Quello che i pluralisti non vedono. Charles Wright Mills e i suoi interpreti
Continuiamo con il pezzo di Michele Gimondo su Charles Wright Mills e i suoi interpreti
Il saggio del 1956 su L’élite del potere rappresenta il testamento spirituale di Wright Mills, l’opera che lo ha consacrato tra i maggiori sociologi del ventesimo secolo. Il titolo, suggestivo quanto si vuole, non potrebbe però essere più azzeccato, fin dall’articolo determinativo. Poiché vi troviamo già racchiusa l’idea fondamentale: di élites non ve ne sono affatto molte, bensì una sola.[1] Il titolo rivela poi anche un’altra cosa, e cioè che Wright Mills, pur ispirandosi alle teorie di Pareto, utilizza il termine élite in modo neutro, senza attribuirgli alcuna sfumatura apprezzativa. Il suo intento è infatti puramente descrittivo, la sua concezione puramente «altimetrica».[2]
Come abbiamo accennato, i bersagli polemici dell’autore sono i teorici del pluralismo, i fautori di quella visione irenistica secondo la quale i molteplici interessi che pullulano nella società americana si comporrebbero a formare un ordito omogeneo. È contro tale metafisica dell’equilibrio che Wright Mills scrive le sue pagine più significative. I pluralisti, per la verità, non sono in malafede: semplicemente non riescono ad alzare lo sguardo. «Concentrano la loro attenzione sui livelli medi del potere e sull’equilibrio che vi regna, perché essi stessi sono compresi in quel ceto medio che fornisce il contenuto più chiassoso della politica come fatto esplicito, come fatto di cui si parla». Incapaci di penetrazione, rimangono come incantati dagli «aspetti folcloristici e formali del sistema democratico».[3] Altre volte peccano persino di anacronismo, non accorgendosi del fatto che la società americana dei loro giorni non ha più niente in comune con la vecchia società liberale ottocentesca, nella quale «nessuna unità del potere era in grado di far più che qualche passo in avanti, presa con altre forze analoghe in un complicato sistema di reciproci controlli e contrappesi».[4]
Ebbene, contro costoro occorre riconoscere a gran voce l’esistenza di una sola élite del potere, composta dagli uomini che occupano i vertici della piramide, le cui decisioni hanno conseguenze inimmaginabili per il cittadino comune. Tali uomini occupano le posizioni strategiche della struttura sociale,[5] sono alla guida delle principali istituzioni gerarchiche della società americana: dell’esercito e dell’amministrazione pubblica, della grande industria. E formano un’élite che è al tempo stesso militare, politica ed economica.
Bisogna però prestare attenzione a non ricadere nell’ingenuità di cui si accusano gli avversari. Se questi disconoscono la presenza di un vertice decisionale unitario, scrive Wright Mills, non si deve ora ricadere nella visione opposta e parimenti unilaterale secondo cui dietro tutti gli avvenimenti della storia recente si celerebbe una regia occulta. «Accettare l’una o l’altra opinione – tutta la storia come macchinazione o tutta la storia come processo cieco – equivale ad abbandonare ogni sforzo per comprendere i fatti relativi al potere e al comportamento dei potenti».[6]
Si tratta dunque di andare oltre le semplificazioni, analizzando nel dettaglio la composizione dell’élite. Che essa sia triangolare, articolata cioè sui tre piani prima elencati, appare a Wright Mills pacifico: ma dire ciò non è ancora sufficiente. Qual è il settore decisivo? Quello economico, quello politico, o quello militare? Ecco, già porre una domanda simile significa per l’autore non aver compreso la nuova fisionomia del potere. «Non esistono più un mondo economico e un ordinamento politico distinti, che abbiano in sé una struttura militare priva di influenza sui politici e sugli uomini d’affari: esiste una economia politica legata per infiniti canali con le istituzioni e con i provvedimenti militari».[7] Molte pagine più avanti, in una nota apparentemente trascurabile, il principio verrà ribadito in modo ancora più perentorio: «dovrebbe esser chiaro al lettore come per noi sia inadeguata la visione semplicistica secondo la quale i grandi dell’economia prendono unilateralmente tutte le decisioni di portata nazionale. Per noi questo semplice punto di vista del “determinismo economico” deve essere elaborato con l’ausilio del “determinismo politico” e del “determinismo militare”; per noi gli agenti superiori di ciascuno di questi tre settori hanno spesso un grado considerevole di autonomia, e soltanto nelle intricate strutture di una coalizione giungono alle decisioni più importanti e le attuano».[8]
