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Guardare la Bosnia per capire l’Ucraina

Ucraina crisi bosnia

Guardare la Bosnia per capire l’Ucraina

In maniera repentina la grammatica bellica sembra essere tornata a contaminare il nostro presente. L’irruzione di una guerra relativamente vicina ha destato l’opinione pubblica occidentale dal profondo torpore in cui versava, riattualizzando il dibattito su confini e frontiere, polveriere etniche e irredentismi irrisolti. Con la spettacolarizzazione del dibattito mediatico che solo la postmodernità è in grado di offrire, le analogie con eventi del passato hanno accompagnato le analisi e le sentenze sulla crisi Ucraina. Nella maggior parte dei casi, questi facili parallelismi sono stati utilizzati più come figurativi corpi contundenti con cui colpire le argomentazioni della controparte che non come strumenti comparativi e d’analisi. Inevitabilmente, questo ciclone mediatico non ha avuto alcun effetto lenitivo per le popolazioni coinvolte dal conflitto ma, al contrario, ne ha accresciuto le difficoltà, conducendo alla propagazione di soluzioni sempliciste e interpretazioni riduzioniste. 

In tale contesto tornano estremamente attuali le parole dell’antropologo Marc Augé che definiva la guerra come «un termine troppo inglobante che non permette di rendere conto delle diversità delle situazioni» (Augé, Nonluoghi, 1992). Indubbiamente il contorno sensazionalistico dell’informazione attuale, che proietta acriticamente traumi individuali e collettivi nelle case di milioni di telespettatori ogni sera, suscita reazioni forti, in molti casi impulsive. La narrazione appare così divisa in una polarizzazione tra proputiniani e antiputiniani. Ad essere in discussione, però, non sarebbe solamente il presunto appoggio al leader di Mosca o la sua condanna, quando più la ri-attualizzazione di una contrapposizione tra un noi (occidentale) e un loro (orientale). Un soggetto e un anti-soggetto. Un essere contrapposto a un non-essere. Il tracciato che porta a una generale stigmatizzazione delle popolazioni slave è decisamente agevole e fin troppo allettante per i demagoghi improvvisati delle emittenti televisive. In una dinamica in cui gli avvenimenti storici vengono decontestualizzati, modellati, ridefiniti e, alla fine, (ri)narrati per sacralizzare l’inevitabile escalation del conflitto, la recente guerra in Jugoslavia diventa la piattaforma ideale dove cercare di intercettare analogie e trovare l’archetipo delle proprie argomentazioni. Le immagini d’archivio dei Balcani vengono investite da nuovi significati, e gli scatti dell’assedio di Sarajevo spesso risultano affiancati a quelli di Mariupol. L’altro, l’anti-soggetto, viene disconosciuto e confinato al di là del confine. Alla violenza dell’anti-soggetto fa eco la retorica del soggetto che si vede “costretto” a ricorrere ad un ulteriore utilizzo militare da opporre alla controparte. La NATO diventa così, in larghi e differenti strati della società, l’arma da utilizzare contro la violenza dell’anti-soggetto, il male necessario per imporre un bene giusto

Ed è propriamente in questi termini che il conflitto jugoslavo viene decostruito e risemantizzato per tracciare una storia differente, utile a dipingere un folcloristico e sfumato nemico slavo e a glorificare la risolutoria fermezza dei contingenti NATO. D’altronde, rimanendo in accordo con Augé, potremmo sintetizzare lapidariamente che «la realtà, infatti, non è data: è costruita dal ricercatore» (Augé, L’antropologia del mondo contemporaneo, 2004). Pertanto, se il conflitto in Jugoslavia potrebbe tratteggiare pallide connessioni con le dinamiche ucraine per quanto concerne le macro-comunità culturali e religiose coinvolte, ben più interessante appare osservare, in maniera cautelare, il ruolo svolto dalla politica internazionale durante la crisi bosniaca. A questo punto occorre però fare una precisazione: non si vuole qui scivolare nella tentazione di analizzare evenemenzialmente il dramma jugoslavo per cristallizzarne un determinato segmento utile alla tesi argomentativa. Al contrario, l’osservazione del comportamento internazionale nell’ex Stato socialista permette una visione maggiormente angiografica che evidenza la fragilità, nonché la pericolosità, dalla stigmatizzazione di una sola delle due parti. Fuoriuscendo, dunque, da questa sfera di monumentalizzazione mediatica prodotta dal ripetersi di iconografie belliche di guerra (i grattaceli di Sarajevo o gli edifici popolari di Mariupol), il panorama che emerge risulta molto più diversificato. 

