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L’assistenza sanitaria negli Stati Uniti, IV puntata

L’assistenza sanitaria negli Stati Uniti, IV puntata

4. Il decennio ’90: il fallimento della riforma Clinton e l’espansione delle Health Maintenance Organization (HMO)

Gli Stati Uniti spendono circa il 14% del loro Prodotto Interno Lordo per spese sanitarie. In percentuale sul PIL è il livello più alto tra i paesi industrializzati; e circa il doppio se si fa riferimento alla spesa pro-capite. [Nel 2018 la percentuale è salita al 16,9%. Ecco le cifre aggiornate nazione per nazione]. Circa l’origine pubblico/privato delle risorse finanziarie la percentuale è quasi paritaria: intorno al 50%. Il settore privato ha particolare importanza per quanto riguarda sia l’erogazione del servizio che la copertura assicurativa: è un caso unico tra tutti i paesi industrializzati. Agli inizi degli anni ’90 i sondaggi d’opinione mostravano che l’assistenza sanitaria era uno dei problemi più sentiti dalle famiglie. Le preoccupazioni riguardavano l’adeguatezza del servizio offerto e le conseguenze disastrose che una qualsiasi grave emergenza sanitaria avrebbe potuto provocare sul patrimonio familiare a causa dei costi particolarmente elevati e non prevedibili. Nel 1991 [Himmelstein-Woolhandler 1994; pag. 24] gli americani senza alcuna copertura assicurativa sanitaria erano circa 37 milioni (nel 2000 erano 43 milioni); 50 milioni lo erano in misura inadeguata o insufficiente. A parte una fascia ristretta di popolazione particolarmente benestante il resto avrebbe avuto un tracollo finanziario in caso di malattia grave o avrebbe perso la copertura sanitaria in caso di perdita del posto di lavoro. Nel caso di copertura assicurativa sanitaria co-pagata dall’imprenditore le due cose potevano andare insieme: se la gravità della patologia rendevano il lavoratore inidoneo a rientrare in azienda sarebbe stato licenziato e avrebbe perso i benefici della precedente copertura, salvo rientrare in alcuni casi tra i beneficiari di Medicaid ma con i problemi della continuità terapeutica cui si è fatto cenno nelle pagine precedenti.

Si possono ben comprendere, quindi, le ragioni che avevano spinto nel 1992 il Presidente Bill Clinton, appena eletto, a confermare il suo impegno di realizzare un sistema sanitario nazionale che, pagato tramite le entrate fiscali, avrebbe garantito la copertura per tutta la popolazione. La riforma Clinton prevedeva che il paziente avrebbe scelto il proprio medico di fiducia mentre lo stato avrebbe fissato le tariffe e pagato le parcelle. Questa soluzione era molto simile a quella in vigore in Canada e sembrava avere un forte consenso: un sondaggio del 1989 condotto negli Stati Uniti registrava una percentuale di pareri favorevoli pari al 61% (i contrari erano il 27%); e negli stessi anni altri sondaggi mostravano un gradimento molto alto (95%) per il loro sistema da parte dei canadesi [Himmelstein-Woolhandler 1994; pag. 262]. Agli occhi dei policy maker statunitensi vi era un ulteriore argomento non trascurabile: il sistema canadese, nel complesso, costava il 30% in meno pro-capite. Anche gran parte degli operatori del settore era del parere che il settore andava riformato. Molti medici temevano una diminuzione del reddito in caso di riforma ma un buon 64% (secondo un sondaggio del 1986) riteneva che l’intera società nel suo complesso tramite l’intervento delle istituzioni pubbliche dovesse provvedere a garantire a ciascun cittadino la migliore assistenza sanitaria possibile. La risposta ad un’altra domanda, forse più significativa, indicava però che il 74% dei medici intervistati riteneva che il progetto di un sistema sanitario nazionale sarebbe stato osteggiato dai loro colleghi [Himmelstein-Woolhandler 1994; pag. 264]. All’idea di un sistema sanitario nazionale era favorevole anche parte del mondo delle imprese. Soprattutto le grandi corporation dell’industria manifatturiera che, oltre a pagare alti salari, sostenevano i costi dei benefit aggiuntivi, come appunto la copertura assicurativa per le spese sanitarie [Himmelstein-Woolhandler 1994; pag. 40].

