Dallo Stato-imprenditore allo Stato-stratega: dibattito sull’Iri
Nelle ultime settimane la crisi industriale dell’Ilva, con la problematica partita apertasi tra il governo e Arcelor-Mittal, unitamente al nuovo rinfocolamento del caso-Alitalia ha riportato in auge il tema dello “stato-imprenditore”, del coinvolgimento pubblico nell’economia funzionale allo svolgimento della politica industriale, e la parola “Iri” è ritornata prepotentemente nel dibattito.
Il modello di riferimento, nel dibattito italiano, non ha potuto che essere l’Istituto di Ricostruzione Industriale (Iri), il conglomerato fondato nel 1933 per iniziativa di Alberto Beneduce e divenuto nel secondo dopoguerra il principale braccio operativo del sistema di economia mista che ha guidato la rinascita del Paese. L’Iri, fino alla crisi conclusiva della Prima Repubblica che segnò l’inizio della sua messa in liquidazione (terminata nel 2002), ampliò gradualmente il suo perimetro sino a risultare protagonista nei principali gangli strategici del sistema Paese: dal ramo bancario (azionista in Banco di Roma, Credito Italiano e Banca Commerciale Italiana) alla siderurgia (Finsider, l’antenato dell’Ilva), passando per le telecomunicazioni (Stet), la cantieristica e la difesa (Fincantieri e Finmeccanica) e i trasporti (controllando Alitalia e le autostrade). Nel 1993, quando il governo Ciampi iniziò la sua graduale privatizzazione, l’Iri era il settimo conglomerato al mondo per dimensione, potendo contare su un fatturato superiore ai 67 miliardi di dollari.
L’Iri è stato citato esplicitamente dal Ministro dello Sviluppo Economico Stefano Patuanelli (Movimento Cinque Stelle) che ha affermato esplicitamente di non essere contrario al “ritorno” al sistema di gestione statale, nel contesto di una forte critica alle modalità di privatizzazione delle proprietà dell’ente. Riteniamo necessario contestualizzare nel migliore dei modi la questione per evitare che il dibattito si riduca a prese di posizioni fini a sé stesse e che non contribuiscono al tema cruciale del dibattito su un’evoluzione dell’attuale sistema di gestione degli asset cruciali del Paese: come può tornare l’Italia ad avere una politica industriale degna di questo nome? Come possono essere bilanciati equamente gli interessi del governo e del Paese nella gestione degli asset chiave dell’economia e le prospettive di sviluppo di un’impresa privata capace di produrre sviluppo e occupazione?
Un passato glorioso che non tornerà
Se una forma di intervento pubblico nell’economia, diverso da quello già veicolato attraverso il vettore di Cassa Depositi e Prestiti, troppo spesso retrocessa a “bancomat” della politica, riemergerà non potrà essere la fotocopia dell’Iri smantellato nella transizione tra Prima e Seconda Repubblica. L’economia di un Paese è figlia della sua classe dirigente, dagli equilibri produttivi e finanziari, del contesto internazionale. Invertire l’ordine degli addendi e riavvolgere il nastro della storia non dà la garanzia di una riedizione degli esiti del passato. Come ha giustamente fatto notare il professor Giuseppe Berta“bisogna guardare in avanti, definendo una sorta di carta che dica quali sono gli elementi strategici del nostro apparato produttivo di cui non possiamo e non vogliamo fare a meno, per poi favorire una politica di crescita delle nostre imprese medio-grandi”.
Rievocare l’Iri in maniera nostalgica senza considerare il sopraggiunto intervento della globalizzazione, l’avvenuta penetrazione di elevate masse di capitale finanziario straniero nel tessuto produttivo italiano, il cambio della regolamentazione europea significa dunque parlare di un futuro che non esisterà mai ipotizzato come calco di un passato che è, piaccia o meno, esperienza conclusa.
Questo deve tuttavia valere, al tempo stesso, per i paladini del destino manifesto del libero mercato che evocano lo spauracchio dell’intervento pubblico dello Stato come inevitabile causa di nuovi disastri. Il Foglio e Linkiesta, rimasti tra gli ultimi paladini del liberismo duro e puro nel panorama informativo italiano, hanno in questo contesto prodotto analisi che spiccano per la limitatezza di vedute paragonando l’ipotesi di un nuovo apparato di partecipazioni statali, rispettivamente, a uno “Stato-rigattiere” e a un “carrozzone pubblico”.
In entrambi i casi manca la capacità di approfondimento e di analisi della complessità del fenomeno. Che in materia di politica industriale è vitale riscoprire. Riflettendo se la priorità sia guardare il dito, ovvero la struttura proprietaria dei conglomerati a partecipazione pubblica, o la Luna: l’inserimento dello Stato-imprenditore nel contesto di un progetto funzionale all’interesse nazionale.
