L’illusione della globalizzazione fiscale
Il gigantesco pacchetto di stimoli fiscali elaborato dall’amministrazione Biden e recentemente approvato dal Congresso ha suscitato grandi speranze, nonostante gli enormi problemi legati alla sua applicazione pratica. In concreto, il governo prevede di finanziarlo tramite «il più grande aumento delle tasse mai visto dal 1942», a carico delle fasce alte della società e delle aziende. Secondo i calcoli di Washington, i circa 2.000 miliardi di dollari richiesti dal piano dovrebbero essere rastrellati mediante l’innalzamento delle aliquote relative ai prelievi sugli utili societari (dal 21 al 28%) e sui profitti delle imprese multinazionali Usa realizzati all’estero (dal 10,5 al 21%). Per evitare che l’inasprimento della pressione fiscale all’interno dei confini statunitensi accentui ulteriormente la già spiccatissima propensione delle imprese Usa a spostare la propria sede fiscale all’estero e a ricorrere al fenomeno dell’estero-vestizione per sfuggire al fisco nazionale, Biden e il suo segretario al Tesoro Janet Yellen hanno cercato di richiamare l’attenzione della comunità internazionale sulla necessità di porre fine alla competizione fiscale in cui gli Stati Uniti sono pienamente coinvolti quantomeno dal 2010.
In quell’anno, mentre annunciavano pubblicamente l’intenzione di porre l’abolizione del segreto bancario in cima alla scala delle priorità, governo e Congresso ufficializzavano l’introduzione del Foreign Account Tax Compliance Act (Fatca), una legge che impone a qualsiasi istituzione finanziaria, sia statunitense che straniera, di fornire alle autorità tutte le informazioni riguardanti i clienti statunitensi. Dietro sollecitazione di Washington, i Paesi membri dell’Ocse emularono l’esempio Usa mettendo a punto una normativa modellata sul calco del Fatca finalizzata all’introduzione di uno schema mondiale di scambio di informazioni concepito per permettere alle autorità competenti di stanare gli evasori fiscali. Dal 2014, un numero crescente di Paesi ha sottoscritto la normativa Ocse, compresi Svizzera e Lussemburgo, ma non gli Stati Uniti. I quali, dopo aver richiesto e ottenuto trasparenza dal resto del mondo, si sono guardati bene dal ricambiare il favore consentendo così ad alcuni Stati federali di mantenere il loro elevatissimo livello di opacità finanziaria.
I duri colpi rimediati dalla concorrenza estera hanno assicurato a Delaware, Nevada, South Dakota e Wyoming la possibilità di consolidare la loro posizione di paradisi fiscali on-shore presso cui un centinaio di multinazionali hanno trasferito la propria sede. Comprese quelle statunitensi. È il caso di Apple, che nel 2005 ha fondato Braeburn Capital, sussidiaria incaricata di gestire l’ingente patrimonio liquido della società, domiciliandola a Reno. Scelta tutt’altro che casuale, dal momento che il regime fiscale del Nevada non prevede né la corporate tax né l’imposta sul capital gain.
Impiantando la sede di Breburn Capital in mezzo al deserto del Nevada, Apple ha avuto modo non soltanto di sottrarre i profitti sulla liquidità investita al regime fiscale della California, ma anche di alleggerire il carico fiscale in Stati federati quali Florida, New Jersey e New Mexico, le cui giurisdizioni allineano la tassazione della società principale a quella cui è sottoposta la sua sussidiaria domiciliata in un altro Stato. Il precedente ha quindi spinto gli altri colossi della Silicon Valley ad esercitare pressioni sullo Stato della California affinché adottasse il regime fiscale in vigore in Florida, New Jersey e New Mexico dietro la minaccia di fondare a loro volta proprie società finanziarie nel vicino Nevada per aggirare la tassazione californiana. Dopo un lungo braccio di ferro accompagnato da un’emorragia di capitali culminata con un calo di 1,5 miliardi di dollari di gettito fiscale, la California ha ceduto allineando il proprio regime fiscale a quelli indicati dalle grandi aziende della Silicon Valley.