La campagna di informazione lanciata dall’amministrazione Clinton nel 1993 per pubblicizzare il suo progetto insisteva soprattutto sull’idea di riorganizzare il sistema privato esistente limitando l’intervento pubblico alle direttive generali. Uno degli obbiettivi dichiarati era quello di limitare l’incremento dei costi. Tuttavia pochi mesi dopo (settembre 1994) il tentativo di riforma si poteva considerare definitivamente fallito. Le ragioni furono molteplici. Il concetto chiave di managed competition che stava alla base del progetto di riforma era stato suggerito dal Jackson Hole Group, una organizzazione non-profit di manager del settore assicurativo, importanti uomini d’affari, accademici di tendenza conservatrice e appoggiati con generosi finanziamenti da compagnie di assicurazione [Himmelstein-Woolhandler 1994; pag. 245]. In questo, Clinton non si discostava molto da quanto già avviato precedentemente dal Democratic Leadership Council (un gruppo interno al partito Democratico): dare un ruolo alle imprese del settore sanitario nel processo di riforma. Il piano prevedeva anche un importante ruolo delle amministrazioni federali e statali nella creazione di agenzie di pianificazione a competenza territoriale, chiamate Health Alliances, che avrebbero regolato la concorrenza. I destinatari della regolazione, le compagnie di assicurazione e le HMO, avrebbero partecipato a delle gare pubbliche. Il diritto di servire gruppi di consumatori sarebbe stato concesso sulla base delle migliori offerte e dei maggiori risparmi finanziari. Una volta aggiudicatesi il diritto di fornire il servizio, le compagnie di assicurazioni e le HMO (profit e non-profit) avrebbero avuto un effetto calmieratore sui prezzi di mercato trattando con i provider dei servizi: ospedali, laboratori di analisi, associazioni di medici, imprese fornitrici di prodotti farmaceutici e medicali.

In realtà il messaggio della campagna d’informazione non raggiunse il target più importante: le famiglie. Alcuni commentatori ritengono che, oltre ad altri errori di comunicazione, uno dei maggiori difetti del progetto consisteva nel fatto di essere un Libro Bianco particolarmente lungo (1.364 pagine), troppo ricco di dettagli ma carente del grado di sintesi necessario a comunicare l’essenziale. Al contrario, i messaggi politici degli oppositori, finanziati generosamente dalle compagnie di assicurazione, erano molto efficaci. Si ricorda ancora la serie di spot televisivi che, con protagonisti “Harry e Louise”, coppia di sposi del ceto medio, paventava che con la riforma si sarebbe ridotto il grado di scelta individuale (medico di fiducia, medici specialisti) e compromesso la copertura (qualità delle cure, malattie coperte dalle nuove organizzazioni). Uno dei punti più inquietanti sarebbe stato di dover condividere copertura assicurativa e servizi con la popolazione indigente: segno inequivocabile di un servizio sanitario certamente scadente nel giudizio del cittadino medio, così abituato alle barriere etniche e di classe e forse anche memore di un passato di ospedali pubblici dedicati solo ai poveri ed ai senza tetto. Rimaneva in secondo piano ogni possibile riflessione sui punti di crisi del settore per come erano già in atto. Quando alla campagna contro il piano di riforma Clinton si unì un’importante associazione imprenditoriale (Business Roundtable) e la Chambers of Commerce il piano fu semplicemente abbandonato: non fu neanche sottoposto all’attenzione del Congresso.

