Apologia di Mino Pecorelli, un gigante del giornalismo
Carmine “Mino” Pecorelli è una figura sfaccettata, la cui categorizzazione è estremamente complicata. Aldo Giannuli, nell’introduzione della recente raccolta di articoli intitolata “Così parlò Pecorelli”, lo definisce un “anarchico di destra” alla Stirner. Non possiamo sapere se al giornalista molisano la definizione sarebbe piaciuta ma presumiamo di sì. Pecorelli non ebbe padroni. Egli sfruttò la miriade di centri di potere che disseminavano la Roma primo repubblicana per ottenere notizie. Questo suo essere una scheggia impazzita lo condannò. Per molti Pecorelli è solo una delle numerosissime vittime dell’Italia dei terribilmente violenti anni ’70. Uno che sapeva troppo, uno che ricattava e uno che se l’è cercata. Pecorelli non era niente di tutto ciò. Probabilmente infatti il capo di Osservatorio Politico (OP) fu una delle poche persone che ha provato a far davvero luce su un periodo talmente intricato da far desistere molti da qualsiasi velleità di approfondimento. Ma non Pecorelli, che di approfondimenti ne fece molti, spesso criptati e incomprensibili per le persone normali ma molto vicini, se non perfettamente coincidenti, alla realtà.
Pecorelli nacque in Molise nel 1928. A 15 anni si arruolò nell’armata polacca di Anders e guerreggiò in tutto il centro Italia, venendo anche decorato. Finita la guerra si dedicò all’avvocatura, specializzandosi in diritto fallimentare. Ed è in questo contesto che fa il suo ingresso nei salotti buoni, ma non troppo, di Roma. Qua entra in quella zona grigia tra politici corrotti, imprenditori corruttori e agenti segreti di dubbia qualità. Dopo un periodo da addetto stampa per il ministro DC Fiorentino Sullo decide di diventare un giornalista. Prima lavora al giornale Nuovo Mondo d’Oggi dove si mette in mostra per le notizie di primissima mano dovute a rapporti previlegiati con membri dei servizi. Tra di essi c’è il suo collega Nicola Falde, con cui lavora appunto al Nuovo Mondo d’Oggi. Falde era un ex militare la cui mediocrità si rende palese dell’episodio di Telefono Giallo del 1988 che Corrado Augias dedica al collega barbaramente ucciso. In quella trasmissione l’ex collaboratore di Pecorelli si presenta eludendo tutte le domande e leggendo addirittura da un foglio una dichiarazione che sembrò confezionata. Pecorelli lasciò infine Nuovo Mondo d’Oggi e all’inizio degli anni settanta diede vita a Osservatore Politico (OP), in origine un ciclostilato per pochi addetti ai lavori. Il salto di qualità avvenne, forse non casualmente, in pieno sequestro Moro. Infatti nel 1978 OP divenne un settimanale presente e ben riconoscibile, anche se poco diffuso, nelle edicole di tutta Italia. E la tragedia del presidente della Democrazia Cristiana è un evento determinante anche nella vita professionale di Pecorelli. Da quel 16 marzo 1978 OP si sganciò da qualsiasi legame con qualsivoglia centro di potere. L’obiettivo era sostenere il salvataggio di Moro e la scoperta degli oscuri retroscena che da subito furono visibili a chi voleva vedere. Ma nel 1979, il 20 marzo alle 20.45 minuto più, minuto meno, Carmine “Mino” Pecorelli venne ucciso con 3 colpi di pistola tra cui uno alla bocca. Chi è stato? Ancora oggi non si sa e forse non verrà mai scoperto. L’inchiesta giudiziaria è stata riaperta nel marzo 2019 grazie all’impegno costante di Rosita Pecorelli, sorella di Carmine, e al libro di Raffella Fanelli “La strage continua”. La giornalista individua nell’area dell’estrema destra orbitante attorno ad Avanguardia Nazionale gli esecutori materiali dell’assassinio. Fanelli scrive inoltre di aver trovato l’arma del delitto grazie alle rivelazioni del terrorista di estrema destra Vincenzo Vinciguerra. Tale pistola apparteneva al membro di AN Domenico Magnetta. La probabile arma del delitto è stata però distrutta misteriosamente nel 2013. La ragione dell’omicidio, per Fanelli, sono le inchieste che Pecorelli stava facendo e che minacciavano di scoperchiare quel malefico vaso di Pandora che erano le relazioni tra eversione nera, politica e massoneria.
