La fine del regime di Gheddafi, dieci anni dopo: le ragioni profonde di un crollo
Con piacere presentiamo un estratto del saggio dell’analista geopolitico Leonardo Palma, “Gheddafi”, dedicato alla fase finale della vita e alla carriera politica del Rais libico prima della rivolta del 2011, di imminente uscita per i tipi di “Historica”, annunciato nel decennale della morte del Colonnello, il 20 ottobre scorso. Una ricostruzione storica del contesto geopolitico della Libia dell’epoca, delle motivazioni che portarono le potenze occidentali a far guerra a Gheddafi e delle lotte di potere nel clan di potere di Tripoli arricchita da fonti d’archivio e da interviste ai protagonisti delle vicende tra cui il generale Rob Weighill, comandante delle operazioni congiunte della Nato, Franco Frattini, ministro degli Esteri italiano, Sir Mark Allen, capo del controterrorismo dell’MI6, Giampiero Massolo, segretario generale del Maeci e direttore del DIS, e Lord Peter Ricketts, consigliere per la sicurezza nazionale di David Cameron.
A causa della guerra civile scoppiata nel 2012 e dei torbidi che le hanno fatto seguito, giornalisti, commentatori e politici hanno cominciato a parlare con nostalgia del tempo di Gheddafi ammettendo che la Libia, sebbene non una democrazia, perlomeno fosse un paese stabile. A ben guardare, non lo era affatto. Possiamo affermare che, sotto la superficie e al di là di una comoda narrativa di opportunità, la Libia di Muhammar Gheddafi non fosse in condizione di sopravvivere. Scrive Lisa Andersen: “Come molte delle sue controparti nel XX secolo, anche questo era un regime destinato ad autodistruggersi”. L’accordo di Londra del 2003, dunque il ritorno della Libia nella comunità internazionale, fu foriero di una serie di conseguenze e obbligazioni che Gheddafi non poté prevedere né trovarvi soluzione. Da quel momento, ogni sua azione fu fondamentalmente impostata per guadagnare più tempo possibile prima che il popolo si accorgesse che il re era nudo. Sayf fu funzionale a questa tattica temporeggiatrice agendo come una buona cortina fumogena, indipendentemente da quanto egli fosse intimamente convinto della possibilità di una Libia riformata e democratica. Forse, scevro da insensati idealismi, ad un certo momento si convertì all’idea di un modello tunisino, uno Stato di polizia con qualche libertà economica associata ad una limitata e ben controllata distribuzione della rendita petrolifera. Quale che fosse il suo obiettivo ultimo, presto, di fronte alla resistenza opposta da suo padre, dai suoi ambiziosi e violenti fratelli e dai fanatici del regime contrari a qualunque riforma del sistema in cui sguazzavano, lo colse l’apatia e la prostrazione, confessando alle persone a lui più vicine che si sentiva ormai posto di fronte ad un compito impossibile. Sayf, tormentato com’era da moventi contrastanti e da sentimenti complessi, si era indubbiamente spinto ben oltre i limiti che gli oltranzisti erano disposti a digerire; non importa quanto volentieri o consapevolmente, ma il primogenito del Leader aveva fornito una cornice para-istituzionale – il NES e il Board of Development – a quei sinceri riformisti che, prendendo coraggio, avrebbero infine disertato per trasformarsi in rivoluzionari e una certa copertura politica al popolo stesso che ormai, e sempre più insistentemente, chiedeva la verità sulle violenze del passato e sulla corruzione del regime. Sayf riuscì così ad inimicarsi l’ala più fanatica e conservatrice del regime mentre dava al popolo libico una maggiore consapevolezza della propria forza politica e uno sguardo su “ciò che [la Libia] avrebbe potuto essere” in altre circostanze. A fine gennaio 2010, le testate giornalistiche riformiste, fiorite sotto il patrocinio di Sayf, furono chiuse o prese d’assalto e in novembre tutti i media a lui riferibili sospesi dalla messa in onda per ordine del primo ministro Ali Mahmudi. Decine di giornalisti vicini al figlio del Leader e notoriamente riformisti furono arrestati, altri minacciati, altri ancora licenziati. Il giovane Gheddafi capì di aver perduto la sua battaglia e decise di ritirarsi in gran segreto a Londra dove possedeva una proprietà nell’area di Hampstead. In quel periodo confidò ad alcuni amici di essere “stanco di Tripoli” e di avere ormai “troppi nemici che girano intorno a mio padre”. Sul finire del 2009, con Mu‘tassim inviato dal Colonnello negli Stati Uniti per incontrare il segretario di Stato Hillary Clinton, Sayf sembrava sconfitto.
Il Colonnello, forse, aveva dato a suo figlio tutta la corda che si sentiva di dare o che avrebbe voluto dargli, [tuttavia] si trovò a subire le pressioni di coloro che, per trent’anni, avevano fatto il lavoro sporco per lui [e che temevano] che Sayf avrebbe creato una situazione che ben presto il regime non sarebbe più stato in grado di controllare. O forse Gheddafi si stava semplicemente divertendo a fare i giochi che aveva sempre fatto.
