La fine dell’eredità ricostruzionista e il ritorno del mito di “Dixie”
È notizia degli ultimi giorni che lo stato del Mississipi ha approvato per se stesso una nuova bandiera istituzionale dopo aver rimosso, in seguito all’approvazione del proprio congresso, lo stendardo da guerra degli Stati Confederati d’America, la ben nota Dixie’s Flag, dalle sue insegne.
Un atto senza precedenti se consideriamo che la croce di Sant’Andrea blu su sfondo rosso, campeggiava sugli emblemi statali sin dalla Guerra di Secessione, dove il paese di Tom Sawyer aveva partecipato come protagonista assoluto all’interno delle undici colonie ribelli della Confederazione.
La decisione del Congresso del Mississipi era giunta su pressione di petizioni, dichiarazioni della politica nazionale e proteste connesse alla morte per mano della polizia di Minneapolis di Georges Floyd, egemonizzata sin dai primi momenti dal movimento Black Lives Matter.
Il risollevarsi (in maniera sicuramente più incendiaria e duratura delle passate occasioni) della polemica negli Stati Uniti su monumenti, simboli, celebrazioni legati alla memoria confederata, crea in Italia sempre un certo sconcerto e stupore, correlati al mero fatto che tali simboli abbiano cittadinanza politico-istituzionale e spesso siano stati impiantati tra la fine dell’800 e l’inizio del secolo scorso (a pochi anni, quindi, dal termine della guerra).
Molto spesso infatti, ai commentatori europei tende a sfuggire il concetto stesso di Ricostruzione per come inteso negli Stati Uniti del Dopoguerra secessionista.
In effetti, la stessa idea di “pacificazione nazionale”con cui viene solitamente tradotto il programma culturale e politico avviato dagli USA nel Sud, può destare confusione visto che orienta a credere che quello scontro fosse vissuto da ambo le parti come civile (ed è questa la lettura imposta nell’Era Ricostruzionista, al punto da bandire il termine con cui in Europa ci riferiamo al conflitto di Guerra di Secessione americana).
A rigor di storia in realtà, gli Stati Confederati d’America non si concepivano affatto come una sorta replica meridionale degli USA che intendeva avversare un Nord centralista e anti-costituzionale, come l’automatica equazione con ciò che è oggi il conservatorismo costituzionale statunitense ci porta molto spesso a inquadrare la ribellione “sudista”.
E il termine yankee,a cui oggi vogliamo dare una sfumatura di significato che oscilla tra Americani delle grandi città/New England o “Nord“, nelle ballate stava invece ad indicare proprio quello che intendevano gli inglesi un secolo prima: gli statunitensi.
In tutti i documenti promulgati dalle autorità politiche e militari degli Stati Confederati, la guerra era definita come di aggressione non civile: gli apparati istituzionali di cui si dotò la Confederazione erano volutamente distinti da quelli statunitensi (un Congresso monocamerale, privo di partiti, con leggi elettorali in fase di definizione) e non si era ancora redatta una nuova Costituzione perché tra la tendenze manifestatesi nella dirigenza politica del nuovo stato vi era anche la richiesta di adesione al Commonwealth of Nation sul modello del Canada. Significativo il ricalco (sia nella melodia che nel testo) all’Impero Britannico contenuto nell’inno ufficiale della Confederazione, God Save the South, del poeta di Baltimora George Henry Miles.
Tra i canti bellici ufficiosi, ma utilizzati come marce dalla Compagnia della Virginia Orientale e dal resto delle forze armate confederate, vi era la ballata I’m a Good Ol’ Rebel del Maggiore James Randolph che recita, aperti verbis, «io odio la Nazione degli yankee e tutto ciò che fanno, odio anche la Dichiarazione d’Indipendenza[…] Odio la Costituzione dei massoni in blu».
Questa opposizione politica non ai nordisti, ma agli USA in quanto tali e a un progetto da cui la causa confederata voleva emanciparsi al punto da ambire di distruggere Capitol Hill se l’assedio di Washington impedito da Gettysburg si fosse concretizzato, creò la necessità degli USA di ricompattare i territori riannessi davanti a una popolazione che li percepiva come veri e propri occupanti.
Per questo fu enfatizzata (con non poca artificiosità e l’aiuto di simboli dei CSA come Robert E. Lee e Jefferson Davis) l’idea che quella combattuta fosse stata una guerra civile e integrati nella memoria condivisa simboli che da confederati divenivano “sudisti”, parate nazionali, bandiere istituzionali, monumenti a soldati del Sud e in particolare ai pacificatori della Confederazione (come Robert E. Lee, per l’appunto, che vedeva una sua statua nel Campidoglio fino a questo dicembre, quando è stata rimossa tra molte polemiche, per decisione del Governatore della Virginia Ralph Northam).
Anche la cosiddetta Lost Cause nella letteratura e memorialistica degli ex-stati confederati, enfatizzante l’eroismo dei soldati confederati rappresentati come cavalieri che combattevano nella certezza della sconfitta per difendere i loro stati e non certo l’istituto della schiavitù, fu favorita con quest’intenzione.
Si trattò certamente di una politica di inculturazione legata a una stagione e a delle persone ormai lontane nel tempo, in quegli Stati del Sud sconfitti, umiliati e depressi dove le rappresaglie erano all’ordine del giorno.
La creazione di un contesto culturale che non gettasse benzina sul fuoco appena domato e che permettesse il fiorire persino di veri blockbuster del film muto americano come Birth of a Nation del 1915. In quest’ultimo film viene addirittura raccontata in chiave eroica la nascita del primo Ku Klux Klan, sorto per contrastare il potere acquisito dal rinato Partito Repubblicano nei territori annessi ma rapidamente evoluto in uno strumento di controguerriglia con poco in comune con le caratteristiche delle diverse reincarnazioni suprematiste del Klan nei decenni a seguire. Tutto questo doveva servire a placare gli animi dell’imbelle Sud non ancora piegato, ma anche per contenere un pericoloso mito politico.
E questo, quasi un secolo dopo, ci riporta alla burrascosa mattinata dell’Epifania di quest’anno, dove tra le bandiere che sventolavano sui capi dei manifestanti di Capitol Hill non vi erano affatto solo motti trumpiani e bandiere di Gadsden (vessillo di epoca rivoluzionaria che nella seconda metà del ‘900 è stato eretto a simbolo del movimento libertario-miniarchista), ma moltissimi stendardi confederati.
Se oggi i rimasugli dell’era ricostruzionista verranno del tutto rimossi (come d’altronde già è), la Bandiera di Dixie, l’insegna di guerra degli Stati Confederati, tornerà ad assumere un significato che gli ancora diffusi secessionisti e neoconfederati non hanno mai sopito (nelle note proteste di Charlottesville davanti al monumento di Lee dell’estate del 2017, a fare da padrone era il movimento Legaue of the South, tra i più organizzati e duraturi nell’ambito) per esibirla non più accanto alle effigi stelle e strisce, ma alla bandiera ufficiale della Confederazione.
La Dixie’s Flag potrebbe tornare ad essere mito politico in maniera analoga a quello che rappresentavano le bandiere zariste, mongole, islamiche, con gli stemmi dei ducati baltici nell’ultimo decennio di vita dell’URSS.
Probabilmente si tratta di un paragone estremo, ma la storia non si arresta mai e, d’altronde, poche cose sono capaci di muoverne il corso come il potere dei simboli.