La combinazione tra il livellamento verso il basso indotto dall’attività lobbistica delle grandi imprese hi-tech e la diffusione generalizzata della normativa Ocse che ha imposto ai Paesi firmatari un giro di vite sulle norme in materia di spostamento e deposito dei capitali ha consentito agli Stati Uniti di scalare con estrema rapidità le posizioni del Financial Secrecy Index. Nella graduatoria relativa all’anno 2020 redatta dall’autorevole centro studi Tax Justice Network per classificare i Paesi in cui il segreto bancario è più forte, gli Stati Uniti precedono addirittura le Isole Vergini, il Lussemburgo, la Svizzera e Singapore, pesantemente colpiti dall’entrata in vigore della normativa Ocse. «Gli Stati Uniti sono il più grande paradiso fiscale al mondo», ha commentato Andrew Penney, managing director del gruppo Rothschild. Stefanie Ostfeld, coautrice di un’approfondita inchiesta in materia, ha rincarato la dose affermando che «gli Stati Uniti sono divenuti da parecchio tempo uno dei “porti franchi” più frequentati da politici corrotti, cartelli della droga, organizzazioni terroristiche e grandi evasori fiscali […]. Utilizzando una società anonima statunitense, qualsiasi criminale può facilmente nascondere la propria identità e la provenienza del denaro». Si calcola che, grazie al Foreign Account Tax Compliance Act, gli Stati Uniti abbiano visto aumentare i flussi di capitale mondiali transitanti nel loro “Far West fiscale” dal 19,6% alla fine del gennaio 2016 al 22,3% alla fine del gennaio 2018, con un’impennata registrata in seguito all’emergere dei cosiddetti Panama Papers.
Il Fatca ha giocato un ruolo di indubbio rilievo per quanto concerne la riorganizzazione dei flussi mondiali di liquidità a vantaggio degli Stati Uniti, incrementandone la capacità di attrarre capitale finanziario dall’estero in maniera confacente alle pianificazioni assai poco ortodosse dell’amministrazione Trump. Sotto cui i negoziati mirati all’uniformazione dei livelli minimi di tassazione sulle imprese sono stati brutalmente sospesi in nome di un inasprimento della competizione fiscale – tra il 2000 e il 2018, ben 76 Paesi del mondo hanno ridotto i prelievi sui profitti delle società – attuato tramite la riforma Tax Jobs and Cuts Act (Tjca). La quale ha comportato un ulteriore abbassamento del carico impositivo per le imprese, oltre che l’allargamento della già vasta platea di scappatoie legale di cui 55 colossi aziendali statunitensi si sono avvalsi per non pagare alcuna tassa federale nel 2020, sebbene l’aliquota reale applicata nei confronti delle società ricomprese nell’elenco Fortune 500 ammontasse ormai a un insignificante 11%.
Si tratta di un rovescio pesantissimo per le classi medie, che già nel 2018, con l’entrata in vigore del Tcja, avevano pagato per la prima volta nella storia degli Stati Uniti un’aliquota fiscale effettiva – calcolata sommando le tasse federali a quelle statali e a quelle locali – superiore alla fascia super-élitaria della società, composta da poco più di 400 famiglie; 23 contro 24,2%. Un risultato di particolare impatto, ma perfettamente coerente con il processo involutivo che ha visto gli Stati Uniti sprofondare in un progressivo incremento della disuguaglianza fiscale in conseguenza della torsione della struttura economica nazionale in funzione degli interessi riconducibili al settore Finance, Insurance and Real Estate. Subito dopo l’ascesa al potere di Reagan nel 1980, quando la corporate tax era del 45% e il più alto scaglione dell’imposta sui redditi (l’equivalente dell’Irpef italiana) del 90%, l’affermazione del principio di regressività è proceduta di pari passo con il trasferimento del carico fiscale sui consumatori, sul risparmio e sulla previdenza. Per le autorità di Washington, questo big shift appariva necessario ad accumulare un gettito sufficientemente imponente da compensare l’ammanco scaturito dalla combinazione tra abbassamento delle aliquote per le aziende disposte a mantenere la sede fiscale negli Usa, espatrio dei profitti da parte delle imprese intente a spostarsi verso i paradisi fiscali e vigorosi tagli delle tasse attuati nel corso dei decenni nei confronti dei ceti collocati sulla sommità della piramide sociale. Con il risultato che, ad oggi, come denunciano gli economisti Emmanuel Saez e Gabriel Zucman, «ogni gruppo sociale versa nelle casse pubbliche dal 25 al 30% del proprio reddito, a eccezione dei super-ricchi, che versano appena il 20%. Il sistema fiscale americano si è ridotto a una gigantesca flat tax, tranne nella coda alta della distribuzione, dove diventa regressivo […]. Come gruppo sociale, e con tutte le differenze tra gli uni e gli altri, in America i Trump, i Zuckerberg e i Buffett pagano meno tasse di insegnanti e segretarie» (1).
