Raniero Panzieri, i “Quaderni Rossi” e la nascita del neomarxismo italiano
La figura di Raniero Panzieri ci conduce a mettere in luce le radici del neomarxismo italiano. Personaggio controverso, è stato uno dei principali esponenti di una delle maggiori esperienze teoriche del nostro Paese. Fondatore dei Quaderni Rossi e principale esponente dell’operaismo italiano, nasce nel 1921 a Roma e muore nel 1964 a Torino.
Occorre soffermarsi brevemente sulla sua vita. Laureatosi, ottiene una cattedra presso l’Università di Messina, ove intraprende un’impegnata attività militante fra le fila del Partito Socialista Italiano, divenendone dirigente locale. Sono infatti molteplici i settori di lotta che lo vedono protagonista: dalle occupazioni delle terre agli scioperi presso le miniere di zolfo. Attività militante che, però, lo porterà ben presto a terminare la sua carriera accademica[i]. L’università infatti lo escluderà dall’insegnamento alla luce del suo impegno politico. Conclusa tale fase, Panzieri si trasferirà a Roma. Nella capitale continuerà il suo lavoro da dirigente del partito, divenendo poi co-direttore della rivista Mondoperaio, organo ufficiale del Psi il cui direttore era Nenni. Tutto cambierà in occasione del congresso del ’57. È in tale momento che Panzieri evidenzierà le contraddizioni e le criticità di quest’ultimo.
Si giunge così alla fondazione dei Quaderni Rossi, i quali daranno vita ad una fase inedita nella quale occorre evidenziare l’ampia portata rivoluzionaria sia in termini teorici che pratici.
La sua vita, seppur breve, è caratterizzata da decisioni radicali e prese di posizione nette che, in nome di una coerenza di impianto teorico e politico, lo hanno condotto a vivere momenti di crisi e di rottura. Trattasi di decisioni assunte sempre a favore degli ultimi, i quali hanno in qualche modo condizionato il corso delle sue vicende personali. Le lotte contadine, gli scioperi operai nelle fabbriche[ii] e con i minatori in Sicilia evidenziano lo stretto legame fra Raniero Panzieri e la classe lavoratrice. Legame che, se da un lato ha conferito all’autore la lucidità necessaria per elaborare le analisi che noi oggi ereditiamo, dall’altro ha rappresentato per lui un impedimento in termini professionali. Sono infatti numerosi i lavori che non gli verranno pubblicati. In particolare, quello che verrà poi ricordato come il “caso Foffi” (in quanto elaborato da Goffredo Foffi e commissionato a Panzieri), relativo ai processi di migrazione interna che la Einaudi rifiuterà[iii] in quanto contenenti forti elementi di critica nei confronti della Fiat e di altre strutture di potere.
Per comprendere meglio le caratteristiche di questo autore, le sue sfumature e le sue evoluzioni, è utile sottoporre alcune domande a Marco Cerotto autore del libro “Raniero Panzieri e i Quaderni Rossi. Alle radici del neomarxismo italiano” edito da DeriveApprodi.
Sappiamo che il 1956 ha rappresentato un anno di svolta. In particolare, questo è l’anno del 20° congresso del PCUS, nel quale Kruscev elabora il famoso rapporto segreto sui crimini dello stalinismo. Dunque è l’anno nel quale si determina un ribaltamento del paradigma fino ad allora dominante. In tale contesto, il Psi reagirà in un primo momento con un tentativo di dibattito interno che culminerà poi con l’apertura ai governi di centro-sinistra, mentre il Pci si mostrerà imbarazzato nel gestire tale fase, procedendo così ad una lenta de-stalinizzazione. Fra questi due poli vi è Raniero Panzieri. Il quale adotterà una prospettiva differente, individuando in tale fase le basi per l’emersione di qualcosa di nuovo. In cosa consiste tale rinascita?
