“Kissinger contro Allende”: il racconto del “golpe del secolo”
L’11 settembre 1973, dopo anni di guerra civile indotta dall’esterno, Santiago del Cile si trasformò nel teatro di un sanguinoso golpe che terminò con la morte del Presidente in carica Salvador Allende e l’instaurazione di una dittatura militare. Se pur lo scenario sia percepito lontano, sia dal punto di vista geografico che temporale, Emanuel Pietrobon nella sua più recente pubblicazione “Kissinger contro Allende. La storia del golpe del secolo” sostiene che la vicenda di questo colpo di stato sarà sempre attuale. Il golpe, infatti, fu solo la punta di un iceberg che, al di sotto della superficie del mare, celava dinamiche che ancora oggi influenzano il nostro mondo e i suoi giochi di potere. Dinamiche che abbiamo trattato direttamente con Pietrobon in un’intervista che l’autore ha rilasciato a Osservatorio Globalizzazione.
Qual è il motivo per cui ha deciso di scrivere un libro riguardo la storia del golpe del secolo in un momento in cui l’attenzione mediatica è, invece, concentrata sull’altra parte dell’emisfero (guerra in Ucraina e immigrazione dall’Africa all’Europa)?
L’idea di questo libro nasce due mesi prima della sua pubblicazione, da una conversazione con l’editore sul cinquantenario del golpe cileno, ma la verità è che da tempo aspiravo a trattare in maniera approfondita un tema, quello della guerra coperta dell’amministrazione Nixon al Cile di Salvador Allende, col quale mi sono interfacciato sin dai tempi degli studi universitari e al quale avevo dedicato molte pagine già in un mio precedente libro: L’arte della guerra ibrida. Teoria e prassi della destabilizzazione. Penso che gli argomenti trattati nell’opera siano senza età, perché ho sì narrato le origini del colpo di stato cileno, ma ho anche parlato ampiamente di dottrina Monroe e guerre ibride. Elementi che, penso e spero, renderanno il libro a prova di vecchiaia.
Il Cile è una nazione che è stata sacrificata in nome del radicato scontro tra Russia e Stati Uniti. Quante e quali altre nazioni hanno subito lo stesso destino?
Tante. Il destino delle piccole e delle medie potenze è spesso infelice. Il loro ruolo è spesso quello di mere e inermi trincee lungo le quali si combattono i grandi del pianeta. È così da sempre. E dovremo riabituarci, a causa dello scoppio di una nuova guerra fredda, al progressivo ritorno delle guerre per procura e dei colpi di stato nei contesti meno sviluppati.
Quanto è stato determinante il fattore ideologia, cioè l’innamoramento della propria idea, nel far sì che “Allende e Unità Popolare non annusarono nemmeno l’arrivo di un epilogo di sangue”? Vi è anche una componente di ingenuità o mancanza di conoscenza delle dinamiche che regolavano il mondo di allora?
Allende era un uomo scaltro, intelligente e culturalmente preparato. Tutti gli riconoscevano, anche i suoi più acerrimi nemici politici, il dono di un’intelligenza sopra la media. Ma gli occhiali marxisti e l’incapacità di comprendere fino in fondo le intenzioni degli Stati Uniti gli impedirono di prevedere il golpe. Era ossessionato dal rovesciamento di Jacobo Árbenz Guzmán, presidente guatemalteco costretto alle dimissioni nel 1954 al termine di una breve ma intensa guerra coperta della multinazionale United Fruit Company (l’odierna Chiquita), e sbagliò nel ritenere il Cile la vittima di un simile schema. Vero è che le multinazionali del rame (Anaconda e Kennecott) e delle telecomunicazioni (ITT) volevano vendicarsi per le nazionalizzazioni del suo governo, ma, a differenza del Guatemala, questa non fu una guerra coperta orchestrata e finanziata primariamente dalle corporazioni – fu un’operazione della Central Intelligence Agency. Diverso era anche il contesto storico: a Cuba erano al potere i comunisti, e gli Stati Uniti temevano che una seconda rivoluzione, a maggior ragione se effettuata per vie democratica – come quella di Allende –, avrebbe innescato un effetto domino in tutto l’emisfero.