Ora, se da una parte non si può negare la presenza della diplomazia sovranazionale in territorio bosniaco durante il conflitto, molto più suscettibile a dubbi e interpretazioni rimane il suo operato e il suo coinvolgimento in pratiche di ghettizzazioni e di pulizia etnica. Nonostante la presenza dell’ONU, della NATO e della CE, nel 1995, i dati forniti dal giurista Mahmoud Cherif Bassiouni al Segretario generale dell’ONU Boutros Boutros-Ghali, riportavano la cifra di circa 250.000 morti, 50.000 torturati, 20.000 casi di stupro e 143 fosse comuni per la sola Bosnia (Jože Pirjevec, Le guerre jugoslave. 1991-1999, 2014). Basterebbero probabilmente già questi dati per restituire la friabilità morale mostrata della comunità internazionale occidentale davanti al nazionalismo serbo, croato e bosgnacco. 

Mantenendo questo criterio logico è possibile riflettere su quella che rappresentò una delle più esemplificative, quanto paradossali, tragedie della guerra: la crisi di Goražde del 1994. È importante ricordare che con la Risoluzione 824 varata dall’ONU nel maggio del 1993 erano state istituite le cinque zone di sicurezza smilitarizzare (Bihać, Goražde, Sarajevo, Tuzla, Žepa), alle quali si aggiungeva l’enclave di Srebrenica già facente parte di un progetto di pacificazione (ghettizzazione?) approvato con la Risoluzione 819.  

La non sicurezza delle safe-area: Goražde, insegnaci tu  

Collocata nel cuore della Valle della Drina, la conquista di Goražde era fondamentale per completare i progetti della creazione di una Grande Serbia estesa da Belgrado fino al Sangiaccato. Per tale ragione dal 1992 al 1995 a Goražde si è combattuto ogni giorno, in ogni strada cittadina, con ogni arma disponibile o potenziale. Nell’aprile del 1992 l’amministrazione di Goražde accolse circa 30.000 profughi provenienti dalle città cadute della Bosnia est, offrendogli riparo nelle scuole, nelle palestre e in altre strutture pubbliche riconvertite in alloggi per l’emergenza. 

Dopo le prime importanti azioni militari nel corridoio della Posavina bosniaca, necessarie per completare il collegamento tra le Repubbliche autonome serbe della Croazia e la Serbia, il cuore delle operazioni si spostò nella valle della Drina. In questi termini, occupare Goražde avrebbe implicato un ulteriore isolamento di Sarajevo dalle città resistenti, infliggendo alla diplomazia di Alija Izetbegović un duro colpo in vista dei colloqui di pace. Le truppe serbo-bosniache piombarono sulla città partendo da Kopači il 4 maggio 1992 e diedero inizio a quell’assedio cittadino che si sarebbe proteso per tutto l’arco del conflitto. Dopo aver conquistato Višegrad, Rogaicia e Čajniče, i militari mossero l’artiglieria verso Goražde con l’idea di concludere le operazioni in un tempo abbastanza breve. Pertanto, una parte dell’esercito fu dispiegata in direzione Trnovo con l’idea di cogliere alle spalle la difesa territoriale cittadina e bloccare ogni approvvigionamento proveniente da Sarajevo. 