Le ipotesi
Partiamo dal presupposto che non ci sono colpevoli per questo omicidio. Non sono mai stati individuati né i mandanti e nemmeno gli esecutori materiali. Si sa solo che Pecorelli venne ucciso con una pistola calibro 7.65 che sparava proiettili Gevelot, francesi, molto rari e probabilmente facenti parte dell’arsenale della Banda della Magliana nascosto in un magazzino del Ministero della Sanità all’EUR. Un’altra caratteristica peculiare del delitto fu il colpo sparato in bocca, il primo partito dall’arma dell’omicida, tipico delle esecuzioni mafiose. La già citata inchiesta riaperta più di due anni fa non ha prodotto, ad oggi, risultati significativi. Le difficoltà nel risolvere un delitto avvenuto nel 1979 sono molte ma ciò che sembra mancare, ed è quello che è mancato in questi cinquantadue anni, è la volontà di dare giustizia a un padre di famiglia morto ammazzato. L’omicidio Pecorelli, nonostante il tempo trascorso, deve essere risolto. Solo così si farà giustizia.
DELITTO PASSIONALE
Scartato quasi subito dagli inquirenti, vale la pena riportarlo solo per dovere di cronaca. Pecorelli aveva una vita sentimentale piuttosto “vivace”. Non era sposato ma aveva due figli da due donne diverse e da tempo intratteneva una relazione con la sua segretaria, Franca Mangiavacca. Come già detto, questa ipotesi fu subito messa da parte.
I PADRINI DELLA PORNOGRAFIA
“I padrini della pornografia e l’omicidio Pecorelli” è il titolo di un libro scritto da Stefano Surace che elabora una teoria parecchio particolare secondo cui dietro la morte di Mino Pecorelli ci fosse un ambiguo giro di creazione e vendita di contenuti di carattere scabroso. Il tutto sarebbe stato però gestito da membri della magistratura di Stato, su cui Pecorelli aveva indagato e stava indagando con particolare attenzione. Lo scandalo che ne sarebbe derivato avrebbe rischiato, com’è palese notare, di screditare un’intera professione che guadagnava sulla pubblicazione tramite riviste e altri mezzi di materiale scandaloso. Surace afferma inoltre che una lunga pubblicazione su quella che lo stesso giornalista definì “pornomafia” sarebbe stata censurata. Occorre però fare una precisazione, su questa teoria, oltre al libro di Surace, non c’è davvero nient’altro. Pare quindi corretto affermare che questa ipotesi rimane del tutto marginale anche perché mai realmente presa in considerazione dalle varie indagini su Pecorelli.
I DOSSIER DEL SIFAR
Il Sifar è stato il Servizio Segreto delle forze armate dal 1949 al 1966. Gli agenti di questo ente governativo avevano stilato numerosissimi dossier frutto di azioni illegali quali intercettazioni all’oscuro della magistratura e pedinamenti non autorizzati ai danni di uomini politici, militari, magistrati, imprenditori e chiunque contasse qualcosa in Italia. Queste informazioni erano ovviamente usate per ricatti e scambi di favore. Probabilmente li usò nel 1964 anche il generale De Lorenzo, ex capo del Sifar stesso, per organizzare il Piano Solo con cui cercò di ottenere il potere tramite un colpo di Stato militare. Nota a margine, ma non troppo. Pecorelli si interessò anche a un altro tentativo di colpo di Stato che interessò la turbolenta Italia in quel periodo: il golpe dell’Immacolata del 1970. Questo colpo di Stato fu preparato da Junio Valerio Borghese, ex comandante della X Mas e molto vicino ad ambienti monarchici ma soprattutto alla destra eversiva. Il piano di Borghese saltò all’ultimo lasciando molte domande senza risposta. Chi aveva ordinato di non proseguire? Secondo alcuni furono i servizi americani. Secondo altri, tra cui Mino, il golpe era una montatura per permettere alla DC di emanare leggi repressive. Sempre secondo il direttore di OP, i protagonisti del falso tentativo anti democratico si potevano tranquillamente trovare tutti insieme nella sala d’aspetto degli uffici di Andreotti. Un nome che ricorrerà spesse volte da qui in avanti. Tornando a quei dossier molto scottanti. Quando il Sifar venne liquidato e sostituito dal gattopardescamente simile SID, queste schede informative illegali sarebbero dovute bruciare. Ma “il falò del Sifar” come una volta titolò in prima pagina Pecorelli sarebbe stato solo una montatura per fingere di essersi liberati di quei fascicoli così preziosi e pericolosi quando invece erano ben custoditi in un qualche armadio del SID. Il giornalista fece intendere che era in possesso di uno o più dossier nominalmente distrutti. Tuttavia è poco probabile che questa sia stata la causa della sua morte dal momento che era una questione già vecchia nel 1979. Inoltre nel frattempo anche il SID era stato sciolto da Andreotti che sfruttò le bambinesche rivalità tra il generale capo del Servizio Segreto Miceli e il suo ambizioso sottoposto Maletti. Tra parentesi Miceli e il suo predecessore, ammiraglio Henke, erano strettamente legati a Pecorelli e spesso lo usavano per attaccare i loro nemici. Soprattutto Miceli, attraverso il criptico capitano La Bruna, passava molte informazioni al giornalista di OP.
