Entropia. Per una geopolitica del presente
Dopo dieci anni di studio delle questioni della geopolitica, dell’economia internazionale e delle strategie (militari e non) scelte dalle potenze, mi rendo conto sia ormai giunto il tempo di fare un primissimo bilancio, di vedere quali analisi e previsioni avessi “azzeccato” e quali no, di fare una verifica dell’utilità del metodo geopolitico per descrivere il presente e provare a divinare il futuro.
Già, divinare: non esiste alcun metodo scientifico per prevedere il futuro del mondo e dei singoli attori politici. Tecnologia, dati e algoritmi ci illudono di aver trovato il Sacro Graal, fino a quando non ci rendiamo conto che dover elaborare sistemi di calcolo sempre più complessi e raffinati che ingoino e digeriscano moli di dati sempre più considerevoli serve solo ad aumentare la complessità e non certo a diminuirla. È il paradosso delle cartine in scala 1:1: solo una mappa grande esattamente come il territorio che deve rappresentare è perfettamente precisa, ma è anche perfettamente e paradossalmente inutile. Ogni modello esplicativo include una semplificazione che lo rende per sua natura impreciso. Non ci resta che provare a individuare tendenze, consci del fatto che, qualora dovessimo centrarle tutto sembrerà così facile ed evidente al senno di poi. Illusoriamente, le previsioni di sventura sembrano le più facili (si pensi alla celebre battuta del Nobel per l’economia Paul Samuelson: “Gli indici di Wall Street hanno previsto nove delle ultime cinque recessioni”) sempre al solito senno di poi, ma guarda caso sono anche quelle che nessuno vuole ascoltare.
Il metodo che chi scrive preferisce è sempre geopolitico, data la sua interdisciplinarità, la capacità di mettere a fattor comune la politica, le arti militari, l’antropologia, l’economia e soprattutto la storia e la geografia. Nel 2017, con Il Caos Globale, individuavo la tendenza del sistema politico ed economico mondiale verso il caos. Il mondo di oggi non sembra quello dell’equilibrio bipolare del post-Seconda Guerra Mondiale, meno che mai il mondo che, per relativamente pochi anni, ha visto un unico egemone, ma nemmeno ricorda il mondo ottocentesco dell’“ecologia delle potenze”, dei congressi di Vienna e delle conferenze di Berlino auspicato da Kissinger. Ricorda, ci si perdoni l’anacronismo – ma si apprezzi la metafora! – il sistema degli stati italiani rinascimentali, o dell’Europa pre-westfaliana: un bellum omnium contra omnes, un conflitto permanente per potere e risorse combattuto con ogni mezzo (la differenza manualistica tra guerra simmetrica e asimmetrica risulta ormai obsoleta e artificiosa) e, il dato peggiore, nel quale i contendenti a stento si riconoscono legittimità e dignità di competitore (quel che almeno vigeva tra gli stati post-westfaliani: il riconoscimento reciproco tra nemici). Riconosce forse la Federazione Russa la statualità dell’Ucraina? Non più di quanto abbiano fatto gli USA con la sovranità dell’Iraq. Hanno atteso gli USA il via libera del Consiglio di Sicurezza dell’ONU quando si trattò di bombardare la Jugoslavija nel ’99? Non più di quanto la Federazione Russa fece con la Georgia nel 2008. Jus in bello, jus ad bellum, justus hostis: tutti concetti in via di sparizione, con potenze “superiorem non recognoscens”. La pianto col latino, promesso: è la lingua del diritto, e il diritto internazionale sembra non vivere il suo momento migliore.
Quella tendenza venne dunque individuata correttamente. Nel 2018, con “La Guerra Fredda non è mai finita” (scritta con l’amico Stefano Cavedagna) ho provato a fare un passaggio ulteriore: provare a mettere ordine nel caos ricostruendo la strategia della principale potenza globale del Novecento (e del secolo in corso), gli Stati Uniti d’America. Quali sono le linee strategiche di Washington dal 1945 ad oggi?
Idealmente, quel libro si ricollega all’ultimissimo, “Afghanistan: il ritorno dei talebani”, del settembre 2021, dove tentavo di ricostruire le motivazioni del ritiro di Washington da Kabul: una pura disfatta, una lucida strategia o una situazione più sfumata, in cui rileviamo pezzi di entrambe? Nel 2018, proponevo un testo di carattere più generale, “Geopolitica, storia di un’ideologia”, dove mi occupavo generalmente dalla disciplina per meglio definirla.