La principale ragione del fallimento del tentativo di riforma è da addurre al fatto che la managed care era già in via di attuazione da parte delle HMO senza alcun intervento specifico da parte pubblica. Ampi settori del sistema sanitario statunitense, comprese molte organizzazioni non-profit, erano in fase di trasformazione organizzativa e manageriale, ridefinendo il focus della loro mission con maggiore attenzione al rapporto costo-prestazione erogata. Una ristrutturazione produttiva e manageriale che sembrava simile a quella già attuata in USA nei decenni precedenti nel settore minerario, manifatturiero, dell’agricoltura. Inoltre si poteva osservare un forte flusso di capitali di investimento provenienti dall’esterno del settore sanitario; si trattava di una strategia di espansione in quello che sembrava un nuovo e redditivo mercato: una accurata operazione di marketing prometteva al paziente-consumatore la possibilità di un prodotto migliore e più economico grazie a nuove ed inedite modalità organizzative private.

4.1. Le HMO (Health Managed Organization)

La maggior parte delle nuove HMO sono delle organizzazioni non-profit, di solito di proprietà di compagnie assicurative, che raccolgono i premi assicurativi e che per conto degli assicurati contrattano i servizi di assistenza e cura con i providers (medici, ospedali, laboratori di analisi, ecc.). I loro costi organizzativi sono pari a circa il 14% dei costi totali: una quota particolarmente elevata se comparata con altri programmi a gestione pubblica. Per esempio, i costi amministrativi di Medicaid sono il 4% mentre Medicare si colloca al 2%. Il paragone diventa ancora più sfavorevole se si tiene in considerazione il vicino Canada che ha un servizio sanitario nazionale: spese generali pari all’1%. Nel complesso le spese di amministrazione, pubblicità e profitto assorbono dal 18% al 25% del fatturato delle HMO.

Il nuovo corso della sanità statunitense ha creato una situazione oggettivamente difficile sotto il profilo dell’equità. Si allontana l’obbiettivo della copertura universale dato che la capacità economica dell’assicurato è conditio sine qua non per ottenere l’assistenza e si è abbassato il livello di soddisfazione da parte dei pazienti-consumatori. A metà degli anni ’90 si poteva registrare un aumento considerevole delle proteste di pazienti che ritenevano di essere stati ingiustamente esclusi da terapie e cure al solo scopo di risparmiare sui costi. Nel 1996 erano già 27 gli Stati che avevano approvato normative per scoraggiare questa linea d’azione da parte delle HMO. Molte di queste organizzazioni avevano raggiunto specifici accordi con i medici convenzionati: non avrebbero dovuto discutere con i pazienti della possibilità di trattamenti particolarmente costosi. Su questo punto 16 Stati sono intervenuti decretando l’illegalità della prassi ma tuttora molte HMO utilizzano incentivi finanziari per indurre i medici ad implementare questa pratica.

La dimensione di una HMO è uno degli elementi chiave che permette economie di scala e un aumento dei profitti. Da qui il succedersi di ristrutturazioni ed acquisizioni che hanno fortemente contrassegnato gli anni ‘90. Per es. nel 1996 l’Aetna Life Insurance acquistò per $8.8 miliardi la U.S. Healthcare venendo ad acquisire un portafoglio totale di 23 milioni di assicurati [Eaton 1996]. La U.S. Healthcare si era distinta nei mesi precedenti per il favore accordato alla formula capitation per la retribuzione dei medici di base. L’intento era di comprimere i costi e di scaricare sui medici parte del rischio-paziente. La formula è usata in molte nazioni ma la soluzione si presentava come particolarmente innovativa negli USA dove i medici tradizionalmente avevano imposto alle compagnie di assicurazione condizioni a loro più favorevoli: liquidazione in base al numero ed al tipo di prestazioni effettuate. Il giudizio negativo sulla proposta capitation (anche da parte delle associazioni dei pazienti-consumatori) verteva soprattutto sul fatto che si potesse scoraggiare i medici dal dare la giusta attenzione ai casi clinici che si fossero presentati. Tuttavia la prassi andava affermandosi: a metà degli anni ’90 la metà dei medici di base (primary care physician) negli Stati di New York, New Jersey e Pennsylvania era retribuita con questo metodo. 

