Fra postmodernità, crisi del marxismo e affermazione delle nuove destre metapolitiche: il caso italiano
L’Osservatorio non si ferma nemmeno nelle calde giornate estive e da il benvenuto sulle sue colonne Matteo Luca Andriola, riprendendo un suo articolo già uscito per il bimestrale Paginauno, a cui seguirà un suo altro lavoro sempre della stessa rubrica e poi un contributo inedito per l’Osservatorio. Buona Lettura!
Questa rubrica non è nata con l’intento di stilare la cronaca dell’evoluzione della cultura di destra in Europa e Occidente dal dopoguerra a oggi, ma per capire perché tale area è oggi in netta ascesa. L’affermazione del fenomeno delle ‘nuove destre metapolitiche’ in Europa si è nutrita dal lontano 1968 della strategia del gramscismo di destra, che metteva al centro la necessità della costruzione dell’egemonia culturale, tattica lungimirante perché vede nel radicamento nell’immaginario collettivo l’arma per l’affermazione prima metaculturale e poi politica[1].
La corrente culturale neodestrista, coi suoi input metapolitici – anche a prezzo di diluire le sue riflessioni nelle pieghe di un versante nazional-conservatore che ha senza dubbio concorso a ringiovanire e rinforzare senza modificarne radicalmente l’essenza – è riuscita non solo a dare spessore culturale alla destra nazional-populista che si è nutrita delle sue riflessioni, ma anche a rafforzare sé stessa, presentandosi come alternativa ‘da destra’ alle contraddizioni sistemiche. La Grande Recessione del 2007 infatti – com’è stata definita dal Wall Street Journal nel 2010 – iniziata negli Stati Uniti con la crisi immobiliare innescata dallo scoppio della bolla speculativa dei mutui subprime, ha fatto venire al pettine le contraddizioni del sistema capitalista, ma portando vasti settori della destra, e non della sinistra, a denunciarli.
Significa che partendo da contraddizioni tangibili che la gente vive ogni giorno, i politici nazional-populisti hanno, con un lungo lavoro fatto di propaganda e di una narrazione che si rafforza con i social network, condotto una parte dell’elettorato proveniente dall’astensionismo e dalla sinistra su posizioni di destra. È analizzando tale ascesa, nel contesto dell’evoluzione ‘strutturale’, che capiremo alcune delle motivazioni di un fenomeno tutt’oggi percettibile.
La crisi della cultura marxista e la nascita della sinistra postmoderna
Un nesso palpabile è l’affermazione del fenomeno populista a seguito della crisi della cultura marxista. La querelle del 1979, già accennata in questa rubrica, che lanciò alla ribalta mediatica il Grece per la presenza di giornalisti legati all’associazione metapolitica che scrivevano sul con- servatore Le Figaro-Magazine, facendo coniare ai giornalisti di sinistra il neologismo “nouvelle droite”, avviene in un preciso contesto culturale: in quella seconda metà degli anni ’70 quando crolla l’illusione occidentale della distensione fra blocchi e ritorna un clima da guerra fredda propiziatorio per la radicalizzazione di un’ondata culturale anticomunista.
I circoli metapolitici neodestri vicini al Grece e al Club de l’Horlege erano all’epoca parte del mondo conservatore e reazionario, non essendosi ancora affermata la metodologia et-etdella ‘nuova sintesi’. La minaccia degli SS 20, i timori suscitati dall’ondata pacifista e l’effetto del bestseller antisovietico di Aleksandr Solženicyn, Arcipelago Gulag, vanno tutti nella medesima direzione: a bandire una crociata antiprogressista che riprende corpo in alcuni settori moderati dell’opinione pubblica, i quali arrivano, con la scusa di ‘storicizzarlo’, a inserire il nazismo nella storia dell’Occidente e nella resistenza millenaria ai ‘mali’ venuti dall’Est, demonizzando Urss e marxismo-leninismo.