A livello giornalistico, il termine “geopolitica” è usato come sinonimo di “politica internazionale”, quando in realtà è solo uno degli angoli della medesima: è la disciplina che studia la relazione tra potere e spazio geografico. È quindi un sistema di idee (un’ideologia, per l’appunto) un sistema che include narrazioni, immaginazioni dello spazio e del potere e del potere nello spazio e nel tempo, una parte della cultura dei popoli. Descritto il caos, ho provato dunque a cercare un ordine, un senso. Con il testo che avete tra le mani provo a trarre una conclusione a questo percorso: l’entropia, cioè (mi perdonino gli studiosi di fisica, ma si apprezzi la metafora!) un caos di energia e materia che però è comunque sottoposto a leggi fisiche, ed è descrivibile e intellegibile.
Nessuna tentazione panglossiana: tutte le previsioni “nette”, definitive e definitorie, sentite in questi anni, hanno miseramente fallito. Chi dava per certa la fine della globalizzazione ha sbagliato, tanto quanto ha sbagliato chi la dava per acquisita e immutabile. Chi descriveva come perfetto e intoccabile l’ordine liberale del mondo a guida americana ha sbagliato, tanto quanto chi, ormai da decenni, parla di declino assoluto degli USA come potenza. Chi diceva che, in ordine cronologico, l’11 Settembre, la crisi finanziaria del 2008, le “primavere arabe”, il COVID, l’invasione russa dell’Ucraina avrebbero cambiato totalmente il mondo ha sbagliato: eppure il mondo, dopo questi eventi, non è stato più lo stesso. Dopo l’11 settembre il mondo ha continuato a viaggiare, il terrorismo non è stato del tutto cancellato ma ha subito dei duri colpi. Dopo la crisi del 2008 la globalizzazione non è finita: i commerci e gli investimenti internazionali hanno (forse) segnato alcuni momenti di (relativo) rallentamento, ma continuiamo a vivere in un mondo globale e interconnesso. Dopo le cosiddette “primavere”, i paesi arabi hanno subito un’ondata di restaurazione cui sembrano esseri silenziosamente rassegnate quelle stesse società che ci venivano descritte quasi in procinto di accogliere una democrazia liberale anglosassone che non appartiene loro. Dopo il COVID le città sono tornate a popolarsi e la gente ha imparato a convivere col virus (almeno dove sono state implementate campagne vaccinali con sieri efficaci). Il ritiro USA dall’Afghanistan ha contribuito a convincere Mosca della debolezza dello zio Sam, non facendole prevedere il sostegno occidentale a Kiev: non è detto che l’incapacità moscovita di riannettersi l’Ucraina dissuada però la Repubblica Popolare Cinese dal provare ad annettere Taiwan con la forza.
Dunque, il bilancio del decennio di cui dicevamo. La tendenza più agevole da individuare era quella relativa alla fine dell’ordine (neo)liberale del mondo, un mondo basato sul mercato e sull’economia in cui gli USA fungessero da gendarme, così come descritto (auspicato?) da Fukuyama. Quell’ordine globale si è autodistrutto nelle proprie stesse contraddizioni.
Anche la narrazione dell’ “anti-Fukuyama”, Samuel Huntington, lo scontro di civiltà (teoria sposata da Oriana Fallaci), è stata agevole da smentire da parte di chi avesse la cultura e la buona fede di non vedere le “civiltà” umane e le culture come monoblocchi immutabili l’un contro l’altro armati. L’islamismo non ha inghiottito l’Islam, e gli stessi talebani afghani preferiscono ergersi a paladini del nazionalismo afghano antiamericano che non di una Ummah islamica globale da scagliare contro l’Occidente.
La terza tendenza corretta è stata appunto quella del ritorno dei nazionalismi e degli interessi nazionali, i quali portano anzi paesi islamici ad allearsi con Israele contro altri paesi islamici, l’Iran a cercare l’appoggio della Cina comunista e della Russia ortodossa in chiave antiamericana, mentre la Russia si impegna nella difficile ricerca di un equilibrio con Israele forte della propria radicata comunità ebraica. La geopolitica si è presa la propria rivincita sull’antropologia spiccia (che vede l’umanità divisa in mai esistiti monoblocchi religiosi) e sull’economia dogmatica (un neoliberismo “à la Chicago Boys” che vede l’economia come una scienza naturale e non umana, governata quindi da “leggi” sue proprie e non dalle scelte degli uomini). Non avendo un’ideologia (un sistema di idee-forza) fondante, a quegli schemi sembra essere rimasta legata solo l’Unione Europea, travolta dal proprio economicismo e dalla propria veduta corta, dal proprio (a lungo tempo rivendicato) approccio a-strategico, refrattario ad ogni idea di Interesse Nazionale Europeo.