MI.FO.BIALI
Quando l’allievo carabiniere in borghese Ciro Formuso, allertato dalla Mangiavacca, vede il cadavere di Pecorelli corre a chiamare la centrale in un bar vicino via Orazio, luogo dell’omicidio. Accorrono subito in forze carabinieri e polizia. Con loro il PM Domenico Sica e il colonello piduista dei Carabinieri Antonio Cornacchia. Gli uomini di Cornacchia corrono a controllare la sede di OP, forse già perquisita da membri dei Servizi Segreti. Su questo particolare non si farà mai chiarezza dato che da subito escono fuori le testimonianze di poliziotti respinti al momento di entrare negli appartamenti di via Tacito da coloro che sembrerebbero essere membri dei Servizi. Comunque mentre i carabinieri e Cornacchia portano via scatoloni e scatoloni di materiale, Domenico Sica, magistrato molto esperto, corre a casa di Pecorelli dove scopre la tessera P2 del giornalista, su cui torneremo dopo, e un dossier letteralmente esplosivo: il MI.FO.BIALI. Tale documentazione recuperata a casa del giornalista e non nel suo ufficio, si ricordi questo particolare, trattava di un enorme scandalo all’interno della Guardia di Finanza che coinvolgeva una serie di personaggi che ora si andranno a vedere. Ma prima vale la pena spendere due parole su come questo dossier sia stato redatto. Era stato stilato dal SID su fogli bianchi, in modo da non poter essere usati in eventuali processi. Il MI.FO.BIALI era infatti frutto di intercettazioni illegali perché non autorizzate dalla magistratura ma dal ministro della difesa in carica nel 1974, anno in cui era iniziata la raccolta di tali informazioni: Andreotti. Quest’ultimo aveva deciso di iniziare l’operazione per scopi politici come riferì l’ex capo del SID Maletti. Infatti il “FO” dell’acronimo sta per Foligni, un cognome. Foligni Mario era il fondatore del Nuovo Partito Popolare, nato con l’ambizioso progetto di essere l’alternativa alla Balena Bianca (la DC), progetto poi fallito abbastanza velocemente. Egli è uno dei protagonisti principali di questa tenebrosa vicenda. Tuttavia quello che risulta evidente è la ragione per cui Andreotti volle creare questo dossier: per gettare discredito su una nuova formazione potenzialmente avversaria. Ma il Divo Giulio negò sempre il suo coinvolgimento in questo avvenimento anche perché ciò che, volontariamente o meno, aveva scoperto ha del clamoroso. Con il MI.FO.BIALI si scoperchia un incredibile sistema di corruzione all’interno della Guardia di Finanza che comprava petrolio dalla Libia, di cui BIALI è un anagramma, in cambio di armi comprate in chissà che modo dai vertici della stessa GDF. La vendita delle armi alla Libia di Gheddafi era ovviamente vietata da un duro embargo. E la scoperta di questo enorme affare avrebbe letteralmente fatto infuriare la NATO e soprattutto gli USA, allora impegnati in un duro braccio di ferro con il Paese nordafricano. Ma ancora più esplosivi erano i nomi coinvolti nell’affare. A capo di questa gigantesca operazione illegale, secondo il dossier, c’era niente di meno che il comandante generale della Guardia di Finanza Raffaele Giudice, sua moglie, il suo segretario particolare Trisolini e il vice comandante Lo Prete. Oltre al petrolio, la cui illegale esportazione coinvolgeva anche alti prelati e il fratello del premier di Malta, si aggiungeva anche l’esportazione di valuta, ovviamente, ça va sans dire, non a norma di legge. Un particolare impressionante e che ci fa capire molte cose riguardo le fonti di Pecorelli è che questo documento era teoricamente presente solo in una copia al SID. Il giornalista molisano invece non solo ne era in possesso ma ne pubblicava anche stralci. Ciò ovviamente provocò una reazione. Pecorelli fu anche invitato a una cena con Lo Prete in un esclusivo circolo a Roma, la Famija Piemonteisa. A fare da paciere tra le due parti, per far cessare la pubblicazione del MI.FO.BIALI, c’era il magistrato andreottiano Claudio Vitalone. La mediazione probabilmente andò a buon fine dato che Pecorelli smise di attaccare la Finanza, rivolgendosi velocemente e ferocemente a un altro obiettivo. Ciò accadeva a fine gennaio del 1979, 3 mesi dopo Pecorelli veniva freddato.