Mentre Sayf trascorreva il suo esilio autoimposto a Londra, i suoi fratelli minori continuarono con spregiudicatezza assoluta a contendersi i loro feudi di potere. Dopo la storia della soubrette e il fallimento della sua carriera di produttore cinematografico, nel 2008 il Colonnello aveva deciso di dare una seconda possibilità a Sa‘adi affidandogli la gestione del “Corridoio di Zwara”, un’iniziativa multimiliardaria per la realizzazione di un polo industriale e turistico sulla costa libica. Il faraonico progetto scatenò una guerra tra Sa‘adi e Hannibal, il cui feudo erano gli affari marittimi e portuali, nello stesso periodo in cui quest’ultimo era già coinvolto nella lotta con il fratellastro Muhammad per il controllo di una filiale della Coca-Cola. Mu‘tassim, inebriato dalla nomina a Consigliere per la sicurezza nazionale di suo padre, fece pressioni su Shukri Ghanem, all’epoca presidente della NOC, e sul primo ministro Ali Mahmudi affinché trasferissero fondi dello Stato sui propri conti per meglio equipaggiare e finanziare una milizia di pretoriani che potesse sostituire quella del fratello minore Khamis, la temutissima 32ª Brigata.
Ricevendo un inaspettato rifiuto, Mu‘tassim minacciò il primo ministro di mettere il bilancio di vari ministeri sotto il controllo del suo Ufficio per la Sicurezza Nazionale. Sentendosi in trappola, Mahmudi si confidò con Shalgam il quale a sua volta lo esortò a non cedere alla paura e ad informare il Leader del comportamento sempre più selvaggio del figlio. Gheddafi capì, riprese il timone e gli impresse una sterzata, licenziando Mu‘tassim alla fine del 2010. Nelle settimane precedenti l’inizio delle rivolte, in casa Gheddafi sembrava dunque regnare il caos: Sa‘adi e Hannibal erano in guerra tra di loro, Mu‘tassim fuori controllo, Sayf in esilio e il Leader appariva sempre più depresso e catatonico o irascibile e furibondo al punto che, durante una discussione particolarmente violenta con i figli, avrebbe estratto un revolver e sparato in aria. Apparentemente, in Libia nessuno era più saldamente al comando.
Nel novembre 2010, Nuri al-Mismari, confidente di lunga data di Gheddafi e storico capo del protocollo, raggiunse la Francia per ricevere alcune cure specialistiche e disertò. Le circostanze dietro la sua partenza non furono mai chiarite, né è chiaro cosa abbia raccontato ai Servizi segreti francesi (DGSE) durante il debriefing ma, secondo fonti giornalistiche, Mismari intese vendicarsi della morte del figlio, assassinato nel 2007 per ordine di Mu‘tassim a causa di un cattivo affare, offrendo ai francesi una serie di informazioni che avrebbero aperto la strada, qualche mese più tardi, all’intervento militare contro il regime.
Il Colonnello fu colto alla sprovvista dalla defezione di Mismari, un campanello di allarme che lo indusse a confiscare i passaporti di altri funzionari e ad inviare emissari per convincere il disertore a tornare. ‘Abd al-Rahman Shalgam, sostituito da Musa Kusa al ministero degli Esteri e da poco nominato ambasciatore della Libia all’Onu, incontrò Gheddafi più o meno nello stesso periodo. Il Leader gli confidò di essere amareggiato per il ridicolo che il regime e i suoi figli si stavano attirando addosso, che il morale stava rapidamente deteriorando anche tra i fedelissimi e che cominciava a temere per il futuro.
Alla vigilia della rivoluzione qualcosa di strano stava accadendo in Libia. Dall’esterno, sembrava che il paese stesse proseguendo lungo un percorso di modernizzazione e riforme, con un’economia in pieno boom, un aumento degli investimenti stranieri, degli affari commerciali e delle riserve di liquidità al punto che nel 2008, nonostante Goldman Sachs avesse perso più di un miliardo di dollari in operazioni speculative gestite dalla LIA, la stessa Lehman Brothers ipotizzò un salvataggio con fondi libici prima di dichiarare fallimento ma rifiutò nella consapevolezza che parte di quel denaro fosse di provenienza illecita. Di fronte ad un’economia in caduta libera dopo la crisi dei mutui sub-prime e prossima ad una Grande Recessione, la Libia appariva come un porto sicuro; il PIL era cresciuto tra il 2004 e il 2010 ad una media del 5% annuo e le riserve straniere erano cresciute dai 20 miliardi di dollari del 2003 ai 170 miliardi del 2010. Il governo libico annunciò che tra il 2010 e il 2012 avrebbe speso 66 miliardi di dollari in infrastrutture portuali, sviluppo industriale, aviazione civile e trasporto pubblico. La stessa Tripoli, con gru e cantieri sparsi un po’ ovunque, assomigliava ormai a Dubai nei primi anni 2000. Il Colonnello veniva percepito come un leader invecchiato, imprevedibile, stravagante e misterioso ma ancora in grado di tenere la nave. Nel 2009, tuttavia, l’avvento di una nuova generazione di politici come Barack Obama e David Cameron portò la Libia ben al di là degli interessi occidentali e, dopo lo scandalo WikiLeaks del 2010, il rapporto tra Stati Uniti e Libia subì una brusca involuzione. Le migliaia di mail e documenti diplomatici riservati testimoniavano la sfiducia nei confronti di Gheddafi da parte americana e una visione dello stesso ancora profondamente caricaturale, giudizi che fecero infuriare il Colonnello non tanto, o non soltanto, sul piano personale ma perché mettevano in crisi la sua credibilità davanti al popolo e alla sua cerchia più ristretta. “Dunque è questo che gli americani pensano davvero del Leader?”.
