La lunga marcia verso la Brexit
Il 30 dicembre 2020 Londra ha ratificato l’accordo per le relazioni bilaterali post-Brexit concluso con le autorità dell’Unione Europea. In questo articolo ripercorriamo le dinamiche politiche e gli ostacoli affrontati dalle parti in causa nella lunga fase negoziale
La politica è uno specialismo che richiede preparazione, dedizione e studio[1]. Nessuno pensa di affidarsi ad un medico o ad un amministratore di condominio sol perché questi si è appena proposto sul mercato. Nell’ambito della politica ci sono varie branche, ognuna con le sue specificità, con i suoi conoscitori, con i suoi apparati amministrativi serventi.
La congruità della politica estera al tempo della globalizzazione è fondamentale per la tenuta di ogni Stato, come simmetricamente durante l’Ottocento era importante il Ministero degli Interni per il mantenimento del potere.
Il coordinamento tra i Ministeri degli Esteri e i rispettivi organi politici di vertice è una necessità ineludibile nel mondo di oggi. È nell’ordine delle cose che i Presidenti degli Stati Uniti si occupino di politica estera, pur avendo spesso Segretari di Stato di spessore. Il Presidente russo Vladimir Putin, al potere dal 1999, sebbene abbia come Ministro degli Esteri uno dei maggiori esperti del mondo diplomatico, vale a dire Sergej Lavrov, mostra di conoscere bene i maggiori dossier internazionali. Il Ministro degli Esteri cinese, Wang Li, è il fedele replicante della linea portata avanti dal Presidente Xi Jinping.
Presidenze degli Esecutivi e Ministeri degli Esteri non possono essere di fatto sedi vacanti, perché in politica estera il dilettantismo, nella migliore delle ipotesi, porta ad una ossequiosa irrilevanza. Nella peggiore, le migliori carriere vengono bruciate in un battito d’ali e le conseguenze per i Paesi interessati possono essere disastrose. Forse queste ultime sono alcune delle ragioni dello scarso appeal esercitato dalla politica estera nel panorama politico.
Il Deal concluso il 24 dicembre 2020 tra Unione Europea e Regno Unito sul piano diplomatico è stato un confronto tra due titani della diplomazia, come pochissimi altri. È ingenuo non considerare il commissario europeo Michel Barnier, ininterrottamente negoziatore capo dell’UE per la Brexit, uomo del Presidente Macron. Basti dire che fu nominato all’incarico da Jean Claude Junker, pedissequo esecutore delle volontà dei governi francese e tedesco.
Il ring diplomatico tra la il Regno Unito e l’UE va compreso nei round che si sono succeduti, dove è illuminante non tanto decretare quale sia il vincitore apparente o reale tra i contendenti, quanto le potenzialità delle diplomazie e la centralità degli input politici.
La dottrina Barnier-Macron
Il primo elemento di cui dispone un negoziatore è l’uso e l’abuso del timing. Il termine ultimo può essere lasciato spirare anche per mascherare la volontà di non raggiungere nessun accordo, senza manifestare rotture eclatanti. Al limite opposto possono essere fermate le lancette dell’orologio.
Sulla gestione del tempo, Theresa May ha sbagliato tutto quello che poteva essere errato. Pur essendo un politico di lungo corso, esperta in questioni di politica interna, ha mostrato la corda sul Deal, dove i francesi hanno avuto buon gioco a condurla per mano. Forse se la May avesse avuto il coraggio di rispondere muscolarmente a Macron con la sua stessa granitica durezza, oggi sarebbe ancora Primo Ministro e Macron sarebbe rimasto a bruciarsi col cerino tra le dita, di fronte al contenzioso quotidiano tra le due sponde della Manica, originato dal No Deal.
Infatti, il Primo Ministro di Sua Maestà il 10 novembre 2017 propose l’uscita del Regno Unito dall’Unione Europea per la mezzanotte del 29 marzo 2019, ma il 19 marzo un nuovo termine finale fu concordemente rinviato al 30 dicembre 2020.
Il temporeggiamento della May è stato inopportuno, perché ha rivelato all’avversario tutte le proprie intenzioni e i limiti minimi per chiudere il negoziato. Oltretutto ha segnato una divaricazione tra la soft Brexit portata avanti dalla May e la linea più dura del Ministro per la Brexit, David Davis e del Ministro degli Esteri, Boris Johnson.
