La Sospettosità Siciliana: IV puntata
“… La sola nozione che l’uomo siciliano ha del peccato si può considerare condensata in questo proverbio: Cu havi la cummidità e nun si nni servi, mancu lu confissuri ca l’assorvi; che è appunto l’ironico rovesciamento non solo del sacramento della confessione ma del principio fondamentale del cristianesimo: non sarà assolto dal confessore colui che non saprà profittare di ogni comodità ed occasione che gli si offre, della roba altrui e della donna altrui in particolare. Ed è da questo atteggiamento nei riguardi dell’altrui che sorge quel senso di precarietà ed insicurezza nei riguardi del proprio: quell’acuta e sospettosa vigilanza, quell’ansietà dolorosa, quella tragica apprensione di cui la donna e la roba sono circondate e che costituiscono una forma di religiosità se non di religione“. (Leonardo Sciascia, Morte dell’inquisitore)
3. L’importanza dei Ceti Medi
Per spiegare le peculiarità sociali del mezzogiorno ed il ruolo delle organizzazioni mafiose è intervenuto Diego Gambetta [1989] e [1990] proponendo dapprima uno schema logico fondato sulla fiducia (assenza di fiducia) negli scambi commerciali. Successivamente (in tema di mafia [Gambetta 1992]) sull’offerta di protezione da parte delle organizzazioni mafiose nei confronti della popolazione, secondo un frame che chiameremmo aziendalista. Il contributo è stato stimolante ed ha permesso di considerare aspetti fino ad allora sottovalutati. Tuttavia, una distinzione preliminare va fatta, quella tra camorra e mafia (ed i loro rispettivi territori di origine) che nell’analisi di Gambetta rischiano di apparire uguali.
Partiremo da un episodio centrale nell’analisi di Gambetta [1989], quello del cocchiere napoletano. Intervistato nel 1863 sul suo mestiere, il poveretto rifletteva sul fallimento dell’acquisto di un nuovo cavallo: l’acquisto si era rivelato un bidone.
Queste le ragioni addotte dal cocchiere: in assenza del camorrista che lo proteggeva era stato imbrogliato da un venditore di cavalli (la sua garanzia di mercato era appunto il camorrista, assente perché arrestato o impedito per altre ragioni). Lo stesso camorrista, rilevava il cocchiere, lo aveva aiutato a vendere, un anno prima, un cavallo cieco per buono e quindi lo aveva aiutato a fare un bidone.
Se valessero le regole del mercato concorrenziale sull’eliminazione tendenziale delle nicchie di inefficienza, si verrebbe a costituire un luogo diffuso, non-fisico e non controllato da alcuno in particolare che renderebbe più conveniente a tutti gli operatori un comportamento tendenzialmente corretto.
Con l’affermazione sociale del ceto dei camorristi, siamo invece in presenza di un ceto che gestisce l’incertezza del mercato, e che può gestire il suo ruolo fino a quando perdura l’incertezza degli scambi. Il camorrista non ha interesse al fatto che gli attori economici possano gestire in autonomia ed in responsabilità il proprio ruolo di efficienti operatori economici, perché verrebbe meno il suo stesso ruolo sociale. Egli impone gli scambi gestendo l’incertezza ed impone l’incertezza gestendo gli scambi. Chi non è protetto dal camorrista rischia di comprare un bidone. Ma chi è protetto può anche vendere un bidone: in termini sistemici, la garanzia dell’incertezza ad opera del camorrista genera l’incertezza. La presenza personale del camorrista genera sicurezza privata degli scambi ma non sicurezza diffusa come bene pubblico.
Il camorrista quindi aveva tutto l’interesse al perdurare di una situazione di incertezza, perché nell’incertezza stava la sua forza. Né, storicamente, è stato contrastato validamente da poteri pubblici volti a garantire equilibri sociali diversi, come per es. l’autonomia dei soggetti economici in regime di mercato efficiente e concorrenziale.
3.1. La Mafia.
In Sicilia, nello stesso periodo, la situazione veniva a situarsi in termini più difficili perché, come si è visto, il ceto medio violento non solo poteva controllare gli scambi, ma gestiva la violenza a fini di stabilizzazione sociale. Enea Cavalieri nella sua Introduzione a [Franchetti – Sonnino 1974] si soffermava su questo punto, individuando nella mafia qualcosa di più di una semplice risposta criminale alle occasioni di guadagno economico (come la camorra). La mafia gli appariva come una vera e propria modalità di governo del territorio, della sua economia, della sua politica, delle sue istituzioni. Al suo interno si situavano i ruoli del ceto dirigente, dei militi a cavallo, dei campieri, del brigantaggio. Il parere di Enea Cavalieri è importante perché si riferisce a 50 anni di storia politica e sociale post-unitaria. Nessuno degli studi successivi ha smentito l’assunto di base.