La quarta tendenza è la resilienza (dopo tanto latino, provo a mascherarmi da moderno usando un termine di moda) dei poteri tradizionali. Il collasso dell’Europa e dell’Euro, puntualmente previsto ogni anno dagli euroscettici in un acrobatico esercizio di “wishful thinking”, non si è mai (non si è ancora) verificato. Ancora più resistente il Dollaro, e la relativa egemonia americana, in declino solamente relativo e non assoluto come alcuni ripetono da anni. Gli USA avrebbero dovuto essere scalzati dal Giappone tra gli anni ’80 e ’90, dall’Europa Unita tra i ’90 e i 2000, dai BRICS (ve li ricordate? Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica, nuove “potenze talmente potenze” e con un’agenda talmente comune da meritarsi un acronimo) tra i 2000 e i ’10, e oggi dalla Cina. Vero, il Dollaro – e le infrastrutture di potere americane, come il circuito di messaggeria finanziaria SWIFT (la cui importanza indicai già nel miei scritti precedenti al 2022 quando divenne argomento comune) – un tempo non conoscevano concorrenti, mentre oggi iniziano a conoscerne: ma è proprio questa la differenza tra declino relativo e declino assoluto, del quale è improprio parlare rispetto ad una potenza che detiene ancora una spiccata leadership tecnologica sul resto del pianeta.
Geopoliticamente, gli USA hanno abbandonato l’inutile teatro centrasiatico. In modo indecoroso, corretto: ma non in modo esiziale. Hanno attirato per decenni la Russia nel pantano ucraino. Tengono sotto assedio l’Iran. Rafforzano il loro partenariato con la Cina, una Cina tutt’altro che ansiosa di sovraesporsi (vi ricordate le leggende metropolitane sui cinesi pronti a stabilirsi nella base afghana di Bagram, appena abbandonata dagli USA?). Con l’Europa ormai separata da Mosca, non devono più temere, ancora per un bel pezzo, una grande Europa gaullista “da Lisbona a Vladivostok”. L’industria manifatturiera europea rischia (rischia) di essere duramente colpita dalla crisi delle materie prime e dalla transizione ecologica; mai gli europei sono riusciti a darsi un settore tecnologico informatico o dei servizi paragonabile a quello nordamericano. Quanto alla Cina (in crisi demografica conclamata), sono le navi militari battenti bandiera a stelle e strisce a incrociare tra la Repubblica Popolare e Taiwan, e non quelle battenti bandiera rossa a pattugliare il mare tra Cuba e la Florida. Se per Washington questo non è di certo un mondo perfetto, sembra comunque il migliore dei mondi geopoliticamente possibili.
Una parola la meritano le potenze emergenti: la Russia, i cui critici danno per vicina al collasso per ragioni demografiche ed economiche da decenni, è ancora lì. Le torri del Cremlino non sono crollate neanche questa volta, e non crolleranno per le sanzioni. Le sanzioni non fermano le guerre nel breve periodo, e nel medio non causano cambi di regime, che anzi rafforzano: le popolazioni dei paesi sanzionati rispondono all’appello patriottico, diventano ancora più dipendenti dai governi per la distribuzione delle scarse risorse – mentre i dissidenti lasciano il paese sanzionato. I paesi sanzionati, sempre più isolati, sfuggono all’influenza esterna. Il vero danno subito dalla Russia lo vedremo sul lungo periodo, e sarà l’esclusione dalle catene tecnologiche mondiali: da quelle occidentali per scelta americana, da quelle cinesi per convenienza di Pechino (ormai più avanti di Mosca su quasi tutti i settori, interessata alle materie prime del vicino e desiderosa di usarlo come leva diplomatica). La Repubblica Popolare Cinese ha trascorso gli ultimi decenni ad investire ed accumulare capitale più ancora che ad esportare. Il progetto delle Vie della Seta non ha cambiato il mondo, ma la Repubblica Popolare è ormai saldamente presente in Africa. È un paese che ha tante debolezze quante forze, che non sarà facile per gli USA sconfiggere ma che sarà possibile contenere. Da qui la nostra conclusione: cerchiamo tendenze e strumenti, non previsioni secche: quelle le lasciamo ai lettori di foglie di the, fondi di caffè e sfere di cristallo. Il meglio dell’intellettualità italiana si diceva sicura, ancora nel Gennaio 2022, che nessuna invasione russa dell’Ucraina avrebbe avuto luogo: chi scrive dava quell’evento per improbabile (data la scarsità delle truppe schierate da Mosca l’invasione avrebbe avuto esiti militarmente infelici, quel che poi puntualmente si è verificato) ma non impossibile. Su Taiwan, ci sentiamo di escludere una guerra ancora per quest’anno e forse per il prossimo, non essendo la Repubblica Popolare Cinese ancora in grado di sostenere militarmente lo sforzo della conquista della Repubblica di Cina: più in là con la previsione di un singolo evento non ha senso spingersi.
Tendenze e strumenti quindi, ma mai schemi. Il mondo è troppo complesso per rientrarvi, e troppo caotico, o meglio ancora, entropico.