top 3% dei grandi proprietari possiede il 37% delle terre, mentre il 53% dei piccoli proprietari possiede solo l’11%.
Similmente, con qualche anno di ritardo, in Egitto sotto il governo di Mubarak nel 1996 passò una nuova Land Law che segnò cento passi indietro rispetto alla politica di ridistribuzione adottata da Nasser. Le nuove riforme agrarie favorirono i grandi proprietari terrieri e indebolirono gli agricoltori locali, contribuendo fortemente all’impoverimento rurale, alla concentrazione delle terre e all’urbanizzazione dei contadini (Frerichs, 2016).
Questo tipo di aggiustamenti facilitarono la crescita delle grandi compagnie dell’agribusiness dedicate all’export, il cui potere fu ulteriormente rafforzato dalla crescente meccanizzazione della produzione, dai sussidi sui fertilizzanti e dall’espansione dei sistemi di irrigazione a vantaggio di colture industriali. Le terre bonificate e strappate al deserto non furono impiegate per produrre colture tradizionali ma colture di lusso spendibili sui mercati internazionali come le fragole, articolo di punta per l’Egitto, che negli ultimi anni ha aumentato la sua produzione fino a rappresentare da solo il 20% dell’export mondiale di fragole congelate (The Guardian, 2012). Per rispondere alle esigenze dei mercati, si intensificarono le produzioni di cash crops per l’esportazione a discapito della produzione destinata al consumo nazionale, alimentando di fatto un nuovo modello disfunzionale di sicurezza alimentare basato sul commercio.
Ne seguì un crescente bisogno di importazione di cereali per soddisfare il fabbisogno della popolazione in aumento. All’interno di questo complesso quadro, gli Stati Uniti giocarono un ruolo essenziale, diventando il paese numero uno in termini di aiuti alimentari, particolarmente per quanto riguarda i cereali. Già nel 1954 fu infatti approvata a Washington la Public Law 480, che destinava il surplus alimentare in aiuti allo sviluppo nei paesi del Sud Globale. Egitto, Israele, Marocco, Algeria e Tunisia furono tra i paesi che più beneficiarono di questi aiuti alimentari. Si rivelò ben presto un’arma a doppio taglio poiché la produzione locale (o quello che ne rimaneva) fu schiacciata dalle importazioni di grano sovvenzionato, specialmente in assenza delle misure protezionistiche che la ristrutturazione neoliberale aveva rimosso. Non solo la produzione interna ne fu colpita, il problema degli aiuti alimentari era anche politico poiché metteva tali paesi in un regime di fragilità e dipendenza rispetto agli Stati Uniti.
In conclusione, l’imposizione del nuovo modello agricolo export-oriented nella regione ha sicuramente giocato un ruolo importante nella progressiva perdita di sovranità alimentare e nel rafforzamento della dipendenza nei confronti dei mercati internazionali. Di questo avviso è anche il professore Rami Zurayk dell’Università Americana di Beirut «la produzione agricola non è più legata al consumo locale ma ai mercati globali. Gli agricoltori sono incoraggiati a produrre beni commerciabili: la produzione di cibo non è più finalizzata a rispondere ai bisogni della popolazione, ma a soddisfare la crescita e l’accumulo di ricchezza di cui beneficiano solo pochi» (Middle East Eye, 2022).
È chiaro alla luce di quanto detto, che la fragilità alla quale si trovano esposti certi paesi di fronte alla guerra in Ucraina, non possa essere esaminata da sola ma debba essere messa in relazione alle drammatiche trasformazioni che hanno attraversato la filiera agroalimentare negli ultimi decenni. Per rispondere all’emergenza la FAO annuncia la possibilità di introdurre uno strumento di finanziamento per l’importazione di prodotti alimentari (FIFF) per alleviare i costi immediati dei paesi importatori netti più vulnerabili. Similmente, l’Europa ha recentemente annunciato di destinare 600 milioni a sostegno dei Paesi dell’Africa, dei Caraibi e del Pacifico più colpiti dalla crisi alimentare. Per quanto necessarie, si tratta di soluzioni temporanee per tamponare quanto possibile gli effetti nefasti della crisi. Si afferma invece con urgenza la necessità di ripensare il problema dalle fondamenta, per ricostruire un modello agroecologico in grado di rispondere ai bisogni di sovranità alimentare, mettendo al centro l’interesse dei contadini e dei cittadini e la tutela dell’ambiente.
Fonti
Blanc, P. (2015). Proche-Orient : géopolitique des dynamiques agraires. Hérodote, 156, 9-28.
Blanc, P., & Brun, M. (2013). Un regard géopolitique sur l’agriculture de firme dans le monde arabe. Études Rurales, 191, 129–148.
Bruins H.J., Wilson, J.P. (2005). Food security in the Middle East since 1961. Bari : CIHEAM. p. 49-56 (Options Méditerranéennes : Série A. Séminaires Méditerranéens; n. 65)
Collard, R. (2012, March 6). Luxury is produced in Egypt, but it is not for local consumption. The Guardian.
Hanieh, A. (2013). Lineages of Revolt: Issues of Contemporary Capitalism in the Middle East. Haymarket Books.
Houdret, Annabelle. Amichi, Hichem. (2020). The rural social contract in Morocco and Algeria: reshaping through economic liberalisation and new rules and practices. The Journal of North African Studies.
Frerichs, S. (2016). Egypt’s Neoliberal Reforms and the Moral Economy of Bread: Sadat, Mubarak, Morsi. Review of Radical Political Economics.
Vidal, M. (2022). Russia-Ukraine war: Calls for Middle East food sovereignty amid looming wheat crisis. Middle East Eye.
World’s most vulnerable now paying even more, for less food: FAO. (2022, June 13). UN News.
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