Per una filosofia della geopolitica
Che il prestigio della geopolitica sia in rapida ascesa, è possibile constatarlo con disarmante facilità: basterebbe guardare le ultime centinaia di ore di trasmissioni televisive. Rimonta che è innanzitutto lessicale, un aspetto non proprio secondario, in quanto non possiamo pensiero oltre i confini del nostro vocabolario (citofonare ad Heidegger per un’autorevole conferma). Si tratta, peraltro, di un rarissimo caso di una “moda” terminologica che non riguardi un anglismo. Un’effervescenza culturale strettamente congiunturale o la premessa di un cambiamento reale nella nostra cultura? Per abbozzare una prima risposta di un dibattito curiosamente silenzioso, è di certo utile guardare alle necessità strutturali che si faranno incontro alla nostra collettività, e che probabilmente già costituiscono le cause remote del revival della geopolitica.
La Storia non ha fatto in tempo a finire che subito è nata la frenesia di inaugurarne il ritorno. Il 2001, il 2003, il 2008, il 2011, il 2014, il 2020 e adesso il 2022. Principali indiziati: il terrorismo, la Cina, Putin, occasionalmente il Covid. Questi annunci, per quanto ispirati dalla buona fede di svegliare l’Italia o l’Europa dal sonno dogmatico della postmodernità, sono imprecisi nel voler trovare un evento, pure simbolico, che in virtù della sua forza intrinseca riesca a folgorarci col ricordo della storia. Nessun evento (nessun “oggetto” in generale) è così gentile da regalare un’interpretazione univoca di sé: è un pregiudizio realista quello di far fede su una fantomatica evidenza epistemologica dei fatti, tanto più se si parla di avvenimenti storici. Il dramma è che abbiamo perso la capacità di conferire senso storico (e quindi strategico) agli eventi, abbiamo perso il sentimento della Storia. I problemi di postura culturale non ammettono soluzioni occasionaliste. Una tendenza, però, può lentamente – non troppo, si spera – smantellare la mitologia post-storica che ci opprime. La “longue durée”, grande assente della prospettiva di chi ferma all’immediatezza, di chi vede il dato dove c’è il risultato. La tendenza in grado di scuoterci noi stessi di dosso potrebbe essere la progressiva lateralizzazione dell’Europa. Prima linea di difesa dell’Occidente a guida americana durante la Guerra Fredda, adesso il Vecchio Continente sperimenta una presenza sempre più intermittente nei pensieri americani, sempre più occupati dal pivot to Asia, ormai asceso al rango di slogan, e da un certo affaticamento, che si traduce nell’intensificarsi di un identico sentimento centripeto nelle più differenti declinazioni. L’Europa dovrà tornare a sporcarsi di storia, in vista della scadenza del permesso di soggiorno nell’Aventino che ha scambiato per Parnaso.
Non “torneremo” nella Storia, ci accorgeremo di esserci dentro. Un’operazione prevalentemente culturale, nella quale assume senso e rilevanza la domanda a proposito delle prospettive future della geopolitica. Come caso singolo, ma soprattutto come promessa di una riforma culturale, più che di una rivoluzione, che non sarà indolore. Andando oltre quel riduzionismo promosso da un certo empirismo pop che vede nel fact checking la soluzione di tutti mali e le differenti discipline come asettici insiemi di dati, bisogna prendere atto che sono le forme del pensiero, i presupposti teorici che guidano la nostra attenzione e la nostra comprensione della realtà, a costituire l’ossatura spirituale di una civiltà. Questione di “paradigmi”, direbbe Kuhn. Dove si andrà a concentrare il cambiamento, o quantomeno la sua necessità? Quali forme culturali occludono lo sviluppo della geopolitica?
