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La sporca guerra contro Allende: Kissinger e la genesi dell’11 settembre cileno

La sporca guerra contro Allende: Kissinger e la genesi dell’11 settembre cileno

Su gentile concessione dell’autore pubblichiamo un estratto di “Kissinger contro Allende“, l’ultimo libro del nostro Emanuel Pietrobon edito da Castelvecchi che spiega il ruolo giocato dagli Usa e in particolar modo dal consigliere per la sicurezza nazionale di Nixon nella genesi del golpe che detronizzò il presidente cileno nel 1973. Buona lettura!

Santiago del Cile, 11 settembre 1973. Il governo di Salvador Allende, il primo marxista a essere stato eletto regolarmente in un Paese democratico, è stato rovesciato da un golpe delle forze armate. Il presidente è morto, forse assassinato o forse suicida, e il sogno della “via cilena al socialismo” è stato sepolto insieme a lui. Per alcuni è giubilo, per altri è lutto. 

La notizia della caduta di Allende fa il giro del mondo in poche ore: se Desert Storm è stata la prima guerra del villaggio globale, l’11/9 cileno è stato il primo golpe in mondovisione della Storia. Ma la copertura mediatica minuto per minuto non è garanzia di comprensione dei fatti. Anzi. 

Allende è morto. Lo spettro di una “seconda Cuba” in America Latina è stato ricacciato nelle tenebre dalle forze armate cilene, che promettono ai connazionali la restaurazione della democrazia e giurano fedeltà al Primo Mondo, l’Occidente, ai cui investitori, messi in fuga dal defunto Allende, estendono l’invito a tornare nel Paese. 

La gente inizia a porsi domande: che è accaduto realmente quel giorno? Perché i militari hanno deciso di detronizzare Allende? Qualcuno ha sussurrato all’orecchio di Augusto Pinochet? Domande momentaneamente senza risposta, perché nessuno, a parte un pugno di persone – sparse tra Stati Uniti, Cuba e Unione Sovietica –, aveva all’epoca una conoscenza approfondita, obiettiva e reale dei fatti. I fumi della disinformazione e della guerra coperta oscuravano, e in parte oscurano tutt’oggi, la vista delle moltitudini. 

I cileni erano, prevedibilmente, i più confusi. Vivevano in stato di quasi-guerra civile da tre anni. L’economia nazionale era in frantumi. La stampa li aveva convinti che Allende fosse in combutta con Fidel Castro per importare la Rivoluzione Cubana in Cile. Disorientati e immiseriti, ma anche polarizzati e radicalizzati, i cileni avrebbero avuto una reazione mista alla notizia della caduta di Allende. Giubilo e lutto. Come nel resto del mondo. 

Ma il giubilo dei pochi non durò a lungo. Perché Pinochet, leader del rovesciamento e comandante in capo dell’esercito, rimangiandosi la promessa del ritorno alla democrazia, avrebbe rapidamente costruito una delle dittature militari più feroci della Storia. Una dittatura durata ben diciassette anni e causa di oltre 3.000 morti, fra omicidi documentati e sparizioni mai chiarite, di circa 40.000 torturati e di un esodo all’estero di 200.000 persone – corrispondenti, approssimativamente, al 2% della popolazione totale. 

Nessuno, a parte pochi addetti ai lavori, aveva una conoscenza reale di che cosa fosse accaduto in Cile. Sarebbero passati anni. Sarebbe stato necessario il lavoro di politici coraggiosi, come il senatore Frank Church – capo dell’omonima commissione d’indagine del Congresso degli Stati Uniti sul coinvolgimento della Central Intelligence Agency nella destabilizzazione del Cile. 

Sarebbero state essenziali le testimonianze di persone informate sui fatti – come il diplomatico Armando Uribe –, le memorie di militari leali ad Allende – come Carlos Prats – e le inchieste di giornalisti e storici affamati di verità. 

