Monismo o pluralismo? Charles Wright Mills e i suoi interpreti
Presentiamo oggi un nuovo collaboratore e fine penna dell’Osservatorio Globalizzazione: Michele Gimondo, che ci parlerà delle teorie moniste di Charles Wright Mills, autore spesso dimenticato ma assolutamente da riscoprire
Democrazia ed élites, un tema controverso, che ha fatto e continua a far discutere: un matrimonio difficile, perennemente in bilico tra la rottura e l’idillio. Ne sapeva qualcosa Norberto Bobbio, il quale non a caso parlava della sconfitta del potere oligarchico come di una delle promesse non mantenute dalla democrazia. Perché sì, che il potere venga esercitato nei fatti da una ristretta élite di persone rischia di sconfessare uno dei pilastri della teoria democratica, il principio della libertà come autonomia, «che dovrebbe avere come conseguenza la perfetta identificazione tra chi pone e chi riceve una regola di condotta, e quindi la eliminazione della tradizionale distinzione […] tra governati e governanti».[1] Alla luce dell’esperienza storica, che quella promessa non sia stata mantenuta poiché impossibile da mantenere?
Ora, se la tensione tra democrazia ed élites emerge già a livello politico e istituzionale, figuriamoci da un punto di vista economico. Le due dimensioni, ancorché legate, vanno distinte in sede analitica. In generale potremmo dire che, mentre la presenza di minoranze organizzate nei luoghi della decisione interroga la democrazia come forma politica, la pressione incontrollata delle élites economiche mette invece in discussione la democrazia come assetto sociale. Per intenderci, un ordinamento nel quale la politica fosse costretta a contendersi il potere con élites economiche sprovviste di legittimazione popolare, o addirittura a dipendere dal loro beneplacito per esercitare la minima influenza sugli affari pubblici, potrebbe ancora definirsi un ordinamento democratico? In altre parole, esiste un livello minimo di autonomia e capacità decisionale, da parte delle forze politiche, al di sotto del quale parlare di democrazia non ha più senso?
Domande complesse, ma non destinate a cadere nel vuoto. Giacché la presenza di élites, politiche ed economiche a un tempo, sostengono alcuni teorici, lungi dal rendere impossibile il gioco democratico, rappresenta la condizione della sua possibilità: purché, naturalmente, siano in competizione tra loro. Le élites politiche, infatti, nella forma degli apparati di partito e dei loro capi plebiscitari, reggono le sorti delle democrazie contemporanee, e tuttavia sono molto diverse dalle oligarchie che ritroviamo ai vertici delle altre forme di governo, dal momento che «non s’impongono, ma si propongono».[2] Sono cioè, per richiamare la nota definizione di Schumpeter, in competizione le une con le altre per la conquista del consenso elettorale.[3] Quanto alle élites economiche, proseguono gli stessi teorici, le democrazie rimangono tali anche in presenza di grandi gruppi d’interesse, nella misura in cui questi ultimi, non costituendo un cartello unitario, godono «di pari facoltà di influenza sui processi decisionali».[4] Laddove il potere delle élites economiche risulti variamente distribuito, ecco il teorema di fondo, oltreché controbilanciato dalle istituzioni pubbliche, la democrazia non corre pericolo: solo a questa condizione può essere mantenuto quell’equilibrio senza il quale non è concepibile alcuna libertà.
Ma questo pluralismo tanto decantato lascia intravedere uno spaccato reale delle odierne società di massa, o non ne rappresenta altro che una mistificazione? La democrazia viene «davvero gestita da minoranze al plurale, oppure dietro al velo delle apparenze è in verità controllata da una minoranza al singolare?».[5] A seconda di come si risponderà all’interrogativo, ci si collocherà rispettivamente sul fronte dei pluralisti o su quello dei monisti, ma soprattutto si avrà davanti agli occhi un’immagine molto diversa della democrazia contemporanea.[6]
Nei paragrafi che seguono intendiamo svolgere alcune considerazioni intorno alla prospettiva monista, con particolare riferimento a uno dei suoi più autorevoli esponenti, Charles Wright Mills. Ampiamente criticato da numerosi scienziati politici, a cominciare da Robert Dahl, per la sua visione monolitica e unilaterale della realtà,[7] Wright Mills ha però dato un contributo significativo alla riflessione sociologica, introducendo elementi ancora utili per interpretare il nostro presente. Rileggerlo, pertanto, non sarà opera vana. A confortarci nella convinzione, la particolare circostanza che vede numerosi studiosi degli ultimi anni richiamarsi più o meno espressamente alle sue conclusioni. Nel prosieguo procederemo dunque così: analizzando prima il suo capolavoro, per passare in seguito ad alcune opere che hanno contribuito ad aggiornare il paradigma monista.
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[1] Norberto Bobbio, Il futuro della democrazia, RCS, Milano 2010, p. 22.
[2] Così Filippo Burzio in Essenza ed attualità del liberalismo, citato in Norberto Bobbio, Nicola Matteucci, Gianfranco Pasquino, Dizionario di politica, De Agostini, Novara 2016, p. 306.
[3] Cfr. Joseph Schumpeter, Capitalismo, socialismo e democrazia, Edizioni di Comunità, Milano 1955, p. 252.
[4] Giulio Azzolini, Dopo le classi dirigenti. La metamorfosi delle oligarchie nell’età globale, Laterza, Bari-Roma 2017, p. 79.
[5] Giovanni Sartori, Democrazia. Cosa è, BUR, Milano 2011, p. 102.
[6] Cfr. Giulio Azzolini, op. cit., p. 21: «Una delle maggiori dispute della politologia americana negli anni Cinquanta e Sessanta fu proprio quella tra i teorici dell’élite, al singolare, e i teorici delle élites, al plurale. Le implicazioni del dibattito erano diverse. C’era una contrapposizione metodologica su come studiare il potere […], ma c’era in ballo soprattutto l’immagine della liberal-democrazia nordamericana: un regime che per Dahl doveva essere considerato come una poliarchia, animata e salvaguardata da élites plurali, eterogenee e permeabili».
[7] Per approfondire il discorso, cfr. Franco Ferrarotti, Introduzione a Sociologia del potere. Da prerogativa personale a funzione razionale collettiva, Laterza, Roma-Bari 1977, pp. IX-XVII.
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