Nell’ottica dell’amministrazione Biden, la necessità di reperire un gettito sufficiente a finanziare il suo colossale piano di investimenti si incrocia con quella di plasmare una struttura tributaria maggiormente equilibrata, e giustifica quindi l’intensificazione delle pressioni sugli altri Paesi dell’Ocse affinché concedano il proprio appoggio alla global minimum tax e alla digital tax proposti dalla Yellen. Il principale ostacolo in tal senso è indubbiamente costituito da nazioni come Irlanda, Olanda e Lussemburgo, le quali molto difficilmente rinunceranno agli ampi benefici garantiti dal dumping attuato a danno di Stati membri dell’Unione Europea dotati di una maggiore pressione fiscale. Per Paesi come Italia, Francia e Germania, la concorrenza fiscale esercitata dai loro vicini ha innescato un esodo di sedi legali tradottosi in un drastico restringimento delle basi imponibili. Il “rimedio” elaborato dalle autorità politiche è in larga parte consistito in un accanimento sistematico sulle già tartassate classi medie che non hanno la possibilità di spostarsi all’estero, associato alla cosiddetta “lotta al contante”.
Presentata come una sorta di crociata anti-evasione, la linea fondata sull’incentivazione dei pagamenti elettronici ha in realtà garantito agli istituti di credito una fonte di ricavi a cui attingere per compensare bassi tassi di interesse e commissioni in calo senza bloccare il processo di erosione del gettito. Anche perché non sostenuta da concrete riforme domestiche né da alcun tipo di misura atta a contrastare le pratiche di gran lunga più penalizzanti adottate dai paradisi fiscali – soltanto Olanda e Lussemburgo sottraggono agli altri Paesi del mondo un gettito quantificato complessivamente in 55 miliardi di euro dall’ultimo rapporto di Tax Justice Network. Per gli Usa, la proliferazione dei fenomeni dell’estero-vestizione e dell’arbitraggio fiscale ha comportato un crollo del gettito da 396 miliardi di dollari del 2014, ai 385 del 2015 e ai 365 del 2016; con l’entrata in vigore del Tjca, il processo di restringimento dell’imponibile ha subito una brusca accelerazione, arrivando a toccare la soglia dei 271 miliardi nel 2018, a fronte di un volume di buyback in costante incremento.
Anche qualora la politica miope, contraddittoria e conflittuale condotta sinora dall’Ocse in materia di fiscalità dovesse concretamente cedere il passo ad un atteggiamento più pragmatico e incline alla cooperazione transnazionale, è irrealistico aspettarsi concessioni univoche dal fronte dei paradisi fiscali – specialmente per quanto concerne la proposta più “oltranzista” di spostare la tassazione dagli utili al fatturato a seconda del Paese in cui viene realizzato. Non solo per l’atteggiamento assai poco lineare e coerente tenuto dagli Stati Uniti nel momento in cui si era trattato di istituire un accordo di collaborazione internazionale per lo scambio di informazioni sull’operato delle grandi multinazionali, ma anche a causa della complessità e della eterogeneità dei meccanismi utilizzati per determinare il prelievo. In generale, i sistemi fiscali adottati dai vari Paesi membri dell’Ocse differiscono profondamente non solo per le aliquote nominali che applicano, ma anche – e soprattutto – per il diverso peso che attribuiscono a parametri cruciali quali luogo e modalità del prelievo, tempi di pagamento, individuazione dei soggetti da sottoporre a tassazione, delimitazione della base imponibile, riconoscimento di esenzioni e concessione di trattamenti preferenziali alle grandi imprese. La stessa misurazione dei profitti cambia sostanzialmente da Paese a Paese, perché influenzata da deduzioni relative ad ammortamenti, guadagni tassati all’estero, contributi sociali, operazioni infragruppo, oneri legati a interessi, perdite, ecc. sui quali ogni Stato applica trattamenti diversi a seconda della proprie necessità e caratteristiche specifiche. In tali condizioni, il raggiungimento di un’intesa limitata alla definizione di aliquote minime nominali ridimensionerebbe in misura assai modesta il campo della competizione fiscale concentrandola sugli altri fattori di diversità che caratterizzano i vari Paesi membri dell’Ocse; molto semplicemente, l’equazione sulla base della quale le imprese multinazionali determinano i loro arbitraggi fiscali conterrebbe – nella migliore delle ipotesi, poiché assai raramente le aliquote nominali coincidono con quelle effettive – una variabile in meno.
