L’Unione Europea alla prova della globalizzazione
Con piacere presentiamo oggi un contributo sul rapporto tra l’Unione Europea e la globalizzazione che inaugura un dossier tematico di un nostro nuovo e abile collaboratore, Marco D’Attoma. Buona lettura!
Le aggregazioni umane nel corso della storia hanno sempre portato ad un ingrandimento delle società, in qualcosa di sempre più grande: questi nuovi assetti delle società spesso sono significati la vita di molte persone, ma al tempo stesso hanno portato ad una maggior stabilità e una maggior facilità di amministrare un territorio sempre più grande. A partire dal XIX secolo la società umana si è vista più legata in un unico insieme, in particolare dopo la Seconda guerra mondiale: questo è stato dovuto alla nascita di organizzazioni internazionali con sempre maggiori competenze, ma anche dall’emergere di preoccupazioni comuni che hanno creato delle responsabilità condivise, ad esempio come nella questione ambientale. Questo fenomeno è stato indicato col termine di globalizzazione che potremmo definirlo come una diffusione interplanetaria dei rapporti interpersonali. La globalizzazione si è sviluppata in diverse forme, ad esempio sotto l’aspetto legale, politico o commerciale. Per quanto riguarda l’ultimo aspetto, probabilmente l’apice di questo sviluppo si è avuto con la nascita del WTO, l’organizzazione internazionale che oggi è più messa in discussione dalla Comunità internazionale stessa.
L’aspetto più importante di questo fenomeno globale è il libero commercio, che stando alle interpretazioni di alcuni economisti dovrebbe portare pace e ricchezza nel Mondo. Probabilmente sarebbe così se vi fossero regole internazionali condivise e vincolanti, ma purtroppo così non è. Questo porta alla creazione di un sistema globale asimmetrico dove ognuno può decidere quali regole rispettare e quali no, e quindi diritti sociali e ambientalismo diventano solo una opzione di scelta, dove chi adotta regole sociali e ambientali, che vanno a favore dell’intero sistema globale, avrà maggiori svantaggi, perché più regole ovviamente portano a più costi per le imprese. Un esempio di tutto ciò, nonché una delle maggiori motivazioni che mi ha spinto a riflettere su questo argomento, riguarda un’impresa che si trova al culmine dell’agenda politica italiana, ovvero l’ILVA. L’impresa, nota maggiormente per i danni arrecati alla salute dei cittadini tarantini, si è trovata proprio ingabbiata tra le maggiori incognite della globalizzazione, ovvero tra competizione e ambientalismo.
A rischio non c’è solo il futuro dell’impresa, ma dell’intera città di Taranto, fortemente dipendente dalla produzione dell’acciaio dell’ILVA. A minare le sorti dell’impresa non è una questione legata alla produttività, anche perché l’ILVA è il secondo impianto d’Europa per produzione d’acciaio, ma è una questione legata all’inquinamento ambientale: da un lato vi è la necessità di garantire il diritto alla salute, costituzionalmente garantito dall’art. 32 della nostra Costituzione, dall’altro vi è il diritto al lavoro riconosciuto dall’art. 4 della stessa. Il rispetto delle regole ambientali impone dei costi troppo esigenti di cui nessuno sembra voler farsi carico, né a livello pubblico, né tantomeno a livello privato, portando ad una enorme fase di incertezza sul piano sociale, economico e politico. La scelta politica ricade tra garantire il diritto alla salute o garantire il diritto al lavoro.
Tra le maggiori cause che provocano le crisi aziendali di imprese di grandi dimensioni rientrano le parole competitività e delocalizzazioni, che sono figlie di un fenomeno più grande e pervasivo, cioè della globalizzazione.
Il periodo storico nel quale sono emerse le maggiori contraddizioni della globalizzazione è stato quello a ridosso della crisi finanziaria internazionale iniziata nel 2008. Nei Paesi occidentali, tra cui i Paesi appartenenti all’area dell’Unione Europea, a subire maggiormente il peso della globalizzazione è stata la classe media, la parte più operosa della società, che trovandosi tra incudine e martello ha visto un progressivo impoverimento ed una perdita dei diritti e delle garanzie ottenute in passato. Le delocalizzazioni e la concorrenza spietata dei Paesi extraeuropei non hanno fatto altro che accentuare questo fenomeno, e la mancanza di una regolamentazione internazionale riguardo le imprese multinazionali ha accentrato un grande potere nelle loro mani, e un depauperamento delle forze in mano ai lavoratori ed ai loro rappresentanti.