La crisi di Goražde dell’aprile 1994 non nacque per caso. Fu il risultato di una sommatoria di eventi e negligenze che permisero ai serbi di arrivare a poche centinaia di metri dal centro della città e di cannoneggiare impunemente l’ospedale, la scuola e i rifugi per i profughi. Il tutto, è sempre utile ricordarlo, nel cuore della civilissima Europa che si apprestava a festeggiare il cinquantesimo anniversario dalla vittoria sul nazifascismo. D’altronde, come celebrare meglio questa ricorrenza se non chiudendo ambedue gli occhi davanti al genocidio di Srebrenica? Pertanto, dopo che le strazianti immagini della prima strage di Markale del febbraio 1994 avevano invaso le case di milioni di cittadini occidentali suscitando sdegno e condanna pubblica, il presidente Clinton proclamò l’ultimatum nei confronti dei serbo-bosniaci asserragliati sui monti sarajevesi. Il messaggio era chiaro: le armi pensanti che non fossero state allontanate di almeno 20km dalla zona smilitarizzata intorno a Sarajevo entro la fine del mese sarebbero diventate oggetto di bombardamento da parte NATO. Ma tra la minaccia e la sua applicazione passava tutto il ventaglio di interessi specifici nazionali. La guerra in Bosnia ormai non era più una questione locale, gli esisti del conflitto per diverse ragioni interessano molteplici interpreti. La pronta protesta della diplomazia russa contro l’ultimatum americano esasperò in Europa i timori per una possibile escalation dello scontro, obbligando ad alcuni ripensamenti nel processo punitivo. Morale: il risultato dell’ultimatum fu disastroso per la popolazione civile bosniaca. Rispetto alla totalità degli armamenti pesanti posizionati intorno a Sarajevo, i militari UNPROFOR riuscirono a requisirne solamente 30%. Buona parte del rimanente fu occultato dai serbo-bosniaci tra i monti sarajevesi in attesa di un futuro (ri)utilizzo. Ma anche quel 30%, d’altronde, fu una conquista transitoria: le armi vennero recuperate con estrema facilità dagli assedianti già durante la crisi del 1994, quando i serbi presero in ostaggio circa 200 caschi blu per utilizzarli come deterrente contro le incursioni della NATO. A questo punto una consistente parte dell’artiglieria ritirata dai monti di Sarajevo fu dislocata dai serbi attorno a Goražde. Tra la fine di febbraio e l’inizio dell’aprile le postazioni degli assedianti vennero implementate con 100 carri armati, 350 cannoni e circa 12.000 uomini (Pirjevec, Le guerre jugoslave. 1991-1999, 2014). 

A detta di Pale, l’offensiva del 1994 fu concepita in risposta al piano espansionistico di Izetbegović che, insieme ai musulmani del Sangiaccato, avrebbe avuto l’intenzione di creare un corridoio verde che partendo dal Kosovo si estendesse sino alla Bosnia. Forti di questa scusa, la notte di Pasqua del 1994, i cetnici diedero vita all’offensiva Stella 94, una delle più dure e paradigmatiche di tutto il conflitto. Al momento dello scocco delle azioni, in città erano presenti solamente 8 ufficiali dell’ONU di collegamento e 3 osservatori. Impossibile reggere l’urto dell’attacco. Le truppe serbe si mossero velocemente, conquistando i territori di Ustiprača, Jabuka e Kopači persi durante le operazioni del settembre 1992. Contemporaneamente le brigate di ritorno dalle campagne dell’Erzegovina risalirono il fiume da est conquistando Vitkovići e Zupčići dopo esser partiti da Čajniče. La mossa a tenaglia di Mladić isolò completamente la città e costrinse gli uomini del comandante bosgnacco Zaim Imamović ad asserragliarsi progressivamente nel centro urbano. Le radiofrequenze provenienti dalla Drina restituivano una città allo stremo, sottoposta notte e giorno a bombardamenti che contemplavano anche l’utilizzo di gas letali vietati dalla Convenzione di Ginevra. La situazione precipitò ulteriormente tra l’8 e il 9 aprile, quando i colpi d’artiglieria ormai interessavano direttamente il centro urbano dove erano accampati numerosi profughi. L’ospedale e il municipio furono pesantemente presi di mira. 

Ciononostante, ci vollero altre 24 ore di sofferenza per una prima incursione NATO. Il 10 aprile davanti all’evidenza del massacro venne autorizzato l’intervento della NATO sulle forze di terra serbe: due F16-C decollati da Aviano sganciarono tre bombe Mark 85 sulle truppe d’attacco, colpendo due carri armati e un camion.  Il 16 aprile il dramma raggiunse il suo apice. Tra i carri armati e l’ospedale ormai intercorrevano solamente pochi chilometri e i colpi di cannone bersagliavano l’edificio ripetutamente. Ancora una volta la diplomazia internazionale preferì interpretare, assecondare e storicizzare il nazionalismo invece che estirparlo alla radice. E mentre i colloqui procedevano a rilento, in città si continuava a morire: il 17 aprile vennero uccise 37 persone. Quello stesso giorno, dopo che il mese precedente aveva assicurato il contrario, il Generale Rose ammise: «la città è in balia serba e si rischia la crisi umanitaria» (Zlatko Dizdarevic, Gigi Riva, L’ONU è morta a Sarajevo, 1995).