È in quel periodo che si afferma la polemica negazionista sull’Olocausto iniziata da Robert Faurisson su Le Monde nel gennaio 1979, con molte interviste all’autore fatte quell’anno anche su riviste di storia italiana. Polemica che s’infiltrerà nella breccia mediatica della querelle contro la nouvelle droite, anch’essa favorevole alla storicizzazione del nazismo[2], segno di una stampa che ricercava lo scoop e la spettacolarizzazione di fenomeni, anche marginali, incurante delle conseguenze politiche sul lungo termine. Si avvicina la fase del riflusso, della società post-industriale, caratterizzata dalla fine del modello fordista e della centralità operaia, dallo sviluppo del terziario avanzato e dalla prima globalizzazione finanziaria, con la deindustrializzazione, le delocalizzazioni, i primi flussi migratori. Prende il via la rivoluzione conservatrice neoliberista degli anni Ottanta, che non coinvolgerà solo Ronald Reagan negli Stati Uniti e Margaret Thatcher in Gran Bretagna, ma muterà anche la genetica della sinistra. È il caso del francese François Mitterand e, in Italia, del Psi di Bettino Craxi.
Il cambiamento si palesa platealmente nella cocente sconfitta che i sindacati, nell’autunno del 1980, avranno alla Fiat: i vertici dell’impresa automobilistica, volendo razionalizzare la produttività aziendale nel con- testo del post-fordismo, decidono di licenziare 15.000 lavoratori, incontrando una decisa opposizione operaia che, sotto la guida dei sindacati, occupa gli stabilimenti torinesi di Mirafiori. La cosiddetta “marcia dei quarantamila” segna la fine della vertenza.
Inizia l’ascesa di Bettino Craxi, fase che coincide con la progressiva crescita del Psi, che slitterà sempre più al centro, come già avvenuto al Psdi di Saragat[3]. Aumenta la spettacolarizzazione della politica e, dopo il saggio di Jean-François Lyotard, La condizione postmoderna. Rapporto sul sapere (1979), si inizia a parlare di postmodernità. Finita l’era della modernità, in virtù della fine delle grandi narrazioni dell’età moderna (illuminismo, idealismo, marxismo) che avevano giustificato ideologicamente la coesione sociale ispirando le utopie rivoluzionarie, si apre un’era fluida che mette in crisi il pensiero totalizzante, apre interrogativi sul problema di reperire criteri di giudizio e legittimazione locale e non più universale; teorie che trovano in Italia un fertile campo di dibattito[4]e sdoganano uno slittamento a destra della società, che porterà il Psi ad aperture culturali nei confronti della destra missina e verso quella ‘nuova’ e metapolitica di Marco Tarchi, nella fase detta del ‘socialismo tricolore’.
Lo slittamento a destra dei socialisti si inserisce nella ‘guerra fra le sinistre’, fra Psi e Pci, che spingerà il neosegretario Craxi fra il 1977 e il 1978 ad abbandonare il marxismo per approdare al liberalsocialismo. Il 60° anniversario della Rivoluzione d’ottobre spingerà il Psi, in cerca di autonomia e schiacciato da un Pci che vuole il compromesso storico con la Dc, a sostenere che l’eurocomunismo altro non è che l’ammissione della giustezza delle analisi della socialdemocrazia europea del primo dopoguerra[5].
Si viene a imbastire così una strategia culturale che coinvolgerà gli storici legati al Psi, e che porterà alla rivalutazione del riformismo ai danni del bolscevismo[6], fino ad approdare al convegno internazionale organizzato dall’Istituto socialista di studi storici, dal tema Rivoluzione e reazione in Europa, nel marzo del 1978, che ruota attorno alla tesi secondo cui la Rivoluzione bolscevica aveva interrotto il processo di nazionalizzazione delle masse proletarie portato avanti dai partiti della II Internazionale dalla fine dell’Ottocento. Segue, nell’agosto 1978, l’intervista che Craxi concede a Eugenio Scalfari per L’Espresso, dal titolo Per noi Lenin non è un dogma, i cui contenuti saranno poi ulteriormente sviluppati dal politico nel Vangelo socialista, scritto insieme allo storico Luciano Pellicani, e in altri scritti pubblicati dalla stampa di partito[7].