Comprendere la metodologia che il pensiero dominante, che chiameremo “pensiero dell’epoca”, incarna, significa in primo luogo delineare la comprensione del sé che esso offre. Una riforma epistemologica, quale quella che vogliamo immaginare come apporto decisivo della geopolitica nonché sua condizione preliminare, deve necessariamente partire da uno stravolgimento dell’autorappresentazione che sottostà alla nostra rappresentazione della Storia e che la produce. Ogni filosofia della storia, e ogni filosofia della storiografia, ha il proprio protagonista. L’indossatore del nostro abito mentale è l’individuo prestorico (da non confondere con “preistorico”). Abilmente descritto, tra i vari luoghi, nel quinto capitolo del pamphlet “Che cos’è il Terzo Stato”, protagonista di gran parte della filosofia politica moderna, l’individuo prestorico è precollettivo, preideologico, talvolta addirittura prelinguistico. L’unica cosa che non è (quasi) mai è “pre-economico”. “Prestorico” è forse la definizione più adatta, in quanto non è un caso che esso trovi la propria genesi nella tradizione filosofica, tipicamente illuminista, della storia congetturale. Una tradizione il cui intento indiretto è quello di sopperire alle lacune della storiografia, ma la cui interrogazione specifica riguarda la possibilità di individuare la “natura” dell’uomo, natura che, per l’appunto, si trova al di fuori della storia. Da una parte, dunque, oltrepassare la storiografia per ragioni congiunturali; dall’altra, invece, esplicitamente o implicitamente tradirla, sostituendola con un metodo ritenuto in grado di rispondere con maggiore verità alla domanda a proposito della natura dell’uomo. Fondare una scienza, politica o storica che sia, andando oltre l’empiria. Nulla di particolarmente nuovo: la filosofia greca, ad esempio, è in grandissima parte un’operazione di espunzione di una contingenza mistificatrice dalla contemplazione pura di una realtà più reale. L’uso particolare che ha fatto la filosofia politica moderna di questa millenaria prassi ha condotto ad una accidentalizzazione della Storia. Gran parte del dibattito filosofico e politico contemporaneo è una nota a margine della voce “fine della Storia”, ma essa è perlopiù tematizzata come evento, non come concetto. In verità, la fine della Storia è sempre stata dietro l’angolo[1], perché la nostra antropologia filosofica è prestorica. O, meglio, è astorica, e per questa ragione intrinsecamente monista. Archiviamo come contingenze le differenze qualitative che compongono la Storia, che ne costituiscono la polpa e il principio dinamico. Provocatoriamente, si potrebbe dire che la modernità ci ha donato una anti-filosofia della Storia. L’eredità di un Uomo oggettificato, mai produttore della propria natura, la quale resta intrappolata nel moto perpetuo della propria immobilità. Un’ombra più reale della realtà, che misconosce le differenze edificate dagli uomini.
Il misconoscimento di una pluralità sostanziale è il prodromo di una deontologia dell’agire storico che nega ogni senso normativo ad una qualsiasi semantica dell’interesse. “Semantica” non a caso: quanto è possibile avvertire è proprio una generale allergia ad un senso normativo che sia incorporato in una soggettività, ovvero in una progettualità. Si tratta di un abito che precede il senso specifico presentato da un qualsivoglia interesse storico particolare. Ogni impeto produttivo, e così ogni sua legittimazione teorica, che trovi la propria fondazione imprescindibile in una realtà storica particolare, è sistematicamente decurtato di ogni prerogativa normativa, dunque di ogni carattere etico, del diritto di inclusione in un discorso propriamente etico. Tornando indietro, quella che potrebbe sembrare un’esteriorità rispetto ad un discorso di autocomprensione del soggetto storico, ne è in verità naturale corollario: come fondare una pretesa etica su una realtà posticcia? Se la stessa esistenza storica particolare è accidentale, incidentale, e quasi necessariamente d’impaccio ad ogni ottimismo antropologico[2], come è possibile riconoscerne un valore in un senso che è per sua stessa natura intersoggettivo e spessissimamente universale? D’altronde, se forse è forte affermare, pensando ad Aristotele, che ogni etica