GLI ASSEGNI DEL PRESIDENTE
Ritroviamo Giulio Andreotti, sette volte primo ministro della Repubblica Italiana, in una copertina mai pubblicata di OP dal titolo “Gli assegni del Presidente”. Pecorelli sembrava essere arrivato in possesso di assegni intestati a persone inesistenti o semplici prestanome che però, in un modo o in un altro, erano riconducibili ad Andreotti o a membri dello staff molto vicini al Divo Giulio come Franco Evangelisti o Vitalone. Era un enorme giro di corruzione per ottenere favori politici e appalti vinti grazie a corsie preferenziali a loro volta acquistate a peso d’oro grazie a succose mazzette. Evangelisti pagò di tasca sua, o di Andreotti, 30 milioni di lire per far sì che Pecorelli non rendesse pubblico quel numero di OP già in tipografia. Segnale abbastanza evidente di quanto Andreotti temesse le rivelazioni del giornalista molisano con cui peraltro si era scambiato cordiali lettere sulla terribile emicrania che accumunava questi due protagonisti degli anni ’70 italiani. Strettamente collegato agli “assegni del presidente” era lo scandalo Italcasse di cui Pecorelli si era interessato in molteplici occasioni. L’Istituto di Credito delle Casse di Risparmio Italiane, appunto “Italcasse”, era pienamente coinvolto in quella che si può tranquillamente definire una “Mani Pulite” anticipata di 15 anni. Infatti questo istituto di credito foraggiava i partiti con fondi neri che servivano a coprire le spese di grandi apparati con altrettanto enormi spese. Inoltre il capo dell’Italcasse Giuseppe Arcaini era anche sospettato, e quasi sicuramente colpevole, di aver dato prestiti a persone che non avevano assolutamente presentato le dovute garanzie ma che probabilmente avevano ottimi agganci con eminenti rappresentanti politici. Tra loro c’era Gaetano Caltagirone, costruttore. Oltre ad essere destinatario di enormi prestiti, era anche uno degli obiettivi prediletti di Pecorelli che lo prendeva di mira senza alcuna pietà dalle colonne del suo settimanale. Questi attacchi, oltre ai già citati assegni del presidente che facevano tanto spaventare un uomo di solito glaciale come Andreotti potevano essere effettivamente un valido motivo per giustificare un omicidio così brutale.