La proposta di Gambetta [1992] (offerta di protezione alla popolazione da parte della mafia, che soddisfa un bisogno oggettivo) va nella giusta direzione ma corre il rischio di sottovalutare un dato fondamentale: la mafia ha avuto il monopolio dell’offerta di protezione per secoli. Quindi, quella stessa popolazione che, nell’impostazione di Gambetta, avrebbe dovuto richiedere il prodotto protezione non aveva gli elementi cognitivi per concepire un soggetto ed un prodotto differenti perché mafia e popolazione, pur essendo soggetti sociali distinti, hanno le stesse radici storiche e nella loro comune mappa cognitiva vi era una sovrapposizione logica tra protezione, modalità della protezione e mafia. In tal modo, il frame usato da Gambetta rischia di essere fuorviante se presuppone una capacità di distinzione e di scelta che non c’era, né poteva esserci, se non dall’esterno (infatti sono le due inchieste del 1875 a sollevare il problema). Se così non fosse, l’eventuale nuova offerta (diverso tipo di protezione) di un soggetto diverso (per es. lo Stato) avrebbe dovuto ottenere una veloce modificazione nel mercato di riferimento. Ma, come sappiamo dalle documentazioni storiche, così non è stato.
In realtà, nella Sicilia occidentale fino a qualche anno fa, questa sovrapposizione è stata inscritta nel codice genetico culturale. Il risultato è stato una persistente, ragionevole, difensiva sospettosità di ogni legame sociale che andasse poco oltre l’ambito stretto della famiglia (un legame sociale controllato dalla mafia non poteva non essere pervasivo ed opprimente). Oppure, nascevano legami sociali che avevano caratteristiche mafiose partendo proprio dal ristretto ambito familiare. La nascita nella Sicilia Orientale di nuove organizzazioni mafiose integrate in Cosa Nostra (soprattutto dopo il secondo dopoguerra) ed il fenomeno della para-mafiosa Stidda (Sicilia centro-occidentale) ci parlano di radici profonde nella storia economica, sociale, culturale di questa regione e, con modalità in parte diverse, dell’intero mezzogiorno.
Quindi, siamo in presenza di un ceto che si legittimava nella partecipazione al governo del territorio e che tramite l’uso discrezionale della violenza era in grado di incidere sui livelli più elementari della vita associata, ben al di là del momento mercantile. Basti pensare al ruolo di regolazione dei conflitti e di gestione della giustizia. Il punto è importante ed influenzerà molto le valutazioni dei paragrafi successivi. Per chiarire, sarà bene fare chiarezza.
La mafia è l’indicatore di una modernizzazione insufficiente e parziale. Nasce in un periodo ed in luoghi in cui non era possibile riscontrare forti elementi di economia industriale e di mercato; con una terminologia marxista: la formazione economico-sociale dominante era il Feudalesimo perché vi era la sommatoria in capo ai medesimi soggetti privati (i proprietari terrieri) di capacità economica e di potere politico-istituzionale. Con una terminologia ispirata al lavoro di Douglass North [1990] diremo che Cosa Nostra è una Organization (braccio armato) di una sopravvivente Institution (la mafia) che aveva ed ha la funzione di regolatore sociale e di governo del territorio.[1]
Analogamente a quanto successo con gli altri ceti dirigenti locali anche la mafia ha partecipato, a suo modo, al processo di integrazione nazionale e internazionale dall’Unità d’Italia fino ai giorni nostri.