Mentre da un lato la globalizzazione ha significato, già dopo la Seconda guerra mondiale, una tendenza di integrazione regionale ed internazionale, d’altro lato il liberismo ha concesso alle imprese dei Paesi occidentali di guardare ai Mercati esteri per la produzione. Le continue relazioni con le aree in via di sviluppo hanno permesso una certa emancipazione di questi Paesi, che da essere meri ospiti di imprese straniere e distributrici di risorse, hanno cercato di captare quanto più possibile il know-how delle multinazionali occidentali, ed oggi vantano di possedere la leadership di produzione in molti settori tecnologici e strategici. Il tutto accentuato dal fatto che in Paesi, che erano economie in via di sviluppo, e che oggi sono economie affermate, vi sono condizioni favorevoli per le imprese locali legate a tassazioni di favore, leggi poco esigenti sotto l’aspetto di sicurezza sul lavoro, salari molto più bassi rispetto a quelli dei lavoratori occidentali, standard produttivi inesistenti ed emissioni di gas inquinanti, che permettono alle imprese di produrre a bassi costi e con ritmi produttivi esasperati rispetto a quelli delle imprese occidentali.
A subire i danni di questi trattamenti di favore da parte dei Paesi che un tempo costituivano il Terzo Mondo non sono solo i lavoratori locali in termini di diritti e sfruttamento, ma i loro omologhi nei Paesi occidentali: l’unico modo che le grandi imprese occidentali hanno per restare competitive a livello globale consiste in una riduzione dei costi aziendali attraverso una compressione dei salari e del personale, oppure effettuando l’offshoring verso mete più vantaggiose, che comunque porterà ad una compressione dei posti di lavoro in occidente, e spingerà la forza lavoro in cerca di occupazione ad accettare lavori a condizioni sempre più svantaggiose.
Paradossalmente oggi, quelli che erano i maggiori promotori della globalizzazione, dell’abolizione dei confini doganali, dell’esportazione esasperata di beni e servizi, sono proprio coloro che stanno mettendo sotto accusa questo sistema, minacciando addirittura la fine dell’organizzazione internazionale che più ha rappresentato questo processo, ovvero il WTO.
Spesso si è accusata l’Unione Europea di essere una organizzazione internazionale improntata esclusivamente sui principi liberisti, ma proprio questa organizzazione pone come uno dei principi cardine del proprio funzionamento il principio di solidarietà. L’applicazione di tale principio è stata ricorrente lungo tutta la storia dell’Unione Europea, partendo dal Trattato di Roma, passando per la Carta comunitaria dei diritti sociali fondamentali dei lavoratori, fino ad arrivare alla Carta di Nizza. Un altro strumento che vede l’applicazione di questo principio è il Fondo europeo di adeguamento alla Globalizzazione, o più semplicemente il FEG, istituito nel 2006 con l’obiettivo di sostenere i lavoratori che perdono il proprio impiego a causa della globalizzazione e delle trasformazioni della struttura del commercio internazionale, di cui si avrà modo di fornire una analisi più approfondita negli articoli seguenti.
La globalizzazione ha eroso le vecchie certezze facendo emergere nuovi timori, e proprio sulla base di queste incertezze che sono intervenute le istituzioni europee con la creazione del FEG, al fine di sostenere e supportare quei lavoratori che hanno perso il loro posto di lavoro a causa delle distorsioni provocate dal libero commercio.
La globalizzazione ha portato ad una redistribuzione dei poteri riducendo la forza coercitiva della sfera pubblica, ed aumentato al contempo l’autonomia e la prepotenza dei poteri privati: questo senza che vi sia stata alcuna decisione, consenso o concettualizzazione della distribuzione dei poteri.
In questa prospettiva il diritto del lavoro dei sistemi occidentali gioca un ruolo sempre più marginale. Le istituzioni europee comunque hanno cercato di creare degli anticorpi a queste problematiche, che in alcuni casi non sono stati efficaci, ma quantomeno possono essere considerati dei buoni punti di partenza per salvaguardare il nostro sistema.
- L’Unione Europea alla prova della globalizzazione.
- La flexicurity come nuovo paradigma europeo del lavoro.
- Prospettive e obiettivi del Fondo europeo per l’adeguamento alla globalizzazione.
- L’Unione Europea e la sfida delle delocalizzazioni industriali.
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