Così fu, prima dell’incancrenimento finale, il progetto Iri nei primi decenni della sua storia. Sotto l’ombrello Iri operava l’Italstat, controllata dedita alla costruzione di infrastrutture che seppe progettare e realizzare l’Autostrada del Sole in anticipo sui tempi e con un esborso, in proporzione, pari a un terzo da quello previsto per l’incompiuto Mose di Venezia. Ma non solo.
Era tra i fiori all’occhiello dell’Iri il visionario “impero romano” della Stet, “costruttrice di cavi e reti che hanno garantito all’Italia”, scrive il direttore del Quotidiano del Sud Roberto Napoletano, “il primato mondiale delle telecomunicazioni e i segreti dell’industria del futuro globale”, prima che Telecom-Tim venisse privatizzata.
E, per collegarci al caso Ilva, sarebbe impossibile non parlare della Finsider di Oscar Sinigaglia, antenata dell’impresa privatizzata e finita nel circolo vizioso della mala gestio, che seppe risultare capace di realizzare gli impianti in grado di permettere a tutti i Paesi europei la conquista dell’indipendenza nella produzione della materia più strategica per l’industria moderna, l’acciaio.
La necessità di un nuovo progetto nazionale
Queste realizzazioni furono funzionali al progetto nazionale di rafforzamento del sistema economico nazionale i cui ulteriori perni furono l’azione del settore energetico capitanato dall’Eni di Enrico Mattei e una classe imprenditoriale privata che ebbe in Adriano Olivetti il suo esponente di punta. Personalità come Sinigaglia, Mattei, Olivetti, fa notare Berta “erano convinti della necessità di un “telaio” di grande impresa pubblica avanzata senza negare le differenze del territorio che dovevano, principalmente secondo Olivetti, rimanere un carattere distintivo e un elemento di vitalità del nostro sistema economico”.
Ammettere queste evidenze non esclude ammettere le problematiche con cui l’Iri, nella fase terminale della sua esperienza, si trovò a convivere. Prima fra tutte l’amplificazione della sua dipendenza dalla politica dei partiti, al cui progressivo ingessarsi seguì l’emersione di profonde rigidità nell’ente. Tale spinta provocò la contrapposta e altrettanto dannosa pressione privatizzatrice che tra la fine degli Anni Novanta e l’inizio degli Anni Duemila condusse lo Stato a dismettere gradualmente partecipazioni e enti di rilevanza economica, in un processo confuso e torbido che, per ammissione della Corte dei Conti, non ha prodotto significativi miglioramenti in materia di redditività per le imprese messe sul mercato.
Di fronte all’insorgere delle problematiche industriali del Paese, all’emergere di una competizione economica mondiale in cui la guerra economica, palese o coperta, diventa strumento della proiezione geopolitica e in cui la costruzione di “campioni nazionali” indipendenti risulta determinante come fattore di potenza è dunque lecito individuare quali siano le domande da cui partire prima di capire l’eventualità, o meno, di un ritorno in forze dello Stato nell’economia. Quali sono le lacune che tale intervento dovrebbe sanare? Si tratterebbe di operazioni meramente “emergenziali”, come sembrano avere in mente i governi italiani da Monte dei Paschi a Ilva, o del frutto di una autentica visione strategica? Con quale capacità un “nuovo Iri” (ci si passi il paragone) agirebbe nel contesto della competizione economica globale?
Iri si, Iri no. Due opinioni a confronto
Con queste premesse il dibattito è alzato di livello e inserito in un’ottica sistemica. In questa direzione vanno numerose pubblicazioni che nelle ultime settimane non sono mancate e hanno portato aria fresca alla discussione sul tema. Sul fronte degli scettici si è distinto un interessante articolo pubblicato da Francesco Bruno su Econopoly de Il Sole 24 Ore, mentre tra coloro che non hanno chiuso alla possibilità di uno “Stato-imprenditore” di ritorno è stato rilevante il contributo di Alessandro Aresu.