COMINFORM
Insieme al dossier MI.FO.BIALI Sica in casa di Pecorelli trova il numero della tessera della P2 del giornalista, datata 1977. La P2, che verrà scoperta solo nel 1981, era una loggia massonica segreta con a capo Licio Gelli. Essa venne riconosciuta come associazione eversiva e la sua ombra si allunga su buona parte delle stragi avvenute durante il periodo della Strategia della Tensione tra il 1969 e il 1980 e anche su quasi tutti i misteri, e non sono pochi, che hanno caratterizzato gli anni ’70 italiani. I legami della P2 con l’estrema destra eversiva e con la malavita sono inquietanti e piuttosto forti. Ma Pecorelli si interessò soprattutto del Venerabile Maestro Gelli. Mino ebbe modo di entrare in possesso di documenti che testimoniavano il doppio gioco di Gelli durante la Seconda Guerra Mondiale. In quel periodo il futuro imprenditore toscano lavorava sia per i nazisti sia per i partigiani e venne anche coinvolto dell’omicidio di un capo dei partigiani malvisto dai quadri dirigenti del PCI oltre che alla cattura di un altro capo partigiano che verrà poi giustiziato dai tedeschi. Ma gli attacchi a Gelli non si riferiscono solo al passato. Pecorelli calca la mano anche per quanto riguarda gli eventi contemporanei ai due personaggi. Critica ferocemente le ambizioni di “rinascita democratica”, così com’era chiamato il programma di Gelli, e colpisce frontalmente tutta quella serie di personaggi di primissimo piano del mondo politico, economico e militare che facevano parte della P2 di Gelli. E infatti il primo processo sull’omicidio Pecorelli fu intentato contro Gelli stesso come mandante e “Giusva” Fioravanti e Massimo Carminati come esecutori materiali. Ma molto prima del processo e poco tempo dopo l’assassinio avvenne un fatto strano, un probabile depistaggio. Un informatore anonimo chiamò il PM titolare dell’indagine su Pecorelli, De Matteo, affermando che il mandante dell’omicidio era “Lucio”, e non “Licio”, Gelli. Diede anche il nome e la stanza dell’hotel dove risiedeva il presunto mandante che stava, secondo il misterioso informatore, scappando per l’Argentina con un passaporto diplomatico e riferì anche il luogo dove abitava questo potente ma sconosciuto imprenditore. De Matteo diede mandato al colonello Cornacchia di approfondire, cosa che colui che per primo aveva aperto il baule dove giaceva il corpo morto di Moro non fece mai. Forse perché anche lui era membro della P2. Tornando al processo, il fratello di Fioravanti, pentito, affermò che credeva che Giusva fosse l’esecutore materiale dato che Massimo Carminati, membro della Banda della Magliana, si rivolgeva sempre a lui quando c’era da compiere un omicidio per conto di terzi. Fioravanti infatti era un membro dei NAR, i Nuclei Armati Rivoluzionari, una formazione dell’estrema destra eversiva, legata anche ai Colonnelli Greci. NAR, Banda della Magliana e Gelli, ma più in generale la P2, avevano legami stretti e conclamati. Il processo si concluse con un nulla di fatto ma la pista sembra valida e porterebbe direttamente a quella sera di marzo in cui Pecorelli venne crivellato di colpi.
IL CASO MORO
La linea che collega l’omicidio di Pecorelli a quello di Aldo Moro ha dato il via alla creazione di teorie molto interessanti. OP fece il suo ingresso nelle edicole italiane proprio nel periodo del sequestro di Moro. La coincidenza non è ovviamente casuale. Pecorelli aveva in mano documenti inediti tra cui alcune notizie false che però pubblicava lo stesso, come quando affermò che il fautore del compromesso storico si trovava in un’ambasciata straniera. Potrebbe essere stato uno di questi documenti a costargli la vita. Pecorelli era in possesso di lettere inedite che Moro scriveva durante la prigionia, esse erano rivolte alla famiglia. Ma soprattutto il giornalista potrebbe avere avuto il famoso “Memoriale” di Moro in versione integrale. Infatti il segretario della DC scrisse una lunga serie di memorie in cui, oltre ad attacchi frontali ai suoi compagni di partito, in particolar modo Zaccagnini e Andreotti, rivelava anche segreti di Stato. Insieme a rivelazioni sullo scandalo Italcasse e al “Lodo Moro”, un patto stipulato da Moro stesso tra Italiani e Palestinesi in cui i primi lasciavano transitare liberamente i secondi sul suolo italiano in cambio di immunità dagli attentati, Moro potrebbe aver scritto anche e soprattutto riguardo l’operazione “Gladio”. Occorre fare una prima digressione. Gladio era un’operazione di “stay behind” della CIA che consisteva nella lotta contro il comunismo nei Paesi Occidentali attraverso operazioni di false flag, cioè ad esempio l’attribuire all’estrema