La dottrina Monroe, proclamata nel 1823, ha giustificato, secondo la prospettiva statunitense, l’interferenza nelle faccende private del Cile. La domanda, quindi, è: che cosa, invece, ha giustificato la dottrina Monroe e ha permesso che gli Stati Uniti allargassero i confini del “loro giardino” fino all’intero emisfero occidentale?
La dottrina Monroe fu elaborata e istituzionalizzata all’indomani della primavera dei popoli latinoamericani, che a cavallo tra la fine del Settecento e l’inizio dell’Ottocento, con l’aiuto di statunitensi, britannici e forze transnazionali – la massoneria –, conseguirono, uno dopo l’altro – con qualche eccezione –, l’indipendenza dalla corona spagnola. Gli Stati Uniti, dimostrando un’incredibile lungimiranza, intravidero in un’America Latina indipendente la chiave per il controllo dell’intero emisfero. La dottrina era un monito alle potenze europee: non interverremo in Europa, voi non intervenite nelle Americhe. Ma era anche uno strumento di egemonia nei confronti dei neostati, che negli anni seguenti avrebbero scoperto a proprie spese di non poter perseguire delle politiche estere autonome e, spesso, di non poter legiferare sulle proprie risorse naturali.
Parliamo di uno scenario ancora attuale?
Parlarne al passato potrebbe indurre il lettore in errore: la dottrina Monroe non è mai stata ritirata. Vero è, però, che applicarla è più difficile che in passato: oggi nel giardino inviolabile imperversano forze politiche che invocano una maggiore autonomia e sono incredibilmente attivi russi, cinesi, iraniani, turchi e forze transnazionali – dai cartelli ai terroristi islamisti.
Kissinger è stato ed è tutt’ora una presenza imponente all’interno dello scenario statunitense; le sue teorie e i suoi scritti sono un tassello fondamentale per capire le dinamiche del ventesimo secolo e di quello attuale. Che cosa ha significato per le sorti del mondo intero la presenza di Kissinger a Washinton? Come ha modificato o indirizzato le sorti della storia?
Kissinger è stato uno degli artefici della vittoria degli Stati Uniti nella Guerra fredda. A lui si devono la rottura sino-sovietica, che creò una frattura nel Secondo mondo destinata ad allargarsi e a cagionarne l’implosione, la ritirata dal Vietnam, che era ormai diventato un buco nero ingestibile e un’inutile distrazione dai campi che contavano realmente, e il golpe cileno, evento che servì ad arrestare l’avanzata rossa nelle Americhe e a permettere agli Stati Uniti di riprendere il fiato nell’attesa di lanciare un ultimo assalto ai bordi dell’Unione Sovietica. Coloro che vennero dopo di lui attinsero ai suoi successi per preparare il secondo e ultimo tempo della partita con l’Unione Sovietica. Non è azzardato affermare l’esistenza di un legame tra l’11/9 del 1973 e il 9/11 del 1989.
A pagina 18 Lei scrive che dopo i tre anni di attività destabilizzatrice degli Stati Uniti “il paese più politicamente stabile, socialmente coeso ed economicamente avanzato dell’America Latina sarebbe stato condotto alla guerra civile, frammentato in opposti estremisti e portato a una condizione precapitalistica”. Vede qualche analogia tra Cile ed Unione Europea, quella che, almeno fino allo scoppio della guerra in Ucraina e dell’embargo boomerang, era la prima potenza economica mondiale?
Il caso cileno insegna che anche le realtà più sviluppate, progredite e coese possono essere destabilizzate nel profondo e infine portate al collasso. Le guerre ibride servono a piegare i nemici senza combatterli direttamente. L’Unione Europea è vittima di scelte sbagliate della sua classe dirigente e di congiunture internazionali sfavorevoli, che l’hanno intrappolata nel grande scontro tra Stati Uniti da una parte e l’asse Russia-Cina dall’altra parte.