La strategia di compressione dei costi ha avuto un certo successo nei primi anni di espansione delle HMO. Inizialmente la cosiddetta “inflazione sanitaria” (misurata attraverso la crescita dei costi delle polizze a parità di prestazione garantita) è stata domata limando i margini di guadagno e le posizioni di rendita dei provider. Superata la prima fase (quindi a partire dal 1996/7) l’inflazione del settore è tornata a crescere più dell’inflazione generale che non ha superato il 3-5%.

Particolarmente significativi i cambiamenti negli ospedali. Agli inizi degli anni ’90 in molte aree metropolitane ospedali e centri di cura, avendo difficoltà a reclutare infermieri specializzati, offrivano alti salari ai giovani appena diplomati. Sembrava un mercato del lavoro favorevole all’offerta per un periodo relativamente lungo. Dopo pochi anni la situazione si presentava cambiata. A metà degli anni ’90 sia le organizzazioni sanitarie non-profit (di solito ospedali) sia le organizzazioni della managed care cercavano di sostituire il personale infermieristico specializzato con quello generico cercando allo stesso tempo di aumentare notevolmente il carico di lavoro. Il risparmio in termini di forza lavoro è stato in alcuni casi anche del 25% sia in termini di personale infermieristico specializzato che generico. All’interno del settore, tuttavia, la situazione si presentava differente a seconda che si trattasse di organizzazioni non-profit o profit: queste ultime impiegavano meno personale paramedico (la differenza era del 17%) [Gottlieb M.- Eichenwald K. 1997]. Il risparmio economico e di forza lavoro era stato raggiunto soprattutto diminuendo il periodo di degenza in corsia dimettendo i pazienti appena possibile; cominciò a diventare un leitmotiv abbastanza diffuso il pericolo di un serio peggioramento sia dei trattamenti sanitari che delle condizioni di lavoro per il personale.

Nel 1996 arrivò la risposta ufficiale dei medici che in questa ristrutturazione settoriale avevano pagato in termini economici e di autonomia professionale. L’influente Jama (Journal of the American Medical Association) pubblicò una ricerca che dimostrava come i pazienti poveri ed anziani avevano una probabilità doppia di peggiorare le proprie condizioni di salute se erano inscritti in un programma di HMO invece che nel più tradizionale fee-for service plan (pagamento a prestazione).  La ricerca cercava di contrastare un’azione che le organizzazioni di lobby stavano facendo in quei mesi per far votare al Congresso la normativa in base alla quale i pazienti di Medicare e di Medicaid avrebbero potuto inscriversi a programmi di managed care.

Nel grande cambiamento del settore vi è stato spazio anche per comportamenti parecchio disinvolti. Il caso della Columbia/Healthcare Corporation è di particolare interesse: non solo perché sembrò essere emblematico del potenziale negativo della managed care ma anche perché inaugurò una nuova stagione di controlli pubblici, in questo caso federali, in un settore fino ad allora relativamente trascurato.

La Columbia aveva comprato il primo ospedale nel 1988 e nel 1992 capitalizzava in borsa circa due miliardi di dollari che cinque anni dopo sarebbero diventati 25. Nel 1996 possedeva 348 ospedali, circa il 6,7% di tutti gli ospedali in USA e mirava a raggiungere la quota del 10% entro il 2000. In Florida possedeva oltre il 25% di tutti i posti letto. Nel 1996 impiegando 285 mila persone era la nona impresa statunitense per numero di occupati con profitti pari al 20% del fatturato. Aveva acquistato 1.400 studi medici e fondato 550 imprese specializzate nelle cure a domicilio per i trattamenti collaterali a quelli effettuati nel suo sistema ospedaliero. Anche nel caso della Columbia i risparmi ottenuti tramite l’utilizzo intensivo della forza lavoro erano stati la chiave per aumentare i margini di profitto [Ginsburg C. 1996]. I problemi arrivarono nel 1997: 14 Senior Executives furono accusato di frode ed il CEO (Chief Executive OfficerRichard L. Scott fu costretto a dimettersi. Gli ispettori federali avevano avuto modo di verificare una sistematica pratica di sovrafatturazione ai danni del servizio di Medicare per diversi tipi di trattamenti e cure, favorita da appositi incentivi offerti agli amministratori degli ospedali. Gli amministratori venivano sollecitati a richiedere trattamenti più costosi del necessario, fatturare trattamenti più costosi di quelli realmente effettuati, fatturare trattamenti mai effettuati.