Il dibattito creerà un divario incolmabile fra Psi e Pci, spingendo gli storici filosocialisti a usare le pagine culturali della stampa del Psi – dall’Avanti! a MondOperaio, con botta e risposta su giornali comunisti come l’Unità e Rinascita – per ridefinire la propria identità culturale, le relative strategie e le concezioni sull’idea di socialismo.
Il divario, nel pieno del consolidamento della leadership craxiana che imprime una forte accelerazione alla revisione identitaria del Psi, spingerà il partito a divenire il referente dei ceti produttivi emergenti e a far suo lo Zeitgeist postmodernista, nella contestazione di ogni ideologia novecentesca. Il Psi di Craxi si riconfigura come il miglior prodotto del postmodernismo dell’epoca, per l’impulso iconico all’investimento sull’immagine più che sui contenuti ideologici, e per la citata revisione delle basi ideologiche su cui si era strutturato il partito sino a quel momento; processo che spinge Scalfari, ironicamente, a intitolare un articolo: Craxi ha tagliato la barba al profeta.
Il Psi inizia a rifarsi al modello comunicativo di tipo nordamericano, basato sul coordinamento capillare delle immagini e del materiale grafico, che ricorre alla creazione di un universo visivo che possa essere d’impatto e totalizzante, replicabile sia su piccola scala – manifesti, tessere, opuscoli – sia nel gigantismo faraonico dei congressi di partito, con il largo impiego di apparati scenici pensati espressamente per scatenare l’emotività del pubblico. Contemporaneamente si rivela cruciale la modernizzazione dei simboli e delle icone distintive: archiviata la falce e il martello, simbolo che precedentemente accomunava i socialisti italiani al Pci, il Psi adotta il garofano rosso[8].
1 – Continua.
[1]La metapolitica, secondo Jean-Claude Valla, esponente del Grece, è “quell’insieme di valori che non rientrano nel campo della politica nel senso tradizionale del termine, ma che hanno un’incidenza diretta sulla stabilità del consenso sociale gestito dalla politica” (J.C. Valla, Une communauté de travail et de pensée, in P. Vial (dir.), Pour une renaissance culturelle. Le GRECE prend la parole, Paris, Copernic, 1979, p. 36). La strategia metapolitica neodestrista del gramscismo di destra è di ampio raggio, ed è il preludio dell’egemonia politica, che si sarebbe potuta ottenere solo condizionando la mentalità collettiva delle masse, spingendo la nouvelle droite ad accaparrarsi ‘da destra’ Antonio Gramsci, vedendo in lui il teorico dell’egemonia culturale, ovviamente in una lettura demarxistizzata dell’intellettuale italiano (Cfr. AA.VV., Pour un gram- scisme de droite, XVI convegno nazionale del Grece, Versailles, 29 novembre 1981, Paris, Grece/Le Labyrinthe, 1982, p. 80).
[2]Cfr. a riguardo S. François, La Nouvelle Droite et le nazisme. Retour sur un débat historiographique, in Revue Française d’Histoire des Idées Politiques, n. 46, 2017, pp. 93-115.
[3]Cfr. S. Colarizi, M. Gervasoni, La cruna dell’ago. Craxi, il partito socialista e la crisi della Repubblica, Roma-Bari, Laterza, 2005.
[4]Cfr. G. Vattimo, P. A. Rovatti (a cura di), Il pensiero debole, Milano, Feltrinelli, 1983.
[5]Cfr. M. L. Salvadori, È socialista l’Unione Sovietica?, in MondOperaio, n. 10, ottobre 1977.