sinistra la responsabilità di attentati in realtà commessi dall’apparato statale con il fine di isolare quell’area politica. Tra i compiti di Gladio c’era anche la preparazione di arsenali per la guerriglia in caso di invasione di un Paese del Patto di Varsavia. Ovviamente Gladio era coperta dalla completa segretezza e le rivelazioni di Moro avrebbe avuto effetti imprevedibili. Secondo molti studiosi di Pecorelli egli avrebbe ottenuto il memoriale integro e non quello “monco” dato alla stampa mainstream dal generale Dalla Chiesa. Quest’ultimo e Pecorelli avevano un rapporto molto proficuo e il molisano predisse anche il triste destino del suo informatore. Infatti Pecorelli scrisse che il generale Amen, così era chiamato Dalla Chiesa dal direttore di OP, sarebbe stato presto ucciso o “suicidato”. Cosa che poi effettivamente avvenne. Un sinistro legame di sangue quindi collega Pecorelli a Dalla Chiesa e a Varisco, amico dei due e membro dei Carabinieri, anche lui collegato al caso Moro. Il primo venne ucciso da ignoti, il secondo dalla Mafia e il terzo dalle BR. Il tutto nel giro di pochi anni. Sapevano troppo? Forse sì. Soprattutto Dalla Chiesa che, secondo le informazioni di Pecorelli, aveva avvisato Cossiga del luogo preciso in cui si trovava Moro ma il ministro dell’Interno notoriamente filo americano non intervenne. Perché? Forse perché qualcuno oltreoceano non voleva rivedere Moro vivo. A distanza di poco tempo dall’assassinio di Pecorelli avviene il secondo depistaggio della nostra lunga storia. Due ragazzi americani trovarono in un taxi un borsello contenente una scheda di Pecorelli con scritti i dettagli dell’omicidio e vari collegamenti che sembrano legare l’omicidio Moro e quello del giornalista. Il tutto è un falso fatto da Antonio “Tony” Chichiarelli, noto falsario di quadri di De Chirico. La sua figura merita un’altra digressione. Personaggio legato letteralmente a tutti gli ambienti della Roma oscura degli anni ’70, dai Servizi all’estrema destra, dalla sinistra extra parlamentare alla Banda della Magliana. Fu il creatore del falso comunicato numero 7, o della Duchessa, delle Brigate Rosse in cui si rivelava che Moro era stato ucciso e buttato appunto nel Lago della Duchessa, tra Abruzzo e Lazio. I mandanti di questo falso messaggio non sono mai stati appurati anche se è stato accusato, non del tutto infondatamente, il magistrato andreottiano Claudio Vitalone, successivamente indagato nel secondo processo relativo alla morte del giornalista. Secondo una teoria è Chichiarelli che incontra e si intrattiene per tre ore con Pecorelli il pomeriggio della morte di quest’ultimo. Comunque il ritrovamento di quel borsello sembra un qualcosa fatto ad arte per confondere le acque. Ma tutto cambia ancora con le rivelazioni di Tommaso Buscetta a Falcone nel 1993. Il pentito afferma che gli esecutori materiali dell’omicidio sono Bontate e Badalamenti, due vecchi boss della mafia poi spazzata via dai corleonesi, su richiesta dei fratelli Salvo per fare un favore ad Andreotti. Quest’ultimo era preoccupato dalle rivelazioni politiche che Pecorelli avrebbe potuto fare. Scoppia la bomba. Vengono indagati come mandanti Andreotti, il sodale magistrato Vitalone e Pippo Calò, rappresentate di Cosa Nostra a Roma. Il lungo processo, definito “il processo del secolo”, finisce con l’assoluzione di tutti gli indagati anche se i rapporti amichevoli tra il Divo e Cosa Nostra durante gli anni ’80 e prima vengono assodati anche in sede giudiziaria. Pecorelli non ha ancora trovato la pace.
Una digressione su un lato non ancora trattato dei rapporti tra Pecorelli e Andreotti è necessaria. Giannuli, nella già citata antologia di articoli proveniente da OP, avanza l’ipotesi che Pecorelli fosse a conoscenza del Noto Servizio. L’Anello, nome alternativo di quello che Pecorelli riteneva essere una sorta di apparato parastatale in mano ad Andreotti, era infatti citato più volte in molteplici articoli del giornalista molisano. D’accordo con Pecorelli c’è Licio Gelli, che dichiarò in un’intervista nel 2013 su Oggi “io avevo la P2, Cossiga Gladio e Andreotti l’Anello”. Il fatto che Pecorelli fosse a conoscenza di una struttura così segreta comporta due conseguenze. La prima è viene dimostrata ancora una volta la serietà del suo lavoro e la clamorosa competenza delle sue fonti. La seconda conseguenza è l’apertura di nuovi scenari per spiegare la vicenda di OP e del suo direttore.
Rimane però il fatto che una soluzione all’enigma Pecorelli non c’è ancora e proprio i mille rivoli della sua tragica vicenda umana rischiano di precludere una soluzione che faccia finalmente giustizia.