Leggiamo cosa dichiarava l’on. Mannino, 60 anni dopo lo scritto di Enea Cavalieri: “… Nel passato la mafia pur sempre organizzazione criminale, tendeva a collocarsi negli spazi che le istituzioni di fatto rendevano possibile. La mafia fondamentalmente ha svolto un ruolo di intermediazione parassitaria che implicava istituzioni deboli ma esistenti. La politica, soprattutto in questo dopoguerra, anche per evitare il rischio di utilizzazioni a fini di instabilità politico-sociali ha coltivato l’ipotesi di riassorbimento dell’opposizione mafiosa. Cioè ha coltivato l’ipotesi della riassimilazione all’interno della evoluzione borghese della società. Questo processo poteva sembrare qualche anno fa realizzato, pur dovendo constatare che la riassimilazione non avveniva con un superamento delle forme di organizzazione della complessa fenomenologia mafiosa. In altri termini le tossine invece di disperdersi entro un corpo sano lo attaccavano... la mafia è stata coinvolta nei traffici di droga, probabilmente in circuiti oscuri, entro i quali si svolgono anche attività parallele dello Stato. L’ipotesi che il corrispettivo della droga fossero le armi non è fantasiosa e rappresenta così un elemento di giudizio politico. È chiaro che allora il piano di attività delle organizzazioni mafiose è mutato ed è mutata la struttura di questa organizzazione. Su questa via la mafia ha perduto il carattere di infrastatualità, è divenuta extra statuale, addirittura antistatuale e terroristica. Sua strategia è divenuta unicamente quella di una struttura tecnico-militare al servizio di un tentativo di controllo oligopolistico dei mercati illeciti.” [Mannino 1986]. [2]
Si può aggiungere che nei procedimenti giudiziari degli anni ’80 e ’90, molti degli esponenti mafiosi che hanno collaborato alle indagini hanno ricordato come l’organizzazione entrava da protagonista nei processi di decisione della DC, contribuendo anche all’elezione dei segretari nazionali. Essa, quindi, pur segretamente organizzata, aveva un ruolo politico ben riconosciuto.
La sua crisi agli inizi degli anni ’90 è da imputare al mutato clima politico di quel periodo e ad altri due importanti fattori, uno esogeno al fenomeno stesso e l’altro endogeno.
Il progressivo affermarsi della spesa pubblica assistenziale, aveva reso meno utile il ruolo sociale di “braccio armato” come strumento per il controllo del territorio. Così, Cosa Nostra a partire dalla fine degli anni ’70, aveva trovato altri mercati di sfruttamento, spostando progressivamente i suoi interessi verso il traffico internazionale di droga. La conseguenza è stata la possibilità di immaginare una sua autonomia dal contesto sociale e territoriale e la sperimentazione di strategie fino ad allora inimmaginabili. Il terrorismo stragista dei corleonesi di Riina che, come ricorda Mannino, faceva riferimento anche ad attività statali “parallele”, non era probabilmente una novità assoluta. Nella sua storia la mafia ha spesso messo a disposizione le sue speciali competenze al richiedente di turno. Certo, per anni, la sua potenza militare è stato l’indicatore più evidente della sua esistenza, in ciò contraddicendo secoli di attività riservata.
Entrata in crisi quella Cosa Nostra, il fenomeno mafioso sembra aver ritrovato la sua storica identità: il legame col territorio sotto forma di controllo dell’attività politica ed economica.
Come sempre, esercita la sua forza repressiva con la corruzione, la minaccia dell’omicidio, l’omicidio. All’inizio del nuovo secolo la mafia controlla la quasi totalità dell’economia isolana e del mezzogiorno oltre ad esercitare un controllo diretto o indiretto sull’attività delle amministrazioni locali. Relazione del Presidente della [Commissione Parlamentare Antimafia 2009; pag. 14]: “…nel Sud… la criminalità organizzata ha avuto gioco facile: ha invaso l’economia, è penetrata nelle amministrazioni pubbliche e ne ha influenzato le decisioni. Nell’assalto ai fondi pubblici si è rafforzata quella borghesia mafiosa, quella zona grigia che all’occorrenza manovra anche il braccio militare, ma normalmente collega il braccio politico-affaristico col mondo dell’economia, trasformando gradualmente “l’organizzazione criminale” vera e propria in un “sistema criminale” integrato nella società civile.” Due anni prima il magistrato Giuseppe Ayala, pubblico ministero al “maxiprocesso” della metà degli anni ’80, aveva dichiarato in un pubblico dibattito: “La mafia condiziona i governi italiani da 40 anni. È componente organica del sistema di questo paese.” [Ayala 2007]
Se la nostra ricostruzione è vera, cadono una serie di interrogativi sulla natura prima del fenomeno mafioso: funzione economica o politica?[3] La sua peculiarità è di essere nato in un periodo storico in cui quella distinzione mancava e di essere sopravvissuto fino a noi nella sua forma sincretica di funzione economica e politica.
Sarebbe importante aggiornare la ricostruzione della formazione economico-sociale individuata da Sonnino, Franchetti e Bonfadini includendo le associazioni massoniche e gli apparati riservati dello Stato.[4]
3.2. Il Ceto Medio Clientelare.
Lungo l’asse di una stratificazione sociale caratterizzata da ceti medi non produttivi, troviamo in questo dopoguerra i mediatori.