è un’ontoteleologia, tuttavia il pensiero di un’etica non può prescindere dal pensiero del suo campo di applicazione, e in particolare del soggetto che in esso la realizza. Qual è, dunque, l’etica, o meglio il campo dell’etica, che il pensiero della nostra epoca ci suggerisce? Forse riempendo l’argomento del contenuto tipicamente occidentale di un radicato razionalismo, siamo indirizzati ad un senso eticamente normativo della verità. La Verità deve comandare: in questo senso preliminare e puramente astratto, i postmoderni hanno offerto una lettura critica davvero efficace. In fondo, al di là di alcune sbandate volontariste, l’Occidente e il pensiero occidentale hanno basato la propria filosofia della prassi sull’analisi, sulla (presunta?) forza etica del fatto, della verità. Corsi e ricorsi dell’intellettualismo etico? Forse è più corretto parlare di una sua versione depotenziata, priva degli assunti psicologici che il precedente socratico imponeva universalmente. Ad ogni modo, siamo inclini a pensare l’agire politico come diretta scaturigine dei “giusti principi” (anche qui ci riferiamo a Sieyes) e del loro più o meno impreciso possesso[3]. “Auctoritas, non veritas, facit legem” è tendenzialmente sospeso come cinico borbottio del più cupo dei filosofi, o occasionalmente applicato come lente interpretativa dello status quo di paesi che non godono della nostra patente di civiltà. Ad esso preferiamo il riferimento fideistico e giustificativo ad una realtà metastorica, e dunque meta-empirica, che immancabilmente incoronerebbe una prassi politica con essa coerente. Invertendo così l’ordine delle cause, che vuole un codice deontologico come il lusso garantito dall’adempimento ai propri doveri strategici capitali.
Se l’agire politico è frutto dell’accessibilità o, al contrario, dell’offuscamento dei principia politica, significa comunque che esiste una gradazione tra le realtà politiche cui capita di popolare la Storia. Disponiamo, certo, di una tematizzazione della soggettività, ma solamente a partire da questi presupposti, che ci consegnano lo spazio appena necessario per una soggettività transeunte, orientata alla propria obsolescenza. Così lo Stato nazionale, protagonista della vicenda moderna a dispetto di frettolosi annunci della sua morte. Lo Stato resta però solo un esempio, pur significativo, di un testo culturale più ampio, che si sviluppa intorno al tema della soggettività. È arcinota la risposta di Kant alla domanda su cosa sia l’Illuminismo: l’uscita dell’Uomo dallo stato di minorità. Un senso storico di sottrazione, di rischiaramento, di un lavoro fondamentalmente decostruttivo e fondamentalmente conoscitivo. Anni dopo, un pensatore schierato su ben altre posizioni, Joseph De Maistre, lamenterà proprio il significato storico decostruttivo, diabolico, di quei philosophes che non distingue mai nettamente dai protagonisti politici della Rivoluzione Francese. A ragion veduta. La prima Rivoluzione ad essere esportata non è quella bolscevica, ma quella francese; il senso ideologico di questa esportazione è quello di restituire l’uomo a sé stesso, contro le potenze del vecchio ordine che lo tengono in ostaggio. La modernità ci consegna una soggettività formalmente transeunte, come vettore che traghetta l’uomo al di fuori della Storia. Il contenuto specifico di questa forma è un contenuto pedagogico, educativo. È inutile snocciolare l’ideale di civilizzazione che ha guidato l’Età degli Imperi. Tuttavia, con la reductio ad Americamdell’Occidente, questo immaginario è andato sostituendosi con quello, pur sensatissimo, del poliziotto globale. Una discontinuità minima, certo, ma forse comunque imprecisa. La cifra ideologica fondamentale resta quella non già di punire ma di educare, spesso coniugata nell’illusione che imporre un minima moralia orienti l’ordine delle cose verso l’immancabile approdo dell’altro da sé al sé[4]. Un poliziotto “foucaultiano”, che impartisce disciplina solo perché è interessato al senso educativo e produttivo che questa incarna. Un poliziotto che può produrre un disciplinamento che regga sulle sue proprie gambe, ben conscio dei retti principi che lo alimentano. Un poliziotto che, quindi, ha un compito storico che sulla carta resta transeunte, occasionale.