Bruno, in maniera pragmatica, critica l’intervento sul tema “nuovo Iri” del ministro Patuanelli in un post pubblicato su Facebook, ritenuto dal commentatore confusionario. “Non sono riuscito a comprendere quali dovrebbero essere le funzioni del soggetto pubblico evocato. In un primo momento il post menziona politiche di innovazione, facendo pensare ad investimenti pubblici in ricerca e sviluppo. Poi però si passa al desiderio di evitare shock al sistema produttivo e occupazionale, al green new deal ed infine ad una banca pubblica”. Scarsa chiarezza nella definizione degli obiettivi e tentativi acrobatici di un soggetto “pigliatutto” in cui far convergere la risposta a problematiche e esigenze diverse del sistema-Paese. Tale concezione, secondo Bruno, rischierebbe di accentuare la già esistenza tendenza del Mise a trasformarsi in un “comitato fallimentare” permanente per tutelare imprese in perdita. Più nebulosa è la parte dell’intervento in cui Bruno sottolinea la sostanziale convergenza tra impresa pubblica e privata: “si fa fatica a comprendere che non è dirimente il tipo di proprietà, pubblica o privata. Ciò che conta veramente è se l’impresa svolga la sua attività con criteri di governance societaria moderni e in un regime di mercato concorrenziale oppure se sia favorita (o danneggiata) dall’intervento pubblico”.
Ma lo “Stato-imprenditore” dovrebbe, in linea teorica, superare questa dicotomia basata unicamente sulla proprietà e supplire a esigenze strategiche capaci di trascendere i meri fini di profitto di breve termine. La Stet con le telecomunicazioni, l’Italstat in ambito infrastrutturale e la Finsider con l’acciaio sono esempi, in tal senso illuminanti. E su questo pensiero-cardine si innesta il ragionamento di Aresu.
In un’analisi pubblicata su Atlante,rivista di approfondimento della Treccani, Aresu ricorda come il fenomeno dello “Stato-imprenditore” descritto nell’analogo saggio di Marianna Mazzucato sia la norma nell’era contemporanea.
E, anzi, a ben vedere l’Italia si trova oggi nel mirino di tre tipologie di Stati di questo tipo: quello francese, primeggiante in Europa per “la vicenda di lungo corso della costruzione dello Stato francese attraverso corpi che prevedono una forte relazione tra pubblico e privato, tra le imprese e lo Stato; il ruolo militare della Francia, che è ben superiore rispetto a quello degli altri Paesi europei; il modo con cui la Francia ha razionalizzato i suoi strumenti di partecipazione nelle imprese”; quello cinese, la cui manifestazione è l’utilizzo dell’intervento pubblico e delle imprese di Stato da parte del Partito comunista come braccio armato per l’espansione geostrategica del Paese; infine, quello statunitense, la cui proiezione è sotto gli occhi di tutti con l’apparato mondiale del Pentagono e la ramificazione della rete a stelle e strisce e delle imprese del big tech, che hanno avuto a Washington il loro incubatore politico ed economico.
“In ogni caso, “piani” e “programmi” economici fanno pienamente parte della realtà internazionale. La differenza sta sempre nel modo con cui vengono attuati”, sottolinea Aresu. In che modo un Paese come l’Italia potrebbe dare seguito alle necessità della sua economia e rispondere alle domande che precedentemente ci eravamo posti? L’analista sardo ha provato a proporre una sua ipotesi in un’ulteriore pubblicazione per StartMag.
“All’Iri non è stato consentito di sopravvivere, snellito e ristrutturato, per custodire un grande patrimonio culturale e svolgere due compiti essenziali: la promozione e la connessione di una scuola di manager industriali; l’investimento in ricerca e trasferimento tecnologico”. Metaforicamente, di nuovi Iri ne servirebbero…tre, a certificare le principali funzioni che secondo Aresu l’intervento pubblico in economia dovrebbe espletare. Servirebbe un Istituto per il Rilancio dell’Innovazione, un Istituto per la Realizzazione delle Infrastrutture, un Istituto per il Rafforzamento delle Imprese. In altre parole, l’Italia potrebbe conoscere una nuova stagione di fioritura dell’economia a gestione pubblica ricostruendo un progetto nazionale ben definito.
Uno Stato artigiano e stratega
Le priorità del Paese sono fortemente mutate rispetto a quelle dei tempi del boom economico. Quell’Italia necessitava di infrastrutture di base, di costruire un tessuto produttivo funzionale allo sviluppo di un settore manifatturiero di livello mondiale, di procacciarsi conoscenze e materie prime necessarie al decollo del Paese. Ora serve padroneggiare la rivoluzione tecnologica e metterla al servizio del rilancio dell’Italia come grande Paese industriale, far fronte al deperimento delle infrastrutture per connettere con nuovo slancio l’Italia e evolvere i paradigmi dell’industria manifatturiera, promuovendo come punta di lancia le medie imprese e le multinazionali leggere. “Dovrebbero essere loro, con ogni mezzo, a essere sostenute per rafforzarsi, patrimonializzarsi, aggregarsi, crescere e comprare all’estero”. A questi temi andrebbe aggiunta la necessità di sfruttare la transizione energetica e ambientale, sostenendola con l’innovazione per inserirla con gradualità e rigore nel tessuto produttivo italiano. Funzioni chiare, precise e ben definite: non il partito pigliatutto di Patuanelli (che pure individua nell’innovazione una sfida chiave), non il semplice prolungamento della Cassa Depositi e Prestiti (con la quale concordare sinergie e perimetri di competenze) ma nemmeno il buco nero divoratore di fondi pubblici temuto dai liberisti più accesi. Uno Stato-imprenditore capace di farsi “Stato-artigiano” e “Stato stratega” dandosi strumenti per promuovere questi obiettivi ben precisi.