La democrazia è il concetto in nome del quale gli Stati Uniti si prendono la libertà di intervenire in contesti che non sono di loro competenza, ma cosa significa veramente per la politica e il popolo americani questo concetto così astratto e intrinseco di sfaccettature? Una domanda spontanea alla luce del fatto che spesso al concetto di democrazia si trovano associate restrizioni alle libertà.
Gli americani vengono introdotti sin dall’infanzia a una pedagogia nazionale potente, persuasiva e affascinante, che inculca in loro l’idea che gli Stati Uniti siano la nazione indispensabile, l’impero della libertà e la biblica Città sulla collina. La libertà ha una cifra identitaria per l’americano medio, che, spesso e volentieri, è facile da convincere a sposare una causa o una guerra di aggressione se presentata come una crociata o come una questione dicotomica di bene contro male, democrazia contro tirannia. La storia recente è piena di esempi in tal senso: si pensi al vocabolario escatologico che ha accomunato Reagan, Bush Jr e Trump, oppure alla terminologia jeffersoniana utilizzata da Obama e Biden.
Allende è descritto come un “fervente sostenitore del diritto all’autodeterminazione dei popoli”. Un aspetto a mio avviso curioso è che lo stesso diritto era un principio cardine di un programma statunitense: “i 14 punti di Wilson”. Come è cambiato l’approccio alle relazioni internazionali degli Stati Uniti dal 1917 agli anni ’70?
Negli anni Settanta le sensibilità in materia di autodeterminazione dei popoli mancavano del tutto negli Stati Uniti: la Guerra fredda era nel vivo, andava vinta a ogni costo, e poi lo stesso pubblico americano era in larga parte a favore della tolleranza zero nei confronti del comunismo in patria e all’estero.
Il titolo del Suo libro è “Kissinger contro Allende”. La guerra tra il fatalista e l’idealista è stata vinta dal primo. Crede che essere un idealista sia una condanna al fallimento?
Idealisti e realisti dormono nello stesso letto, ma non fanno gli stessi sogni. I primi dormono serenamente, perché cullati dalla beatitudine dell’utopia, e credono che il mondo sia inevitabilmente destinato a cambiare per il meglio. I realisti fanno incubi, sanno che la violenza è il carburante della storia e per loro ogni questione è vissuta come un mors tua vita mea.
Qual è la caratteristica di Allende che gli ha permesso di attecchire tra le masse popolari? Forse la stessa che l’ha condannato a perdere la guerra contro Kissinger?
Non era propriamente un uomo del popolo, perché proveniente da una famiglia benestante e aristocratica, ma mostrò un lato sociale molto pronunciato sin dalla gioventù. Era un amico dei poveri e dei malati, da giovane sognava di fare il medico, e trascorse molto tempo in compagnia degli ultimi. Riuscì ad affermarsi come uomo di popolo, compito non facile viste le origini bluette, lavorando duramente a favore di cause sentite dai poveri negli anni della lunga scalata ai vertici della politica nazionale: crisi abitativa, diritti sociali, istruzione, malnutrizione infantile.
Nel 1964 gli Stati Uniti trasformarono Frei Montalva nell’anti-Allende. Non Le sembra di aver visto recentemente un modus operandi simile in uno Stato europeo?
La comparsa di persone carismatiche che si autopresentano o che vengono presentati dai loro burattinai come l’anti-qualcosa, o come l’anti-qualcuno, è un fenomeno abbastanza frequente, ricorrente e tipico della politica.
Nel libro Lei utilizza il termine “guerra psicologica”. Quando la campagna elettorale si trasforma in “guerra psicologica”? Quali sono i segnali che permettono di riconoscerla?
Un segnale di allarme risalta sicuramente fra tutti: quando la narrazione consiglia, o meglio impone molto sottilmente, all’elettorato di votare contro qualcuno anziché per qualcuno.
Tutta la missione “abbasso Allende!” era basata sulla paura di un effetto domino in Sudamerica. Era una teoria o c’erano reali prove che sostenessero la possibilità di un effetto domino e che quindi giustificassero l’imponente investimento degli Stati Uniti in Cile?