Si tratta di un altro ceto intermedio nella scala sociale che si è legittimato non tanto per la gestione della violenza a fini di stabilità sociale (come la mafia) o per la garanzia dei rapporti di scambio anche truffaldini (come il camorrista) ma per la distribuzione discrezionale di risorse economiche a prescindere da qualsiasi criterio di efficienza produttiva e di concorrenza di mercato. Il suo ruolo, come testimonia una letteratura ormai vastissima, è stato cruciale.
Un altro ed ulteriore ceto che gestisce risorse (quindi: governa una importante area di incertezza) e che si legittima nella loro distribuzione. Di queste risorse non è responsabile in quanto produttore (sono flussi finanziari di provenienza pubblica) ma ne è gestore a fini di consenso: cioè ai fini del mantenimento dell’ordine e degli equilibri sociali e politici.
Questo ceto diviene importante anche ai fini della stabilità nazionale. La sua legittimazione è diffusa ed è un valore sociale vincente e di riferimento.
La sua cultura di ceto ripete alcuni degli importanti elementi di specializzazione già visti nelle pagine precedenti: a) acquisizione non produttiva delle risorse (ottenute tramite contrattazione politica); b) assenza di criteri di efficienza economica e produttiva nella loro gestione e scambio; c) stabilità sociale e politica come indicatore finale di un suo corretto uso.
Quindi, il messaggio socialmente diffuso (che si accosta e non si sostituisce a quello del ceto medio violento) è ancora una volta l’origine non-economica del successo individuale e sociale.
Questo ceto rischierebbe di scomparire se si imponessero (come bene pubblico diffuso) generali criteri di efficienza nella produzione e nello scambio. Così come il ceto medio violento (mafia) scomparirebbe se si imponessero come valori diffusi (e quindi come bene pubblico diffuso) l’impersonalità della giustizia e delle sue sanzioni.
3.3. I Valori di Riferimento.
In Sicilia, quindi, i ceti medi vincenti e legittimati per decenni hanno fatto riferimento al controllo ed alla conservazione degli equilibri sociali esistenti tramite l’uso della violenza e l’uso discrezionale delle risorse. Le istituzioni sono state o spettatrici passive o alleate di questi ceti medi: perché controllate dallo stesso ceto dirigente locale o per garantire equilibri politici nazionali.
La mentalità sociale tendenzialmente vincente può essere così sintetizzata:
1) qualsiasi soggetto (anche economico) sarà dipendente da una fonte di risorse di provenienza non-produttiva e gestita in termini discrezionali, secondo criteri ultimi che fanno riferimento alla conservazione dell’equilibrio politico e sociale esistente;
2) qualsiasi soggetto (anche economico) sarà dipendente dalle decisioni discrezionali di un altro ceto (non produttivo) in tema di risorse economiche;
3) i ceti medi dirigenti che si configurano come elemento fondamentale per garantire la pace sociale possono essere fonte legittimata di sanzione violenta (mafia) o dispensatori di risorse finanziarie come corrispettivo del consenso (mediatori).
In base alla ricostruzione effettuata, tra i valori di riferimento presenti in Sicilia possiamo trovare:
1) la sfiducia in uno Stato che garantisca l’ordine e l’uguaglianza dei cittadini, in qualità di soggetto terzo;
2) la convinzione, nel medesimo tempo, che sia possibile gestire la violenza e la giustizia attraverso interventi personali ed individuali;
3) l’assenza, tra i beni pubblici diffusi, di criteri economici di efficienza e di produttività;
4) l’assenza del valore affermazione economica come fonte di autonomia; cioè, l’economico non sembra avere una sua autonomia rispetto agli altri valori.
Bibliografia
AAVV 2006, Pubblic/azione – Quaderni interdisciplinari sulla pensabilità, n° 3, Omertà, Mafie, Terrorismi, sette segrete, Roma: re_edizione.
Ayala G. 2007, Apcom, 19.08.2007, ore 21.05
Bloch M 1921, Réflexions d’un historien sur les fausses nouvelles de le guerre, Revue de synthèse historique n. 33, pag. 134 e segg.
Catanzaro R. 1994, Domanda e offerta di protezione nelle interpretazioni della mafia: una risposta a Gambetta, Polis n. 3
Commissione Parlamentare Antimafia 2009, Commissione parlamentare di inchiesta sul fenomeno della mafia, Relazione del Presidente Sen. Giuseppe Pisanu
Franchetti L. – Sonnino S., 1974, Inchiesta in Sicilia, (con nota storica di Z. Ciuffoletti ed Introduzione di E. Cavalieri), Torino: Vallecchi
Gambetta D. (a cura di) 1989, Le strategie della fiducia, Indagini sulla razionalità della cooperazione, Torino: Einaudi
Gambetta D. 1990, La mafia elimina la concorrenza. Ma la concorrenza può eliminare la mafia? in Meridiana n.7\8
Gambetta D. 1992, La mafia siciliana, Torino: Einaudi
Gambetta D. 1994, La protezione mafiosa, Polis n. 2
Ginzburg C. 1989, Storia notturna, Torino: Einaudi
Mannino C. 1986, intervista al quotidiano L’Ora, 24 Maggio, Palermo.