Questa è una domanda che ci consente di introdurre al meglio la singolare figura di intellettuale-militante di Raniero Panzieri. C’è chi infatti comprende l’attività panzieriana del post-’56 come una «rivoluzione epistemologica». Credo sia importante precisare, invece, che Panzieri, nonostante fosse coerentemente inserito negli sviluppi politici del suo tempo, in quanto dirigente socialista, si collocava in una posizione piuttosto dissonante rispetto alla maggioranza degli intellettuali marxisti del dopoguerra. La crisi teorico-politica sofferta dal movimento operaio italiano aveva un’origine anteriore al 1956, e Panzieri è uno dei pochi a tentare di avviare una discussione propedeutica al superamento della logica zdanoviana e staliniana del partito-guida durante l’attività culturale condotta tra le pagine dell’ «Avanti!» e di «Mondo Operaio». Certamente, il «trauma del ’56» ebbe il merito di non trascinare i cosiddetti “marxisti critici” in quel vuoto storico in cui si trovarono i dirigenti dei partiti di sinistra (i quali fornirono risposte e soluzioni divergenti), ma anzi concorse a sollecitare un totale ripensamento, in termini teorici e in prospettive politiche, per iniziare una storia nuova. Inoltre, è importante aggiungere che prima del XX° Congresso, in Italia si era già verificato il “nostro indimenticabile ’55”, come lo definisco. Ovvero la sconfitta storica della Fiom alla Fiat neocapitalista. Insomma, il biennio critico 1955-56 pone delle questioni teorico-politiche all’interno dell’ambiente del marxismo italiano che richiedevano urgentemente essere approfondite. Ecco, credo che il merito principale di Panzieri sta qui. Ovvero, propone una lettura diversa delle recenti trasformazioni strutturali e sovra-strutturali dell’Italia neocapitalista, avendo lucidamente l’obiettivo politico di avviare una strategia di lotta seriamente anticapitalistica, trascinando però le organizzazioni storiche del proletariato italiano (in particolare il sindacato della Cgil) in questa inversione di rotta.
Nelle opere dell’autore ricorre spesso il tema dei “consigli” (di fabbrica,ndr), i quali vengono evidenziati come il vero fulcro della democrazia. Concetto, questo, che è spesso accompagnato da quello dell’autorganizzazione operaia.
In che modo vanno intesi questi due concetti e qual è la relazione che intercorre fra di essi?
Se è vero che è in corso una riscoperta panzieriana nell’ultimo periodo, che spero possa inaugurare una stagione di confronti e dibattiti funzionali alla discussione delle tematiche elaborate dal Socrate socialista negli anni del boom, le quali necessitano ancora una chiarificazione, ciò che invece resta indissolubilmente una certezza è l’enorme peso della tradizione consiliare sul suo pensiero politico. Panzieri è andato a scuola di consiliarismo, studiando e analizzando le diverse esperienze dei decenni passati: dai soviet ai consigli e fino agli arbeiträte spartachisti. Questa domanda è interessante perché si propone di approfondire un aspetto teorico di Panzieri meno discusso, ossia l’evoluzione del suo pensiero politico. Negli anni del dopoguerra, il dibattito marxista italiano era dominato dalla vexata quaestio concernente la dialettica liberalismo-socialismo, e quindi dalle indagini di una possibile continuità storica tra la democrazia liberal-borghese e quella socialista. Panzieri prendeva le distanze dagli altri intellettuali marxisti, impegnati a ricercare le eredità positive del liberalismo per una coerente affermazione del socialismo, rifiutando la concezione dogmatica del socialismo come meta finale di un processo deterministico. La democrazia socialista, sulle tracce di Galvano Della Volpe, risultava essere completamente antitetica alla democrazia borghese e il nesso dialettico che si instaurava tra i due termini si rivelava di mutua esclusione e non come superamento positivo.
Perciò, come giustamente scrivi, nella prospettiva dei consigli risiede il “vero fulcro della democrazia”. Siffatta concezione si allontana vertiginosamente da quella social-comunista, la quale persegue faticosamente la strategia parlamentare della “via italiana e democratica al socialismo”. Nonostante Panzieri abbia sempre riconosciuto l’importanza che rivestono le libertà moderne liberali, il Parlamento e la Costituzione, contrariamente a quanto voglia una determinata tradizione storiografica che lo taccia di anarco-sindacalismo, è però utile enfatizzare la critica panzieriana agli istituti della democrazia borghese: il Parlamento risulta come il luogo all’interno del quale vengono rettificate meramente delle scelte politiche, mentre nelle grandi fabbriche vengono assunte aprioristicamente le decisioni economico-sociali, le quali servono a stabilizzare il potere del sistema capitalistico. Il tema del controllo operaio è quindi sempre presente in Panzieri, soprattutto quando comincia ad affermarsi inoppugnabilmente la soluzione riformista dei due partiti di classe. La soluzione consiliare emerge già in qualche scritto del post-’56, ma ha sicuramente un’eco enorme con la pubblicazione delle Sette Tesi (1958).