Che ci fosse qualcosa che non andava nella gestione della Columbia era stato già notato dagli analisti del settore ben prima dell’indagine federale. In primo luogo la Columbia faceva pagare circa l’8% in più della media dei suoi concorrenti per gli stessi servizi ed aveva una pessima reputazione per il suo comportamento aggressivo sul mercato. In un certo modo il caso poteva considerarsi emblematico perché contemplava tutti gli aspetti negativi del comportamento d’impresa nel settore della sanità che aveva caratterizzato gli anni precedenti: licenziamento e riduzione del personale pur in presenza degli stessi carichi di lavoro, comportamenti al limite della legalità nella stipula delle convenzioni con i provider, truffa, sistematica riduzione dei salari dei dipendenti.

5. Considerazioni finali

Intorno al 1996/97, come già detto, i cambiamenti intervenuti nel settore avevano prodotto un certo risultato. Nell’opinione di tutti la managed care era riuscita a ridurre il tasso di inflazione sanitaria al 3% annuo, più o meno al livello dell’inflazione generale. Secondo alcuni, però, il costo sociale è stato eccessivo: molti richiamano le esperienze dei paesi europei e del Giappone, oltre a quella del vicino Canada, per sottolineare come i problemi creati da un sistema sanitario nazionale a copertura universale e con un forte ruolo del pubblico siano comunque meno complessi di quelli presenti negli USA. 

Una delle ragioni addotte per spiegare il permanere del modello che abbiamo brevemente illustrato è l’interesse da parte delle imprese e delle leadership statunitensi di tenere sotto controllo la forza lavoro [Brouwer 1998; pag. 138]. C’è probabilmente del vero in questa ipotesi: la continua preoccupazione di garantirsi le spese sanitarie tramite il contratto di lavoro è un potente antidoto ad un atteggiamento eccessivamente conflittuale dei lavoratori. Tuttavia la spiegazione può essere più complessa. Gli Stati Uniti sono una nazione dove il mondo delle imprese e della produzione capitalistica ha un potere di influenza molto forte sulle scelte interne. Ma è qualcosa di più: è una Institution che regola i rapporti sociali e condiziona le scelte politiche ed economiche a prescindere dalla volontà personale dei dirigenti d’impresa o di un gruppo di proprietari-azionisti parecchio benestanti. È un modello di società che informa anche la mentalità di gran parte dei lavoratori.

Abbiamo avuto modo di illustrare alcuni degli aspetti dell’assistenza sanitaria, talvolta abbastanza confusi sempre molto complessi. Rimarrebbero da illustrare altri aspetti altrettanto importanti per comprendere meglio perché abbiamo parlato di un modello di società. Ad essi sarebbe opportuno dedicare un’attenzione particolare ed apposita. Ci limiteremo a richiamare la questione dell’innovazione. Gli investimenti nel campo della ricerca scientifica e tecnologica sono all’avanguardia. Si potrebbe obiettare che ciò avviene perché le imprese sanno di poter trarre profitto, anche ingente, dall’immissione sul mercato di prodotti nuovi e di successo. Tuttavia rimane l’impressione che i processi di innovazione negli Stati Uniti siano all’ordine del giorno e connaturati al modello, non solo nel campo medicale. Pur con le riserve necessarie, gli stessi moduli organizzativi introdotti, provati e perfezionati dalle HMO, sono stati poi applicati da altre organizzazioni anche non-profit magari adattandoli alle loro proprie esigenze. Si è avuto come risultato la compressione dell’autonomia degli operatori (medici, infermieri, amministratori degli ospedali) ma quelle erano le stesse figure professionali che la letteratura degli anni precedenti aveva descritto come detentori di rendite di posizione e di dannosa attività di lobby. Tuttora a fronte di cronache allarmanti circa le condizioni di lavoro negli ospedali le cifre dicono che gli operatori sanitari statunitensi godono delle retribuzioni migliori al mondo.