La Guerra fredda fu un’epoca contrassegnata, dall’inizio alla fine, da rivoluzioni, colpi di stato, omicidi politici, terrorismi sanguinosi e guerre per procura. Gli Stati Uniti avevano più di una ragione di temere un effetto domino nell’emisfero: l’Unione Sovietica finanziava l’espansione globale del comunismo inviando rubli a partiti politici e ad organizzazioni terroristiche, i popoli latinoamericani erano molto attratti dalle idee di sinistra, insorgenze marxiste-leniniste imperversavano in tutto il subcontinente.
Cosa rappresentava Allende per gli Usa?
Allende rappresentava per gli Stati Uniti una doppia minaccia: era apertamente marxista, era giunto al potere tramite elezioni regolari. Allende aveva dimostrato ai socialisti e ai comunisti di tutto il mondo come fosse possibile fare la rivoluzione percorrendo vie pacifiche. Altri politici avrebbero potuto seguire le sue orme, in Latinoamerica e altrove, e gli Stati Uniti decisero pertanto di infliggergli una punizione esemplare per inviare un potente monito dall’eco globale.
Come è possibile che progetti anti-etici e al di là di ogni principio della bioetica come MKULTRA e Camelot siano avvolti da un’aura di mistero? Come è possibile che nessun tribunale sovranazionale abbia mia punito tali progetti?
Il diritto internazionale è una barzelletta per le grandi potenze ed è una costrizione per le piccole. Nessun tribunale internazionale avrà mai la forza di condannare una grande potenza che gode di buona salute. Sul perché permanga il mistero su certi programmi: non tutto può essere declassificato, cioè trasformato in contenuto di pubblico dominio, per ragioni di sicurezza nazionale. Altre volte, invece, il mantenimento del segreto di stato è dovuto a una combinazione di esigenze securitarie e di questioni di reputazione e immagine.
Se già nel 1973 la tecnologia era così avanzata da far sì che un computer riuscisse a prevedere la reazione di un popolo di fronte a un colpo di stato e all’assassinio del proprio presidente in carica, quali sono le Sue paure e speranze rispetto all’impiego di una tecnologia 50 anni più avanzata e distruttiva alle dinamiche attuali?
Le paure sono sicuramente tante. L’intelligenza artificiale non rivoluzionerà soltanto la quotidianità degli esseri umani, semplificando alcuni lavori e cancellandone altri, ma anche la sfera bellica. Uno stratega bravo può essere capace di prevedere cinque scenari, dal brainstorming di una squadra di strateghi possono essere partoriti dieci-venti scenari, ma un cervello artificiale può prevedere quasi tutto, azione e reazione, ottenendo uno scacco matto in maniera molto più semplice e veloce. I politici di domani combatteranno le loro guerre, convenzionali e ibride, avendo come consiglieri dei ChatGPT sotto steroidi. Non è fantascienza.
Nel proprio discorso di insediamento Allende riprende più volte i tre concetti cardine che guidarono anche la Rivoluzione Francese, cioè libertà, uguaglianza e fratellanza. È un caso secondo Lei o c’era un intento preciso?
Era un uomo profondamente convinto che i popoli facessero la storia. I grandi rivoluzionari dell’Europa e dell’America Latina erano i suoi modelli di riferimento. Il suo discorso d’insediamento era impregnato di riferimenti a personaggi e a eventi storicamente impattanti, come le rivoluzioni, perché penso che volesse proporsi alla nazione come il leader di una rivoluzione sui generis, avvenuta passando per le urne, ma pur sempre una rivoluzione – essendo stato il primo marxista della storia a ottenere il potere democraticamente.
Sempre riguardo al discorso di insediamento… Allende esalta e sottolinea il fatto di essere salito al potere “nel pieno e libero esercizio del diritto civile”, quindi di difendere i valori democratici; gli stessi valori esaltati anche dagli Stati Uniti che, però, hanno distrutto il suo regime democratico. Qual è la differenza tra la democrazia esaltata da Allende e quella difesa da Kissinger?