Il caso Ilva, ad esempio, difficilmente sarebbe risolto da un semplice cambio dell’assetto azionario a favore di una cordata avente al suo interno un investitore controllato dallo Stato. Esiste la necessità di pensare a livello sistemico e programmare il futuro: le funzioni sopra citate potrebbero tornare utili se lo Stato, per citare un esempio di iniziativa concreta, ipotizzasse il rilancio del polo produttivo di Taranto nel contesto del promettente settore dell’economia circolare.
“La sfida è quella di iniziare un’operazione di riconversione articolata che punti a recuperare una produzione efficiente di acciaio ma ridimensionando il sito (e bonificandolo), costruendo una nuova catena a monte. L’obiettivo è trasformare l’Ilva nella piattaforma italiana (e del sud Europa) di economia circolare per alcuni ambiti oggi non affrontati che richiedono interventi di scala”, ha scritto l’analista e consigliere regionale dell’Emilia Romagna Gianni Bessi, ponendo in evidenza una possibile discontinuità in cui un soggetto con le caratteristiche tratteggiate da Aresu avrebbe buon gioco a intervenire concretamente. Senza la necessità e gli esborsi richiesti per un intervento di nazionalizzazione, senza la totale occupazione delle quote azionarie ma con un vero e proprio golden power operativo l’Italia potrebbe ottenere dividendi proficui dal problematico e potenzialmente rovinoso caso tarantino.
Innovazione, cultura manageriale adatta alle nuove sfide e cura delle infrastrutture sensibili (produttive e logistiche) sarebbero in questo contesto i capisaldi a cui prestare attenzione. Così come in analogo modo contribuirebbero ad ampliare la visione sul settore sensibile delle telecomunicazioni. Così come Ilva, anche su Telecom Italia si è scatenata una gara geoeconomica coinvolgente Paesi stranieri interessati ad aumentare la propria proiezione nell’economia italiana. La Francia, attraverso Vincent Bolloré e Vivendi, è in questo caso intenta in un braccio di ferro con gli Stati Uniti impegnati attraverso il Fondo Elliott. Nonostante tutto, attraverso Sparkle, la Telecom gestisce e costruisce ancora una rete significativa e strategica di cavi sottomarini di telecomunicazione. Con il piccolo dettaglio della perdita del controllo strategico sul sistema Tlc. Compattare Telecom Italia e Open Fiber, come recentemente proposto in Parlamento da Fabio Rampelli (Fdi) sarebbe il primo, necessario passo per far tornare competitiva Roma in un settore cruciale per gli scenari futuri dell’economia mondiale. Con l’incipiente rivoluzione del 5G, con l’apertissima partita dei cavi sottomarini e lo scontro Usa-Cina sullo sfondo, avere un vettore capace di permettere al Paese di giocare da entità sovrana la partita delle Tlc è interesse nazionale non secondario.
Per entrambi questi i casi, l’intervento di un agile e dinamico ente pubblico capace di coordinare la politica industriale, fungere da camera di compensazione tra interessi privati e priorità pubbliche e rafforzare l’innovazione di filiera risulterebbe potenzialmente risolutore. Al termine della nostra analisi, andando oltre slogan e pregiudizi, abbiamo dunque cercato di proporre soluzioni realistiche e cambi di paradigma, ora più che mai vitali per un Italia poco attenta a recepire le evoluzioni geoeconomiche del contesto politico internazionale. A credere al dogma della libertà e della razionalità dei mercati con maggior entusiasmo dei Paesi di taglia comparabile, dimenticando al contempo come siano i rapporti di forza a determinare le capacità di proiezione economica di un sistema nazionale. Serve dunque tornare a fare vera politica. A pensarsi parte di una costruzione politica, economica e sociale con interessi comuni da preservare. Tra cui va annoverato il mantenimento dell’Italia nel club dei grandi Paesi industriali. Messa a repentaglio da errori palesi, mancanza di lungimiranza e da una crescente, e pericolosa, indifferenza verso i beni comuni di primaria importanza.
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