APOLOGIA
La nostra difesa di Pecorelli parte dal primo e più infamante luogo comune sul suo conto. Spesso il giornalista viene dipinto come un ricattatore che vendeva notizie per un tornaconto personale. Niente di più falso. Pecorelli morì relativamente povero, senza particolari ricchezze nascoste chissà dove. A riprova di ciò si sprecano le testimonianze dei suoi collaboratori e della coraggiosa sorella Rosita che descrivono un Pecorelli sempre indaffarato per trovare i fondi con cui pagare le tipografie e i suoi dipendenti. Sempre in affanno, tranne il pomeriggio del suo omicidio quando, parlando con la sorella, era sembrato contento per una notizia che lo “avrebbe reso ricco”. Quale fosse non lo sapremo mai. Forse Pecorelli si riferiva agli articoli sugli “assegni del Presidente” il cui contenuto non fu mai più recuperato. Nella già citata trasmissione di Augias, quest’ultimo disse che Pecorelli si sentiva burattinaio quando in realtà era un burattino di quegli uomini che fluttuavano misteriosamente nella cosiddetta “zona grigia”. Anche qui la verità sta da tutta un’altra parte e quasi si cade nella calunnia. Pecorelli era un uomo alla ricerca della realtà dei fatti. Tra i pochi che in quel periodo scavavano a fondo non avendo paura di ciò che potevano scoprire. Non era quindi né un burattino e men che meno un burattinaio. Un’altra accusa molto diffusa tra i detrattori del fondatore di OP è quella che lo etichetta come un’arma azionata da chi ne aveva bisogno nel momento che riteneva più opportuno. Questa vera e propria credenza deriva, come la sua fama di ricattatore, dal fatto che spesso Pecorelli barattava le notizie. Vero è che molte volte il giornalista molisano attaccava un personaggio, per poi fermarsi e ricominciare dopo un certo tempo. Ma ciò faceva parte del suo modus operandi. Un esempio sono gli articoli al vetriolo su Gelli, succeduti da una certa benevolenza che però durò brevemente per lasciare posto ad attacchi ancor più pesanti e diretti. Si diceva che Pecorelli fosse affetto da incontinentia pubblicandi, un latinismo abbastanza terribile ma che racchiude in sé l’anima del giornalista molisano: non poteva trattenersi dal pubblicare tutte le notizie che aveva. Rimane storicamente accettato che spesso Pecorelli scambiasse le notizie per altre, magari più interessanti. Tuttavia Pecorelli finiva per pubblicare tutto, facendo storcere molti nasi. Da sottolineare è anche la grandissima e affidabilissima rete di informatori che si era costruito il nativo di Sessano del Molise, in provincia di Isernia. Se da una parte è vero che personaggi come Miceli, attraverso La Bruna, lo utilizzavano come arma da usare contro avversari politici, è altrettanto vero che Pecorelli si era guadagnato la fiducia di personaggi di primo piano e di comprovata moralità come Dalla Chiesa e Varisco. Troppo raramente non viene prestata la dovuta attenzione alla mole di informazioni che Pecorelli raccolse. Informazioni che vennero messe insieme solo grazie a un instancabile lavoro personale del Pecorelli che si prodigò in ogni dove per ottenere succose esclusive con un solo obiettivo: la verità. La sua mente vivace arrivò ad interessarsi di tutti i misteri di un’Italia al centro di ogni tipo trama. Gli costò minacce, intimidazioni varie e un’auto bruciata come avvertimento ma non si fermò davanti a nulla. Inoltre il fondatore di OP fu anche il precursore di un tipo di giornalismo estremamente coraggioso, ben disposto a sporcarsi le mani per far emergere la verità dei fatti. La sua eredità venne raccolta soprattutto dai giornalisti dell’Espresso che continuarono alcune delle sue inchieste. Un’altra accusa mossa dai suoi innumerevoli detrattori è quello di aver praticato giornalismo pur non avendone le basi. Questo è vero, Pecorelli aveva una laurea in giurisprudenza e non aveva una vera e propria formazione giornalistica ma anticipò molte testate più blasonate in varie vicende. Ciò grazie alla sua impareggiabile rete di informatori. Ed era sicuramente più imparziale. Il Corriere della Sera, ad esempio, fu per tutti gli anni ’70 in orbita piduista e quindi perse inevitabilmente credibilità agli occhi di tutte le persone perbene. Il suo acume giornalistico diede vita a varie profezie che poi si rivelarono pienamente azzeccate. La più clamorosa fu quella che riguardava la sua