[6]La querelle inizia nel gennaio del 1977, quando Massimo L. Salvadori pubblica su MondOperaio l’Attualità di Kautsky, in cui descrive Lenin con la definizione kautskyana di “Bismark del proletariato russo”, ma in negativo, e critica il leninismo come degenerazione militarista del socialismo. Secondo Salvadori la strategia leninista produsse una rottura incurabile nel movimento operaio, a sua volta all’origine della frattura teorica fra democrazia e socialismo che influirà su tutta l’evoluzione successiva, compresa lo sviluppo della fase stalinista, nonostante fra Stalin e Lenin non vi sia, per Salvadori, continuità (cfr. M. L. Salvadori, Attualità di Kautsky, in MondOperaio, n. 1, gennaio 1977, pp. 109 ss.). In un altro articolo Salvadori spiega che “ciò che vi fu di specifico nel Lenin uomo di Stato fu una soggettività politica di segno in certo modo opposto a quella di Stalin. Il dramma soggettivo di Lenin fu infatti la lotta incessante per ‘salvare’ la dittatura del proletariato; lo scopo di Stalin fu invece di tirare le somme del fallimento dell’’utopia’ bolscevica della dittatura del proletariato” (M. L. Salvadori, È socialista l’Unione Sovietica?, in MondOperaio, n. 10, ottobre 1977, pp. 57, 58). Nell’agosto del 1977 Mario Bonaiuto torna sulla figura del dirigente tedesco e sul suo rapporto con la Rivoluzione d’ottobre, e sottolinea come Kautsky avesse previsto la cosiddetta “non riproducibilità” del modello bolscevico in Occidente, pur cogliendo i limiti della democrazia borghese. Kautsky, secondo Bonaiuto, aveva com- preso che “una volta soppresse le libertà fondamentali potesse ancora esistere qualcosa in cui riconoscere il potere di classe e non, piuttosto, quello di un partito o di un apparato”. Da qui l’esigenza, comune a tutto il movimento operaio, di ripensare critica- mente il leninismo per non “ignorare che nei suoi confronti esigenze e interrogativi che oggi sentiamo nostri furono mossi da uomini come Kautsky e Bauer” (M. Bonaiuto, Kautsky e la Rivoluzione bolscevica, in MondOperaio, n. 7-8, agosto 1977, pp. 125, 126).
[7]Cfr. B. Craxi, Perché per noi Lenin non è un dogma, intervista rilasciata a E. Scalfari, L’Espresso, 27 agosto 1978, e B. Craxi, L. Pellicani, Il Vangelo socialista, Salerno, Licosia, 1978. All’intervista rilasciata a Scalfari e al libro con Pellicani seguirà un articolo di Craxi pubblicato sul numero di settembre 1978 di MondOperaio, Leninismo e socialismo, dove il leader socialista sosterrà che Lenin teorizzava “il diritto-dovere degli intellettuali guidati dalla ‘scienza marxista’ di sottoporre la classe operaia alla loro direzione”, per questo il Che fare?, summa della strategia bolscevica, è “una aggressiva ripresa del progetto di Robespierre, che già molte scuole socialiste aveva- no definito come una sorta di dispotismo pseudo-socialista”. “Con il successo storico- politico del leninismo, la logica giacobina, con tutte le sue componenti vecchie e nuove che sfociano nella dittatura rivoluzionaria, prende il sopravvento sulla logica pluralistica e democratica del socialismo e la Russia si incammina sulla strada del collettivismo burocratico-totalitario. […] C’è nel leninismo la convinzione che la natura umana è stata degradata dalla apparizione della proprietà privata, che ha disintegrato la co- munità primitiva scatenando la guerra di classe. E c’è soprattutto il desiderio di ricrea- re l’unità originaria facendo prevalere la volontà collettiva sulle volontà individuali, l’interesse generale sugli interessi particolari. In questo senso il comunismo è organicamente totalitario, nel senso che postula la possibilità di istituire un ordine sociale così armonioso da poter fare a meno dello Stato e dei suoi apparati coercitivi. Questo ‘totalitarismo del consenso’ deve però essere preceduto da un ‘totalitarismo della coercizione’”. Craxi, com’è noto, risale a Karl Marx e, recuperando le critiche rivoltegli da Pierre-Joseph Proudhon, afferma che “non si deve confondere il socialismo con il comunismo, la piena libertà estesa a tutti gli uomini con la cosiddetta libertà collettiva, il superamento storico del liberalismo con la sua distruzione. Il carattere autoritario di ciò che viene chiamato il ‘socialismo reale maturo’ non è una deviazione rispetto alla dottrina, una degenerazione frutto di una somma di errori, bensì la concretizzazione delle implicazioni logiche dell’impostazione rigidamente collettivistica originariamente adottata. L’esame dei fondamenti del leninismo non può che confermare tale tesi”.