Con i «Quaderni rossi» resterà una costante soluzione politica, la quale rispondeva però alla questione del “che fare” e non del “come fare”. Per questo credo che la relazione che si instauri tra l’autorganizzazione e i Consigli, che tu intelligentemente poni, e mettiamoci anche il tema della “democrazia operaia”, possa essere individuata nella indicazione politica che Panzieri propone all’ambiente del marxismo italiano, la quale rincorreva l’obiettivo di riavvicinare concretamente l’organizzazione con la classe (la nuova classe operaia). Ovvero, Panzieri proponeva la strategia della «avanguardia interna». Detto brevemente, la sua intenzione era quella di costruire una prospettiva anticapitalistica in fabbrica attraverso la costituzione di una «avanguardia interna», e quindi appartenente essa stessa alla classe. E qui ritorna la sua concezione, mutuata da Rodolfo Morandi, del partito-strumento (in antitesi con quella terzinternazionalista del partito-guida). La democrazia socialista, secondo Panzieri, deve essere instaurata nei luoghi del lavoro, poiché la classe operaia deve dimostrare la «capacità di esercitare una funzione dirigente all’interno delle strutture della produzione», come chiariscono Panzieri e Libertini nella terza tesi «Il proletariato educa se stesso costruendo i suoi istituti».
Panzieri è un uomo di partito. È un dirigente. Eppure il paradigma che egli configura rompe con i precedenti schemi. È chiara la sua volontà di dare vita ad un’inedita concezione del partito, del sindacato, della fabbrica. Tutti strumenti, questi ultimi, che nella sua ottica devono essere al servizio della classe lavoratrice. E dunque, in vista di tali finalità, occorre che questi intraprendano un processo di democratizzazione interno. Oggi siamo spesso abituati a facili polarizzazioni fra “partitisti” e “movimentisti”: al netto di queste diffuse distinzioni, come si può spiegare il paradigma di Panzieri in tali materie?
Credo che questa sia la domanda più interessante, non per sminuire le altre. Ma questi interrogativi pongono intelligentemente, non solo il tentativo di comprendere l’attività panzieriana e le conseguenti scelte politiche di quel tempo, ma sopratutto hanno il grande merito di proiettarlo negli sviluppi contemporanei. È vero, Panzieri è un “uomo di partito”. Questo particolare viene dimenticato da molti, soprattutto quando si tenta di rintracciare l’eredità di Panzieri nella sinistra extraparlamentare (che sicuramente trova in Panzieri un valido punto di riferimento). Ma parlare di una dialettica tra “partitisti-movimentisti” equivale a forzare eccessivamente ogni valido ragionamento su Panzieri. Il compito principale che si propone Panzieri quando fonda a Torino nel 1961 i «Quaderni rossi» è quello di riempire quel vuoto – inabissatosi terribilmente – tra le organizzazioni di classe e la nuova classe operaia forgiata dal neocapitalismo: i Qr come trait d’union tra l’organizzazione e il proletariato industriale del miracolo economico italiano. Fuori da questo paradigma, l’operazione panzieriana crolla immediatamente. E si veda infatti la rottura con Tronti. È risaputo come i principali critici panzieriani gli attribuiscano una certa impasse nel periodo che precede la sua improvvisa scomparsa, la cui crisi gli impedisce di sviluppare le recenti e proficue analisi sul neocapitalismo. Questa è una