North D. C. 1990, Institutions, Institutional Change and Economic Performance, New York: Cambridge University Press.
Polis 1995, “Confronti”, Gambetta-Santoro, n. 3\1995
Santoro M. 1995, La mafia e la protezione. Tre quesiti e una risposta, Polis n. 2.
Note
[1]. Questa lettura nasce da una visione multidimensionale della realtà: si ipotizza la coesistenza di formazioni economiche, sociali, politiche con radici storiche differenziate. Karl Marx parlava di “residui feudali” in contesti di progressiva e crescente industrializzazione. Marc Bloch [1921] sosteneva che in particolari momenti storici possono riemergere modalità di interazione che sembravano superate da secoli ma silenziosamente sopravviventi. Su ciò cfr. anche [Ginzburg 1989]. Alla fine degli anni ’70 Francesco Alberoni osservava come la veloce modernizzazione iraniana voluta dallo Scià avrebbe potuto provocare una forte reazione del fondamentalismo islamico. La previsione fu confermata dagli avvenimenti successivi. Si potrebbe aggiungere quanto avvenuto durante e dopo l’era Gorbaciov quando, con il venir meno dell’URSS, caratteri nazionali, etnici e religiosi dell’Est europeo hanno ripreso vita. Alcune volte favorendo l’esplosione di conflitti e violenze dopo decenni o secoli di silenzio altre volte favorendo una veloce integrazione economica con il resto dell’Europa.
[2] L’On. Calogero Mannino, più volte Ministro della Repubblica ed allora Segretario della Democrazia Cristiana siciliana, è stato per anni sotto inchiesta per concorso esterno in associazione mafiosa e successivamente riconosciuto innocente. L’intervista era stata effettuata dal prof. Elio Rossitto, per anni stretto collaboratore dell’on. Rino Nicolosi, Presidente della Regione Sicilia. Sia Rossitto che Nicolosi sono stati indagati e processati, con vari esiti finali, nell’ambito della cosiddetta Tangentopoli siciliana. La Presidenza della Regione Sicilia era (è?) una carica politica ed istituzionale di primissimo piano perché costituiva un punto di equilibrio tra il complesso mondo della politica e dell’economia siciliana ed il governo nazionale.
[3]. Cfr. in tal senso l’intervento di Gambetta [1994], le obiezioni di Santoro [1995], ed il successivo confronto dei due su Polis [1995]. Sull’approccio di Gambetta cfr. anche [Catanzaro 1994].
[4] Per una ricostruzione completa è necessario esaminare anche le dinamiche psicologiche che portano ad organizzarsi in associazioni segrete per l’acquisizione e la gestione delle risorse. L’Omertà è la chiave per decrittare. Riccardo Romano ne ha parlato nel 1998 in una riunione di psicoterapeuti bioniani (http://www.sicap.it/~merciai/bion/papers/romano.htm) ed ha curato la pubblicazione degli atti di un successivo Convegno (Omertà, Mafie, Terrorismi, sette segrete) sullo stesso argomento [AAVV 2006].
[5]In foto: Chiesa di San Giovanni Evangelista patrono di numerose società segrete tenuto in alta considerazione dalla massoneria.
Indice
I Puntata (Premessa; Introduzione: a) La sospettosità siciliana come convenzione sociale; b) Gli Imprenditori; Bibliografia; Note).
II Puntata (Capitolo 1. Regolazione Locale e Regolazione Economica; Bibliografia; Note).
III Puntata (Capitolo 2. Le Ipotesi Storiche; 2.1. Le Due Inchieste Del 1875; Bibliografia; Note).
IV Puntata (Capitolo 3. L’importanza Dei Ceti Medi.; 3.1. La Mafia; 3.2. Il Ceto Medio Clientelare; 3.3. I Valori di Riferimento;Bibliografia; Note).
V Puntata (Capitolo 4. La Fiducia Come Strumento di Analisi; Bibliografia; Note).
VI Puntata (Capitolo 5. Teoria Dei Giochi ed Analisi Sociologica: Il Caso Siciliano; Bibliografia; Note).
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