Il tanto agognato intervento NATO venne deliberato il 18 aprile. Il 19 Clinton chiese l’inasprimento dei bombardamenti ma, come successe per Sarajevo, le necessità della realpolitik ebbero la meglio sulle sofferenze dei civili. Gli interventi diplomatici russi e francesi contro l’intensificazione delle azioni NATO sedarono le inclinazioni guerrafondaie americane costringendo le parti a una risoluzione corale. Il 22 aprile venne convocato d’urgenza il Consiglio dell’Alleanza Atlantica con l’obiettivo di imporre la pace a Goražde. Nuovamente a primeggiare fu l’idea di una ripartizione egualitaria delle responsabilità tra bosgnacchi e serbo-bosniaci: presupposto necessario per contingentare il coinvolgimento internazionale nelle sabbie mobili bosniache. In secondo luogo, fu varata la Risoluzione 924 che disciplinava l’immediato cessate il fuoco da entrambe le parti. Ai serbi venne impartito l’obbligo di allontanarsi di almeno 3km dal centro della città entro il 24 aprile e a 20km entro il 27, mentre, sia agli assediati che agli assedianti fu imposto l’ordine di rimettere gli armamenti sotto il controllo dei militari dell’ONU. In pratica, si pretendeva di disarmare anche gli stessi abitanti della città che avevano resistito strenuamente con le poche armi in loro possesso. Ancora una volta la frontiera tra vittime e carnefici risultava estremamente porosa. I nazionalisti di Pale accettarono la Risoluzione ma ottennero la legittimazione sul 15% delle terre prima gestite dai musulmani. Gli aggressori si ritirarono dietro alla vecchia linea di sicurezza ma nel farlo diedero fuoco a tutto ciò che incontrarono, restituendo ai bosgnacchi una terra ustionata. Il 24 sera entrano in città i militari dell’UNPROFOR ucraini e francesi e il 27 le truppe serbe effettivamente si ristabilizzano oltre la linea dei famosi 20 chilometri. In meno di un mese l’enclave era stata sporzionata dagli attacchi serbi, riducendosi da 350 a 35kmq. Durante l’offensiva Stella 1994 furono conteggiate 716 vittime e più di più di 2000 feriti. Come scrisse Pirjevec: «invece che il “modello Sarajevo” a Goražde era stato instaurato il “modello Srebrenica”, dato che l’UNPROFOR si era impegnata a disarmare la popolazione e a rinchiuderla in un perimetro ristretto, completando così, come scrisse con amaro sarcasmo El Pais, la pulizia etnica “per ragioni umanitarie”».

La crisi di Goražde può insegnare molto se interrogata in maniera corretta, ma più di ogni altra cosa ci spiega che quando due forze imperialiste si affrontano attraverso l’utilizzo d’artiglieria pesante, a pagarne le conseguenze sono principalmente i civili. Goražde alla fine si è salvata eroicamente, ma le conseguenze della guerra pesano ancora nel suo presente. In Ucraina, come fu per la Bosnia, non è una questione di prendere una parte tra i due duellanti, ma di comprendere che questi conflitti ripartiscono il proprio peso principalmente sulle spalle del popolo innocente. A distanza di un quarto di secolo cosa replicare ipoteticamente ad Alexander Langer? In termini morali l’Europa è morta a Sarajevo? Forse rispondere a questo vecchio quesito potrebbe aiutare a risolvere quelli attuali.

Andrea Caira (Cosenza, 1991), ricercatore e giornalista freelance. Collabora con l’Intellettuale Dissidente, Hotpotatoes, Pop ilgiornalepopolare.it, Geopolitica.info, Iari (Istituto Analisi Relazioni Internazionali). Per "Mimesis" ha pubblicato il saggio "La resistenza oltre le armi - Sarajevo 1992-1996".

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