Entrambi credevano nella democrazia, ma avevano idee radicalmente differenti su come difenderla e su come gestirla. Per Allende la democrazia era un affare della collettività e lo dimostrò coi suoi esperimenti sulla “democrazia industriale” e sul “potere popolare”. Per Kissinger, un seguace del pessimismo antropologico, la democrazia era un affare delle élite e il potere era un qualcosa che non poteva essere condiviso con le masse.
Quali sono le analogie e le differenze sostanziali tra anni di piombo cileni e italiani? Gli Stati Uniti hanno alimentato anche le lotte avvenute sulla nostra penisola o vi erano altri che avevano interessi nella lotta radicale nel nostro paese?
Domanda molto interessante. Qui in Italia si tende a credere che gli anni di piombo siano stati un unicum nostrano, quando, in realtà, stagioni di alta instabilità sociopolitica dovuta ai tornei di ombre tra i blocchi hanno caratterizzato quasi tutti i paesi coinvolti nella Guerra fredda. Chi più, chi meno. Opposti estremismi, terrorismo politico e omicidi eccellenti accomunano gli anni di piombo di Cile e Italia. Una differenza degna di nota, secondo me, è il numero dei partecipanti alla creazione dell’instabilità: in Cile furono molti di meno. Il nostro paese fu attraversato dalle scorribande di tante potenze, tra cui Germania Est, Bulgaria e Israele, e di molte organizzazioni terroristiche internazionali, come l’OLP, mentre il Cile restò fino alla fine un terreno di scontro tra Stati Uniti e Unione Sovietica, con periodiche invasioni di campo di Cuba, Brasile, Regno Unito e Australia.
Con il discorso alle Nazioni Unite Allende sembra dire che, se pur consapevole del sabotaggio in atto, il suo Paese non avrebbe mai rinunciato a lottare per la democrazia e il socialismo. Perché, nonostante il Cile fosse in ginocchio, ha deciso di sfidare apertamente i suoi detrattori? Che conseguenze ha avuto?
Allende continuò la politica delle nazionalizzazioni degli assetti delle corporazioni multinazionali statunitensi fino alla fine della sua presidenza, forse pensando che avrebbe resistito alla guerra coperta di Washington. Provò comunque ad aprire un canale di dialogo segreto con Richard Nixon, scrivendo e inviandogli una lettera nell’agosto 1971, ma senza successo. La conseguenza del rifiuto di fare un passo indietro e dell’ostinatezza nel voler trasporre in realtà il socialismo dalle caratteristiche cilene fu tragica: il colpo di stato dell’11 settembre 1973, durante il quale trovò la morte.
Verso le ultime pagine del Suo libro Lei scrive che “il golpe del secolo sarà sempre attuale”. Perché? Che cosa dobbiamo imparare da questo spaccato di storia?
Quella del Cile è una storia da conoscere per tante ragioni. La dottrina Monroe è ancora qui e lo sarà sempre: la geografia impone agli Stati Uniti di interferire nelle dinamiche interne del vicinato latinoamericano, anche ricorrendo alla violenza se necessario. Le guerre ibride sono diventate la norma nelle relazioni internazionali e il Cile è un caso da manuale di guerra ibrida. Le attuali generazioni di latinoamericani continuano a subire l’influenza culturale di quel carismatico personaggio che fu Allende. La memoria dell’11/9 cileno è perpetuata dalle forze che, in tutto il mondo, invocano la cosiddetta transizione multipolare. La Russia, in occasione del cinquantenario del golpe, ha organizzato un grande e suggestivo evento per ricordare Allende e ha utilizzato i suoi canali social per diffondere tanti post in lingua spagnola aventi come destinatario l’opinione pubblica ispanoamericana. Perché è un episodio storico utile a rammentare a chi non l’ha vissuto che Mosca all’epoca stava dalla parte di Santiago, contro le ingerenze di Washington, e che ben si presta a strumentalizzazioni nell’ottica della rediviva guerra fredda che la contrappone nuovamente al vecchio rivale. Gli effetti del golpe che ha cambiato il Novecento non si sono ancora esauriti.