[8]Cfr. V. Eletti, La grafica politica. Ettore Vitale, in Zoom, novembre 1983. Sull’architettura postmoderna rimando a C. Jencks, The language of post-modern architecture, London 1977; C. Aldegheri, M. Sabini (a cura di), Immagini del post-moderno. Il dibattito sulla società post-industriale e l’architettura, Venezia 1983; F. Chicchi, Si può negare un’immagine? Regime dell’immaginario e godimento del discorso capitalista, in Alfabeta2, n. 33, novembre-dicembre 2013. Sul fasto della grafica della propaganda socialista negli anni ’80 rimando a Le immagini del socialismo. Comunicazione politica e propaganda del PSI dalle origini agli anni Ottanta, Milano 1984; S. Rolando (a cura di), Una voce poco fa. Politica, comunicazione e media nella vicenda del Partito Socialista Italiano dal 1976 al 1994, Venezia 2009. Sull’evoluzione dell’i- conografia del Psi dall’800 all’era craxiana cfr. R. Barilli, Arte e socialismo, in L’immagine del socialismo nell’arte, nelle bandiere, nei simboli, catalogo della mostra a c. della Fondazione Brodolini, ideata da R. Barilli, G. Granati, M. Scaparro, (Roma, Pa- lazzo delle Esposizioni, giugno-luglio 1982),Venezia, 1982.
Ciclo di articoli sulla Nuova Destra:
- “Crisi del Marxismo e affermazione delle Nuove Destre” (https://osservatorioglobalizzazione.it/…/fra-postmodernita-…/)
- “Una Sinistra che sdogana l’Estrema destra” (https://osservatorioglobalizzazione.it/…/una-sinistra-che-s…/)
- “La Destra radicale noglobal” (https://osservatorioglobalizzazione.it/…/la-destra-radicale…/)
- “Orion tra antimondialismo e revisionismo” (https://osservatorioglobalizzazione.it/…/orion-tra-antimond…/)
- “Nuova Destra e anticapitalismo” (https://osservatorioglobalizzazione.it/…/nuova-destra-e-ant…/)
- “Un antiglobalismo che non è anticapitalismo” (https://osservatorioglobalizzazione.it/…/un-antiglobalismo-…/)
- “Alain de Benoist e la polemica coi cattolici” (https://osservatorioglobalizzazione.it/…/alain-de-benoist-e…/)
- “Steve Bannon tra Samuel Huntington e Guillaume Faye” (https://osservatorioglobalizzazione.it/…/steve-bannon-tra-g…/)
- “La psicosi rossobruna” (https://osservatorioglobalizzazione.it/…/la-psicosi-rossobr…/)
- “La Nuova destra italiana tra crisi di sistema e crisi istituzionale” (https://osservatorioglobalizzazione.it/…/la-nuova-destra-it…/)
- “La sinistra italiana e la nuova destra” (https://osservatorioglobalizzazione.it/…/la-sinistra-italia…/)
- “La Nuova destra metapolitica” (https://osservatorioglobalizzazione.it/…/la-nuova-destra-me…/)
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