I tre livelli, variamente articolati al loro interno, sono pertanto a tal punto in simbiosi da non poter essere quasi più separati, se non forse a scopo esplicativo, pena la mancata comprensione delle regole del gioco. Da questo punto di vista, ma è già uno sviluppo ulteriore della tesi di Wright Mills, il potere deriverà sì dalla posizione che un uomo ricopre entro una gerarchia determinata, per esempio quella governativa, ma andrà espandendosi solo a condizione che egli sappia mediare tra sfere diverse, occupare i loro interstizi, intrecciare rapporti trasversali: solo a condizione che sappia crearsi una fitta rete.[9]
Alla luce delle ultime considerazioni, ci sentiamo quanto meno autorizzati a sollevare alcuni dubbi su una certa interpretazione che nel corso del tempo è stata data del pensiero dell’autore. Ha scritto tra gli altri Franco Ferrarotti che, «attribuendo la stessa valenza alla élite economica, a quella politica, a quella militare […] Mills perde il senso della direzione dinamica […] gli sfugge così il senso della priorità di una élite, o dimensione, rispetto alle altre ed è infine costretto a mettere weberianamente tutto sullo stesso piano».[10] Quella imputata a Wright Mills sembra un’insufficienza analitica. E se invece la sua fotografia non facesse altro che riflettere una realtà altrettanto opaca, e fosse quindi la più adeguata? Sono obiezioni che non ci sentiamo di prendere alla leggera. La giustapposizione tra le varie sfere, in quest’ottica, potrebbe essere proprio il contrario di una lettura unilaterale. Wright Mills, non accordando la priorità a una dimensione in particolare, comprende forse più di altri il significato dell’interconnessione. Avremmo a che fare in tal senso con un’ipotesi di lavoro, a partire dalla quale indagare su altre basi i rapporti tra le alte sfere.
Ma queste, ad ogni modo, sono considerazioni che dobbiamo lasciare a margine. Perché siamo interessati ancor più a comprendere come il paradigma monista, qui presentato con l’ausilio di Wright Mills, sia stato sviluppato dagli autori successivi.
- Monismo o pluralismo?
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[1] Come ha sottolineato Giorgio Sola in La teoria delle élites, il Mulino, Bologna 2000, p. 24, l’uso ristretto del termine élite «porta il più delle volte a identificare le élites con la sola élite del potere, con una minoranza cioè che in virtù della sua organizzazione interna e della sua relativa omogeneità di composizione vede i propri membri caratterizzati da elevati gradi di coscienza, coerenza e coordinazione».
[2] Giovanni Sartori, Democrazia. Cosa è, BUR, Milano 2011, p. 101.
[3] Charles Wright Mills, L’élite del potere, Feltrinelli, Milano 1966, p. 230.
[4] Ivi, p. 248.
[5] Cfr. ivi, p. 9.
[6] Ivi, p. 33. Un convincimento analogo sembra guidare anche l’ultimo saggio dello storico britannico Niall Ferguson, La piazza e la torre. Le reti, le gerarchie e la lotta per il potere. Una storia globale, Mondadori, Milano 2018. Un saggio interessante, in cui l’autore prova a ricostruire le tappe decisive della storia moderna e contemporanea a partire dall’opposizione tra reti informali e gerarchie istituzionali.
[7] Ivi, p. 13.
[8] Ivi, p. 393.
[9] Cfr. Niall Ferguson, op. cit., pp. 314-328, dove viene analizzata nel dettaglio la rete di potere creata da Henry Kissinger.
[10] Franco Ferrarotti, Introduzione a Sociologia del potere. Da prerogativa personale a funzione razionale collettiva, Laterza, Roma-Bari 1977, p. XXXII.
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