Il tempo ha contribuito a ridurre la cappa abbacinante prodotta dai fumi della guerra coperta. L’ostinatezza dei cercatori di giustizia ha fatto il resto. E i ciechi di Gerico, una volta guariti, hanno iniziato a guardare l’11/9 per quello che è stato realmente: lo showdown di uno dei tornei di ombre più importanti che siano stati giocati da Stati Uniti e Unione Sovietica durante la Guerra Fredda. Perché Allende  e il governo di Unità Popolare non riuscirono a prevenire il golpe, non vedendolo nemmeno arrivare, è, oggi, abbastanza chiaro: furono accecati dal dogmatismo del loro credo, il marxismo-leninismo, che gli impedì di inquadrare la questione cilena all’interno della guerra mondiale all’epoca in corso. E una diagnosi sbagliata, si sa, non può che condurre a errori di prognosi e terapia, aumentando le probabilità di morte del paziente. 

Il Cile degli anni Sessanta e Settanta era, come si suol dire in Africa, il manto erboso sul quale stavano combattendosi due elefanti, Stati Uniti e Unione Sovietica, dal cui scornamento non sarebbe potuto uscire che in un modo: schiacciato. Ma né Allende né Unità Popolare capirono mai di essere al centro di una partita molto più grande del Cile. E pagarono con la vita la loro cecità. 

Allende era dell’idea che l’instabilità del dopo-1970 fosse il risultato di una congiura tra «capitale straniero» e «borghesia nazionale» ai danni del popolo cileno, come spiegato a Régis Debray nel libro-intervista del 1971, quando era, in realtà, il risultato dello scontro fra le due superpotenze per l’egemonia globale. Era convinto che fosse in atto l’ennesima replica dell’eterna contesa per il Cile fra la destra reazionaria, espressione «di gruppi oligarchici, plutocratici e feudali», e la sinistra rivoluzionaria dei proletari e degli operai. Credeva di aver «vinto dentro le loro regole del gioco» nel momento in cui le urne lo avevano consacrato capo di Stato. Credeva che i suoi fossero «psicologicamente preparati» a fronteggiare uno «scontro permanente» con le forze reazionarie. E credeva che gli Stati Uniti, coi loro «profondi problemi interni […] e con il loro atteggiamento in Vietnam», che gli avevano attirato «la disapprovazione del mondo», difficilmente avrebbero agito «in America Latina». Era in errore su tutto. E l’esito della disastrosa diagnosi sarebbe stata la morte prematura e violenta della via cilena al socialismo. 

Allende e Unità Popolare non intravidero né annusarono nell’aria l’arrivo di un epilogo di sangue perché il materialismo e l’economicismo del loro amato marxismo-leninismo riconducevano la spiegazione di ogni evento al capitale e alla lotta di classe. Quando i due elefanti non stavano combattendo in Cile per il Cile, ma per il destino dell’umanità. 

Unità Popolare aveva vinto una battaglia, sì, ma non certamente la guerra. Unità Popolare era forse pronta ad affrontare una collisione con la galassia della destra, anche se i fatti suggeriscono il contrario, ma non una guerra coperta condotta da una coalizione internazionale di Stati, terrorismi e corporazioni. E gli Stati Uniti erano sicuramente alle prese con sfide eterogenee e dalla pericolosità variabile, dalle tensioni interetniche alla disfatta vietnamita, ma se Allende avesse avuto una conoscenza approfondita dei loro imperativi strategici – la dottrina Monroe –, scattato una fotografia al loro potere dietro il trono – l’irrefrenabile Henry Kissinger – e dato una lettura realista e realistica al contesto storico, avrebbe capito che nulla al mondo, data la posta in gioco epocale, li avrebbe persuasi ad accettare una seconda Cuba nelle Americhe. 

Classe 1992, è laureato in Scienze internazionali, dello sviluppo e della cooperazione all’università degli studi di Torino con una tesi sperimentale intitolata “L’arte della guerra segreta”, focalizzata sulla creazione di, e sulla difesa dal, caos controllato. Presso la stessa università si sta specializzando in Studi di area e globali per la cooperazione allo sviluppo – Focus mondo ex sovietico. I suoi principali campi di interesse sono geopolitica della religione, guerre ibride e mondo russo, che negli anni lo hanno portato a studiare, lavorare e fare ricerca in Polonia, Romania e Russia. Scrive per e collabora con diverse testate, tra cui Inside Over, Opinio Juris – Law & Political Review, Vision and Global Trends, ASRIE, Geopolitical News. Le sue analisi sono state tradotte e pubblicate all’estero, ad esempio in Bulgaria, Germania, Romania, Russia.

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