stessa persona. Predisse infatti il suo omicidio dicendo ai lettori che, qualora gli fosse accaduto qualcosa, avrebbero subito capito chi ha armato la mano del suo assassino. Altra profezia è stata quella che riguardava Dalla Chiesa, suo informatore. Con lui Pecorelli ha avuto molteplici contatti. Il generale “Amen”, come era chiamato dal molisano, sarebbe stato suicidato perché sapeva troppi dettagli riguardo l’omicidio Moro. Infatti Dalla Chiesa, dopo aver piegato il terrorismo, venne letteralmente spedito in Sicilia. Circostanza che gli fece affermare amaramente “Mi mandano in una realtà come Palermo con gli stessi poteri del prefetto di Forlì”. Dalla Chiesa venne effettivamente ucciso abbandonato dallo Stato. Non fece nemmeno in tempo a dare il suo prezioso contributo contro la Mafia. Ciò rende strano il suo omicidio da parte di Cosa Nostra dato che non aveva fatto ancora fatto nulla contro quella organizzazione. Si avvera così la profezia di Pecorelli. Il rapporto tra i due ha aspetti inquietanti come ci viene narrato dal carabiniere Angelo Incandela. Quest’ultimo è stato il capo del carcere di Cuneo dove erano rinchiusi i brigatisti responsabili della morte di Moro. Incandela venne contattato da Dalla Chiesa che gli chiese di incontrarsi in tarda serata fuori dal suo carcere. Il carabiniere obbedì al suo superiore e a mezzanotte salì sull’autovettura del generale, prestando poca attenzione all’autista. Dalla Chiesa gli chiese di recuperare una registrazione, chiamata “salame”, che si trovava nelle fogne del carcere e che conteneva integralmente il memoriale di Moro. Incandela sembrò non capire così prese parola l’autista che, secondo la testimonianza del maresciallo di Cuneo, disse “Generale Amen, gli spiego io dove si trova” e iniziò una minuziosa spiegazione delle caratteristiche del luogo in cui si trovava quel documento così scottante. Incandela rimase perplesso ma capì che l’autista del generale era una di quelle persone che erano entrate nel carcere usando nomi fittizi. Ciò accadde prima che egli divenisse direttore del carcere ma, appena arrivato, notò subito questo strano particolare. Qualche tempo dopo, Incandela stava mangiando nel suo ufficio della prigione di Cuneo quando riconobbe l’autista di Dalla Chiesa, era il giornalista appena ucciso a Roma: Mino Pecorelli.
Per concludere, dopo la sua morte Pecorelli venne infangato in ogni modo: ricattatore, burattino e tutta una serie di epiteti poco gentili. Fu anche messo da parte dal mondo giornalistico che vedeva in lui un uomo troppo indipendente. Infatti, seppur di simpatie atlantiste, non risparmiava critiche agli USA così come attaccava frontalmente e senza risparmiarsi anche il PCI. Si mise contro tutti: DC, PCI, Servizi, P2, giornalisti e magistrati oltre all’eversione nera e agli imprenditori. Dal suo lato della barricata c’erano solo un manipolo di giovani collaboratori, la sorella, la piccola nipotina e la segretaria/compagna Franca Mangiavacca. Troppi i nemici da affrontare e da battere per far sì che ci fosse un lieto fine. E infatti non ci fu. Il primo scempio fu il simbolico sparo in bocca, lo “strumento degli infami” per la Mafia. Peccato che Pecorelli non lo fosse, anzi. Ma una nuova speranza c’è. Il recente procedimento giudiziario, la perseveranza della sorella Rosita e una nuova più attenta letteratura sul suo caso e sulla sua vita stanno togliendo la figura del giornalista di OP dal fango calunnioso in cui si era vergognosamente impantanata. Un giornalista coraggioso, capace con grande senso dell’intuito, troppo scomodo per essere lasciato libero di agire a briglie sciolte in un contesto piuttosto ingessato, conformista e ligio ai dettami del potere com’era il mondo della stampa italiana negli anni ’70. In quegli anni violenti e politicamente radicalizzati, quando un personaggio era troppo scomodo, veniva eliminato. E Pecorelli era scomodo a molte persone potenti, con legami dappertutto. Forse è anche per questa ragione che i due processi non hanno avuto alcun risultato e le indagini sono state lacunose in vari punti. Come disse Bertolt Brecht: “Beati i popoli che non hanno bisogno di eroi”. L’Italia, di eroi, ne ha avuti, ne ha e ne avrà fin troppi. Forse Pecorelli non è uno di loro a pieno titolo ma il suo nome deve essere tolto dal fango così da restituirgli l’onore perduto.