considerazione che va discussa urgentemente. Ma qui non entro nel merito (per mancanza di spazio comprensibilmente). Mi limito a rispondere con l’osservazione che hai posto: Panzieri è un uomo di partito e si rifiuta categoricamente di orientarsi alla fondazione di un’organizzazione nuova, fuori dal movimento operaio. Sono state poste alcune perplessità sulle eventuali scelte panzieriane nel 1964: avrebbe voluto aderire alla scissione di sinistra del Psi (Psiup)? Avrebbe voluto proseguire il lavoro teorico e politico con i «Quaderni rossi»? Non possiamo dare una risposta definitiva a questi interrogativi che assillano inevitabilmente chi studia Panzieri. Ma sicuramente Panzieri era tormentato dal “che fare” in quella fase storicamente determinata, convinto oramai che la situazione sarebbe rimasta ancora a lungo immutata. Ma poi scoppiò il ’68 e con esso il lungo decennio italiano. Ma Panzieri era morto già da quattro anni. Certamente, è importante sottolineare, così come fai tu, che aveva maturato un’idea di partito (già dall’esperienza siciliana e grazie al peso dell’eredità morandiana) e dell’organizzazione operaia tout court, in sintonia con le analisi scientifiche sulla recente evoluzione del modo di produzione e dell’organizzazione produttiva delle grandi fabbriche, che lo elevava a precursore di una Nuova Sinistra (italiana ed europea), tuttavia non circoscrivibile in alcuna esperienza che ai posteri è già nota. Certo, la storia non si concretezza con i “se” e con i “ma”, eppure la domanda sorge spontanea a chi si approccia a studiare Panzieri: che posizione avrebbe preso durante l’exploit del lungo ’68 italiano?
Questa risposta mancata potrebbe lasciare uno spazio ancora da riempire nel vuoto storico della nostra contemporaneità. E quindi la domanda che preferisco è un’altra, anzi me ne vengono in mente due: come si può pensare Panzieri nell’evoluzione dei processi sociali del nostro presente storico? Resta un punto di riferimento fondamentale per ripensare allo sviluppo di una nuova sinistra libera dalle pesanti dispute ideologiche del passato?
Con operaismo si intende un’esperienza che individua diverse figure intellettuali come suoi principali esponenti. Fra di essi vi è Raniero Panzieri. Non si può però non menzionare autori altrettanto rilevanti quali Mario Tronti e Toni Negri, giusto per citare quelli più noti.
È corretto affermare che ognuno di questi tre personaggi rappresenta una fase differente dell’operaismo italiano? Cosa caratterizza l’evoluzione dell’esperienza operaista nel suo complesso?
È corretto affermare che i tre intellettuali da te giustamente citati incarnano dei momenti differenti della florida stagione operaista italiana, e che tutti e tre, in modo diverso, pongono delle questioni teorico-politiche fondamentali e molte delle quali ancora irrisolte. Anzitutto, credo sia giusto parlare di “operaismi”, in quanto li caratterizza una eterogeneità di esperienze teoriche e politiche. Quindi, focalizzerei l’attenzione sulle diverse tradizioni politiche e culturali, ad esempio tra i protagonisti dei Qr Tronti e Panzieri. La domanda perciò potrebbe orientarsi a capire come si siano ritrovati due intellettuali con due storie decisamente diverse, ovvero indagare sulle comuni necessità che si proponevano di approfondire in quel periodo storico di transizione, come appunto i primi anni Sessanta.