La geopolitica incarna, più o meno consciamente, un’epistemologia totalmente diversa. La verità trova il suo posto solo nella mappatura della realtà, ma in essa non gioca alcun ruolo. O meglio, non gioca un ruolo principe, non accomuna e non distingue. Non anima la Storia. Nella prassi analitica è spodestata, lateralizzata; mappare il reale significa individuare gli interessi contrastanti che lo percorrono, mantenendo un deciso agnosticismo rispetto alle possibilità reali di sacrificarli in nome di una pacificazione di tipo contrattuale, razionale, comunicativo. Per un approccio del genere, tutto è ugualmente legittimo: sentimento, simbologia, irrazionalità. Tutto quanto di trova nella realtà, rispetto alla quale, ripetiamo, il compito dell’osservatore è di semplice mappatura. L’approccio metaempirico è sconfessato, svilito. L’unica verità è la verità effettuale.
Le condizioni di possibilità di una fedeltà così pura alla materia storica è il riconoscimento della natura sostanziale delle soggettività che la compongono. Ciò rientra in un più generale approccio che perde ogni fiducia metastorica, ogni deformazione escatologica. Oltre la Storia, nulla. Il fatto storico trae la legittimità da sé stesso, i rapporti con la Storia sono finalmente pacificati. L’unica legge è la capacità di imporsi, da cui le accuse di cinismo mosse alla geopolitica. Anche questo è un approccio epistemologico: non è una scienza esatta da contrapporre alla pseudoscienza della filosofia politica moderna e della sua unica ramificazione superstite, la variante liberale.
La geopolitica presenta in un momento unico l’alternativa alla doppia problematica della soggettività sviluppata prima. Riconoscendo un valore assoluto alle soggettività che popolano la Storia, disconoscendo ogni possibilità di fraintenderle come “traviamenti” o di disporle secondo una gerarchia di legittimità, ne riconosce la pluralità. Pluralità e sostanzialità, dunque. Svanisce la possibilità di immaginare una metastoria monistica, da una parte perché il monismo è un mitologema, dall’altra perché la demistificazione di tale mitologema passa proprio per l’idea della perennità del tessuto plurale e conflittuale della storia. Che a sua volta, ripetiamo, trova il proprio presupposto nel rifiuto di ogni “fuori” dalla Storia: è per questo che la geopolitica incarna la possibilità del tanto anelato superamento della postura post-storica che, a ragione, tutte le realtà culturali di buon senso diagnosticano all’Europa in generale, e all’Italia in particolare.
Ripetiamo: il dualismo tra il pensiero attuale e la geopolitica non è quello tra una pseudoscienza e una scienza. La geopolitica non è la pietra filosofale o una scienza rigorosa: come tutte le discipline storiche, è scabra e imprecisa. Al di là dei suoi risultati predittivi, non è prematuro provare a suggerire il portato culturale dell’avanzare dell’epistemologia che raffigura. Appunto, non perché, in quanto scienza, si farà largo a colpi di successi scientifici, ma perché, se è vero che il succedersi delle visioni del mondo è il risultato del succedersi dei periodi storici, la geopolitica può rappresentare una visione più adatta alla fase storica che ci prepariamo ad affrontare. Nella speranza di affrontarla con i concetti adeguati, perché non saper pensare la realtà equivale a non saperla abitare.
[1] Per approfondire possono essere utili Jacob Taubes e Karl Löwit; un utile guida è “Il fine della storia” di Salvatore Natoli.
[2] Che, pur non essendo una costante e non essendo oggetto della presente riflessione, rappresenta una cifra fondamentale del pensiero dell’epoca presente
[3] Anche qui sarebbe possibile un approfondimento, che non possiamo svolgere ma che riteniamo opportuno segnalare. Rispetto ad epoche e a tradizioni più incerti rispetto all’effettivo possesso di retti principi del vivere politico e civile (si pensi alla “etica provvisoria” di Cartesio), come si colloca il nostro presente? Nella nostra smania di giudizio, abbiamo lasciato spazio per l’incertezza?
[4] Si veda l’illusione, solo ora in via di disfacimento, per cui la promozione di riforme di mercato in Cina avrebbe trasformato il Dragone in un paese occidentale.