Nello scenario più probabile, le lunghe e complesse trattative intavolate per iniziativa statunitense produrranno un mediocre compromesso, implicante un innalzamento dell’aliquota nominale appena percettibile che consenta tuttavia al governo di Washington di intestarsi la paternità politica dell’inversione della tendenza alla bassa pressione fiscale nei confronti delle multinazionali, senza privare Irlanda, Olanda, Lussemburgo, ecc. del loro status di porti franchi. Una soluzione “gattopardesca”, i cui pur insignificanti effetti risulterebbero per di più completamente vanificati dall’ampio ventaglio di appigli legali che i regimi vigenti continuano a offrire alle multinazionali per eludere il fisco. Lo stesso piano di ammodernamento delle infrastrutture nazionali messo a punto dall’amministrazione Biden prevede di affidare parte assai cospicua dei relativi investimenti alle imprese, mediante l’erogazione di crediti fiscali che indirizzino i capitali privati verso i settori sensibili delle energie rinnovabili, della ricerca, dell’edilizia scolastica, ecc. In altri termini, le aziende potranno continuare a ridurre artificialmente l’obbligazione tributaria, purché conducano strategie di investimento in linea con gli obiettivi del governo.
Per cui, nel momento in cui gli organi di vigilanza o una qualche forza politica dovessero contestare alle imprese la macroscopica sproporzione tra guadagni ottenuti e tasse pagate, queste ultime avrebbero buon gioco a modulare le proprie risposte sulla falsariga del comunicato formulato recentemente dall’ufficio stampa di Amazon. Dinnanzi al clamore suscitato in Europa da un’inchiesta condotta dal «Guardian» in cui si evidenziava come, per l’anno 2020, la filiale europea del colosso dell’e-commerce – a cui fanno capo le vendite realizzate in Italia, Germania, Francia, Olanda, Spagna, Polonia e Svezia – non aveva versato un euro di tasse nonostante ricavi per 44 miliardi di euro, i portavoce di Amazon si sono limitati a sottolineare che l’azienda «paga tutte le tasse richieste in ogni Paese in cui opera. L’imposta sulle società si basa sui profitti, non sui ricavi, e i nostri profitti sono rimasti bassi a seguito dei nostri ingenti investimenti e del fatto che la vendita al dettaglio è un’attività altamente competitiva e con margini ridotti. Abbiamo investito ben oltre 78 miliardi di euro in Europa dal 2010 e gran parte di tale investimento è in infrastrutture che creano molte migliaia di nuovi posti di lavoro, generano entrate fiscali locali significative . Ora abbiamo 60 centri logistici, oltre 100 uffici aziendali e centri di sviluppo e oltre 135.000 dipendenti a tempo pieno in tutta Europa. E ci sono oltre 100.000 venditori terzi con sede nell’Unione Europea». Denunciando al fisco del Lussemburgo, dove Amazon ha spostato da anni la propria sede europea, perdite per 1,4 miliardi a fronte di ricavi di 12 miliardi di euro superiori rispetto all’anno precedente, Amazon si è aggiudicata un credito d’imposta da 56 milioni che è andato a sommarsi alle agevolazioni fiscali per 250 milioni concordate nel corso degli anni precedenti con le autorità del Granducato.
Note
1 – Emmanuel Saez; Gabriel Zucman, Il trionfo dell’ingiustizia. Come i ricchi evadono le tasse e come fargliele pagare, Einaudi, Torino 2020, p. 15.