Giungendo all’ultima domanda, e quindi avviandomi alle conclusioni, devo confessare che ho studiato un bel po’ di materiale, anche piuttosto recente, sulle diverse esperienze operaiste. Emergono dei punti di straordinario interesse per ulteriori approfondimenti teorici, tuttora attuali, i quali rinviano necessariamente ad uno studio più ampio e non circoscritto prettamente all’ambito italiano. Ad esempio, la fase che sancisce il passaggio dal primo al secondo operaismo, con la rottura tra Panzieri e Tronti, si afferma la necessità di indagare sulle irreversibili dissonanze teoretiche tra la “rivoluzione copernicana” di Tronti e l’elaborazione dell’ultimo Panzieri, come Plusvalore e Pianificazione (Qr n. 4, 1963) e Uso socialista dell’inchiesta operaia (Intervento pronunciato al seminario di Torino nel 1964, riportato postumo nei Qr n. 5, 1965); e ancora, per quanto concerne la rottura del secondo operaismo di «Classe operaia» tra Tronti e Negri, viene sottolineata una distanza importante che separa due figure così diverse dell’operaismo italiano, ruotante attorno alla dialetticità del soggetto, per Tronti che promuove la manovra all’entrismo, e l’ontologizzazione della soggettività, per Negri che oramai si orienta alla fondazione dell’organizzazione politica «Potere Operaio» (1967). Sicuramente, per la complessità del pensiero teorico e politico di questi neomarxisti italiani, non mancheranno ulteriori discussioni orientate allo studio delle innumerevoli tematiche da loro modernamente – e marxianamente – sviluppate. Tuttavia, se consideriamo che la rottura tra Panzieri e Tronti è condizionata fortemente da una lettura dissonante sui fatti di luglio 1962 (piazza Statuto), mentre la scelta negriana è motivata invece da una lettura divergente rispetto a quella di Tronti sugli eventi anticipanti il ’68, allora potremmo volgere l’attenzione su un aspetto altrettanto interessante.
Ossia, se gli eventi di Genova 1960 e quelli di piazza Statuto 1962 avevano determinato il corso teorico-politico operaista prima dei «Quaderni rossi» e poi di «Classe operaia», furono ancora una volta i nuovi cicli di lotte operaie a condizionare quella che risulta essere l’ultima esperienza dell’operaismo italiano. Le esplosioni degli eventi internazionali e l’inedito incontro delle masse studentesche con quelle operaie sancirono definitivamente una nuova e importante tappa nella corrente neomarxista, la quale tentò di risolvere il nodo irrisolto dell’operaismo italiano, ossia quello dell’organizzazione, respingendo sia la tesi panzieriana dell’«avanguardia interna» al sindacato, sia quella trontiana sul condizionamento del Pci, avanzando invece la necessità di una nuova formazione rivoluzionaria. In definitiva, l’analisi dei fatti storici provocati da quegli stessi soggetti trasformati e trasformanti risulta quindi aver assunto un’importanza decisiva per i risvolti teorico-politici che hanno condizionato la storia del movimento operaio, soprattutto nei paesi dove si ricercava faticosamente la via per il socialismo affrontando un elevato grado di maturità capitalistica. Una dialettica pensiero-storia che ha certamente influenzato le scelte di quegli intellettuali-militanti che erano fortemente impressionati dalle possibilità storiche apertesi con il neocapitalismo, le quali richiedevano «pazienza della ricerca e urgenza della risposta».
[i] Se è vero, per una parte, che fu escluso essenzialmente per le dissonanze politiche, è anche vero, per un’altra, che nel 1950, come ben sai, il mondo – e quindi anche l’ambiente accademico – era diviso tra liberali (e democristiani) e socialisti e comunisti. Il motivo dell’esclusione ruota attorno alla “pregiudiziale” militante-socialista di Panzieri, ma cela un difficile rapporto con il cosiddetto “barone” liberale Gaetano Martino; quasi personale. E Panzieri non era certamente un “classico” intellettuale marxista con inclinazioni liberali, che riusciva a concludere dei facili compromessi.
[ii] Si tratta di occupazioni delle terre (in Sicilia). Le occupazioni delle fabbriche si verificheranno soltanto nel biennio rosso 1968-69 (con l’Autunno caldo) e con qualche singolare anticipazione dei prodromi sessantottini durante il 1967. Ma Panzieri era già morto.
[iii] Si trattava infatti di un lavoro non suo, ma svolto da Goffredo Fofi e commissionato dallo stesso Panzieri. Passerà alla storia come il “caso Fofi” (c’è un’interessante testimonianza piuttosto recente su “L’Espresso” proprio di Fofi). L’Einaudi rifiutò di pubblicare questo lavoro giudicandolo “sociologicamente inadeguato”, ma in realtà celava un rapporto molto intimo con la Fiat, la quale più volte concorse a salvare – economicamente parlando – l’Einaudi. Un lavoro sull’indagine degli operai giovani-emigrati dal Sud (non solo ruotante attorno alla vita dell’officina, ma soprattutto fuori) avrebbe compromesso seriamente il rapporto tra l’Einaudi e la Fiat.
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