Una volta chiaro a Michel Barnier che la Gran Bretagna era più interessata alla politica commerciale, che a quella di potenza vera e propria, gli è stato facile intrappolare la May.
Il naufragio del piano May per la Brexit
Il 12 luglio 2018 il Governo May pubblicava il Piano Chequers, un libro bianco di sole 83 pagine, intitolato “Le relazioni future tra il Regno Unito e l’Unione Europea” incentrato essenzialmente su un partenariato sistematico, ad imitazione degli accordi di associazione doganale transfrontalieri, già esistenti tra UE e Stati non membri.
Agli occhi attenti del professionismo politico britannico non sfuggiva che si trattava di uno strumento vecchio e contestato anche laddove è applicato, come in Norvegia, la quale versa i suoi contributi all’Unione Europea e ne subisce le decisioni, senza poter contribuire minimamente alle politiche. In più a Londra il ceto politico conosceva gli impatti negativi del liberoscambismo sul soggetto economico più fragile: non era il caso che gli ex colonizzatori si trasformassero in una colonia dell’Unione Europea a guida franco-tedesca.
Theresa May e il suo staff negoziale divennero allora il problema. I Ministri David Davis e Boris Jonson, in opposizione al loro Primo Ministro si dimisero l’otto e nove luglio 2018, pur di non accettare il Piano presentato al Gabinetto del Governo il 6 luglio. Il nuovo Ministro degli esteri Dominic Raab di fronte all’irrisolta questione del confine tra Eire e Ulster, nonché all’inaccettabile status comunitario di quest’ultimo rassegnò le proprie dimissioni nelle mani di Theresa May, la quale dovette fronteggiare in Parlamento sia i mugugni dei conservatori, sia il mal contento degli Unionisti nord irlandesi. La Camera dei Comuni bocciò per tre volte, nel gennaio e nel marzo 2019 le proposte di accordi fotocopia.
Di fronte al rischio di un contenzioso derivante dal No Deal, l’UE si impegnò per una tornata di incontri successivi, alla ricerca di un accordo, onde non spezzare la corda, quasi al limite della rottura diplomatica.
Il tempo di Theresa May era terminato. Avrebbe dovuto accorgersi prima che a Bruxelles stavano traccheggiando, pur di rinviare il momento del leave. Aver imbarcato come Ministri l’euroscettico Davis e il vulcanico Johnson non era un buon affare, tanto più, se lei si discostava dalle indicazioni del Foreign Office. I due ministri dissidenti hanno avuto buon gioco nello scavalcarla. Al più giovane Johnson è stato relativamente agevole conquistare la guida dei Tories e il numero 10 di Downing Street.
Theresa May avrebbe dovuto accorgersi che il bersaglio di Macron, attraverso le trattative sulla Brexit, era diventa proprio lei. Peccò di scarsa lucidità politica nel non comprendere da subito che il vento non volgeva a suo favore. Non fu per lei dignitoso nella calura estiva del 3 agosto 2018 recarsi a Fort Bregancon a chiedere aiuto al Presidente-Re di Francia, per sentirsi dire ipocritamente che il negoziatore capo, Barnier, era un politico autonomo, che non dipendeva in nulla dalla Francia. Bregancon e Balmoral, residenza estiva dei reali inglesi, non sono proprio la stessa cosa. Neppure il viaggio dell’anno precedente a Roma le giovò. Si presentò come una buyer di peso, per ascoltare da un candido Renzi che Roma non stava toccando palla sulla Brexit, ovvero che Parigi e Berlino stavano usando le strutture dell’UE per proiettare all’estero le proprie potenze, ovvero che stavano disponendo della roba altrui, esercizio che l’Impero Britannico aveva praticato per secoli con i suoi partner minori.
Oltretutto il Primo Ministro Britannico avrebbe dovuto sapere che non è prudente trattare le grandi questioni complessive con i Re che di sé hanno una concezione quasi orientale e irresponsabile. Macron non ha rischiato nulla nel negoziato, perché il semipresidenzialismo lo assicurava dagli scossoni politici transeunti. Invece nella monarchia parlamentare britannica il progetto del Primo Ministro è stato ripetutamente bocciato nella Camera dei Comuni dalla maggioranza di cui era espressione.