Nello stesso periodo molte aziende statunitensi, come Chevron e Occidental Petroleum, iniziarono a lasciare il paese. Nel 2009 l’orizzonte dell’industria energetica libica appariva ormai meno radioso di quanto non fosse nel 2005 e i media internazionali iniziarono a riempirsi di catastrofiche previsioni, osservando che la Libia non si era rivelata quel Klondike petrolifero che molti avevano sperato e dando spazio a voci insistenti secondo cui Gheddafi, ispirato dal suo alleato venezuelano Hugo Chavez, stesse accarezzando l’idea di nazionalizzare nuovamente il settore. Complessivamente, le compagnie straniere operanti in Libia avevano scoperto 2.16 miliardi di barili di greggio e 7.87 miliardi di metri cubi di gas naturale in cinque anni, un risultato molto al di sotto di qualunque aspettativa. E mentre alcune società, tra cui la brasiliana Petrobas, l’indonesiana Medco Energi, l’indiana Oil India e la Sonatrach algerina, preferirono continuare ad estendere le proprie concessioni, altre come l’australiana Woodside e l’emiratina Liwa Energy cancellarono gli accordi e si ritirarono. Nel 2006 molti analisti dell’energia, tra cui Daniel Yergin, credevano che il prezzo del petrolio avrebbe presto superato i 100 dollari al barile; un’opportunità unica per la Libia qualora avesse concentrato i suoi sforzi nell’aumento della produzione piuttosto che sulla ricerca di nuovi giacimenti.
Nel biennio 2008-2009 quelle previsioni furono però superate dalla possibilità di un “oil-glut” provocato dalla crescita dell’offerta di gas naturale, un mutamento che rendeva le aspettative degli operatori economici in Libia piuttosto tetre. Ciò che stava succedendo all’industria petrolifera libica, tuttavia, aveva più a che fare con le scelte del regime e lo stato delle infrastrutture che non con l’andamento internazionale dei prezzi: la legislazione era ferma al 1955, la NOC di Ghanem commissariata da una nuova autorità governativa per l’energia supervisionata da Mu‘tassim e dal governo; i lavori di ristrutturazione e sviluppo delle infrastrutture e dei giacimenti bloccati dalla burocrazia e dalla endemica corruzione; i campi già attivi, potenzialmente capaci di produrre a ritmi più elevati come suggerito da Yergin, abbandonati ad un costante declino in favore della più lucrosa esplorazione di nuovi blocchi. Per di più, molte majors cominciarono a temere gli effetti sul lungo periodo di una crisi interna al regime: sebbene il Mukhabarat avesse fatto il possibile per tenere l’opinione pubblica all’oscuro delle vicende private del clan Gheddafi, è possibile che dirigenti delle principali compagnie dell’energia, molte delle quali operanti in Arabia Saudita, fossero stati messi in guardia proprio dai sauditi. Voci di altre diserzioni si alternavano ai pettegolezzi sull’esaurimento nervoso del Leader e sullo scontro fratricida tra S’adi, Mu‘tassim e un Sayf caduto in disgrazia, proprio mentre l’ala più fanatica sembrava aver ripreso il controllo del regime. Allo stesso tempo, la Cirenaica sembrava essere avvolta da un’insolita calma. Era la quiete prima della tempesta.
da Palma, L., Gheddafi. Ascesa e caduta del ra‘is libico, Historica Edizioni, Ottobre 2021, 261-267.
Per ordinare una copia del libro: http://www.historicaedizioni.com/libri/gheddafi/
Samuele
Insomma la spinta franco-angloamericana è stato un gesto pietoso di eutanasia? 🙂 Forse dovremmo perfino ringraziarli per aver aperto alla Libia l’occasione di un futuro radioso senza il re e i suoi principi…Mah
Samuele
Insomma la spinta franco-angloamericana è stato un gesto pietoso di eutanasia? 🙂 Forse dovremmo perfino ringraziarli per aver aperto alla Libia l’occasione di un futuro radioso senza il re e i suoi principi…Mah
Pingback: 2011, attacco all'Italia: la mano francese dietro la caduta di Berlusconi