Boris Johnson e il cambio di rotta britannico
Quando si tratta con entità statuali coese e che si proiettano in modo imperiale all’esterno, non ci si può permettere di presentarsi internamente divisi e mostrarsi disposti ad accettare proposte svantaggiose, pur di concludere. L’avversario ne approfitta immediatamente. Il valore politico di Theresa May nell’affrontare e risolvere i problemi interni inglesi non è stato mai contestato. Pro futuro, tra l’efficientismo concorrenziale della May e la managerialità scapigliata di Johnson, i francesi hanno preferito la seconda, anche perché il prezzo maggiore delle concessioni all’ex Ministro degli Esteri è pagato da tasche altrui. Alla fin fine, Barnes ha fatto un colpo di stato sui generis, approfittando dell’inesperienza in politica estera della May, immemore dei metodi forti da usare con i Re che non rispondono del loro operato e della regola primaria di ogni capo: scegliere oculatamente i propri uomini, affinché ne perseguano gli interessi.
Con Boris Johnson alla guida del Regno Unito dal luglio 2019, grazie ad un maggiore coinvolgimento degli apparati diplomatici britannici e alla sostituzione del team del negoziatore capo, la musica è cambiata: a brigante, brigante e mezzo! Le minacce, neanche tanto velate, hanno iniziato ad aleggiare nelle trattative. La linea politica inglese da soft si è fatta hard. Il metodo delle intese generali è stato abbandonato a favore di negoziazioni punto per punto. Parigi si è sentita dire da Londra che gli Alleati non sono tali per sempre; che la collaborazione nello scambio di alcuni tipi di informazioni riservate poteva essere interrotta; che i progetti futuri già in cantiere sarebbero stati rivisti. Come se non bastassero queste pesantezze a far rivedere la posizione europea, si è aggiunta la pressione esercitata da Trump, il quale ha alzato il prezzo dell’accordo, mediante l’offerta di un Trattato commerciale preferenziale per la Gran Bretagna. La proposta Trumpiana, per quanto in contrasto con le regole del WTO, è stato un monito che a Parigi hanno compreso. Il gioco si stava facendo imprevedibilmente duro e non valeva la candela, tanto più dopo aver tolto di scena la May.
Il bluff di Johnson sulla Brexit spiazza Macron
Negli ultimi nove mesi sono scesi in campo le migliori expertise delle due parti nei vari campi oggetto delle trattative. Di giorno Johnson dava ordine di procedere, di notte minacciava il No Deal, tuttavia incassandone i vantaggi punto per punto. Parigi si è ritrovata smarrita dai bluff di Johnson, senza saper individuare il punto di rottura. Sono state prodotte circa duemila pagine di accordi, che vanno dalle misure del pescato delle varie specie ittiche, alla cooperazione scientifica, culturale e sicuritaria.
Nelle ultime settimane i contatti tra il Primo Ministro Boris Johnson e la Presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, nota in precedenza più che altro per essere stata a lungo la Ministra della Difesa della Cancelliera Merkel, si sono fatti più intensi, allo scopo di dribblare elegantemente il francese Barnier, onde eliminare gli ostacoli sui diritti di pesca, sulla concorrenza e sugli arbitrati per le violazioni, che impedivano alla Brexit di concludersi come “Brexmas”, crasi tra Brexit e Christmas.
“The Deal is done!”
La Brexit si è terminata con un accordo. “The Deal is done” ha twittato il Primo Ministro inglese, Boris Johnson.
Il Regno Unito mantiene discretamente un piede sul Continente, come più o meno ha fatto, con alterne vicende, negli ultimi tre secoli. L’Unione Europea frena la deriva isolazionista del Regno Unito, che attraverso la Bank of England continua a detenere il 13,6% del capitale sottoscritto della BCE, e nello stesso tempo riceve le assicurazioni di non avere alle porte un pirata finanziario.
Nelle parole di Michel Barnier, pronunciate il 24 dicembre 2020 davanti a Ursula von der Leyen, a dispetto della dichiarazione dissimulatoria, c’è molto di quello che non è apparso in pubblico.
“I pay tribute also to the UK negotiating team, Chief Negotiator David Frost, and his deputies. This process has engaged so many citizens, businesses, stakeholders – and obviously, you journalists”
L’Ambasciatore, Lord David Frost, è stato l’uomo chiave di Boris Johnson. Ha preso il posto del controverso Sir Olly Robbins, non propriamente un diplomatico, quanto piuttosto un apparatchik conservatore, nominato capo negoziatore per l’uscita dall’Unione Europea da Theresa May.
[1] Aldo Giannuli, Professionismo politico, classe dirigente, militanza: facciamo un po’ di chiarezza, in aldogiannuli.it
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