Allora, cerchiamo di dare un senso più generale ai cambiamenti intercorsi nell’assistenza sanitaria USA nel XX secolo.

L’evoluzione dei modelli di volta in volta prevalenti è da mettere in relazione all’evoluzione dell’economia nel suo complesso. Il processo di produzione dell’assistenza sanitaria è cambiato, questa è la nostra ipotesi, in linea con i cambiamenti dell’economia. Quindi: il settore dell’assistenza sanitaria come una qualsiasi parte della produzione capitalista sottoposta a ristrutturazioni ed innovazioni senza quel filtro che ci si potrebbe aspettare dalla particolarità della produzione e dei suoi destinatari.

Sulla base della breve ricostruzione effettuata ipotizziamo una classificazione in tre fasi storiche:

1) La prima, grosso modo fino agli anni ‘30/’40, caratterizzata dalla centralità degli ospedali. Analogamente con il modello produttivo industriale coevo: centralità della fabbrica = centralità dell’ospedale.

2) La seconda dagli anni ‘40/’50 fino a metà degli anni ’80, in parte preannunciata dalle organizzazioni dei provider Blue Cross e Blue Shield che avevano introdotto la sanità prepagata, fa entrare in scena il capitale finanziario sotto forma di compagnie di assicurazione. 

3) La terza vede il prevalere del capitale finanziario sugli altri produttori ed attori del settore con le sue forme di organizzazione della produzione, le HMO, che arrivano a voler imporre i prodotti finali: le terapie più economiche a prescindere.

Sarà interessante verificare la validità di questa ipotesi sulla base dei cambiamenti e delle ristrutturazioni del settore. 

In quale misura la ricerca di soluzioni volte al contenimento dei costi produrrà innovazione scientifica (per esempio farmacologica) e tecnologica? E quanto e come gli sforzi al contenimento dei costi sul lato organizzativo e produttivo confliggeranno (continueranno a confliggere) da un lato con i produttori (medici, ospedali, operatori in genere) e dall’altro con i pazienti-consumatori, destinatari finali dei prodotti-terapie, con il bagaglio inevitabile del limite etico (esercitato da chi?) come unico contraltare al criterio economico?

Un altro degli aspetti che andranno approfonditi è anche quanta parte di questa dialettica sarà regolata e rappresentata dalla politica e quanta parte la politica avrà la volontà (o sarà capace) di avere. Si tratterà di capire, cioè, se rimarrà maggioritaria la convinzione che lo Stato migliore è lo stato minimo e che il ruolo sociale legittimante è quello dell’imprenditore di successo. 

Anche se il consumatore finale, e cioè il paziente, si trova su un letto di ospedale a decidere con i suoi familiari, i medici, gli amministratori del fondo di assicurazione quale sia il miglior rapporto prezzo/prestazione delle terapie oncologiche a cui dovrà sottoporsi, magari rischiando l’ipoteca sull’unica abitazione di proprietà[i].


Bibliografia

Brouwer 1998, Sharing the Pie: A Citizen’s Guide to Wealth and Power, NY: Holt.

Eaton L. 1996, “Aetna to Buy U.S. Healthcare”, New York Times, 2 Aprile, p. A1

Ginsburg C. 1996, “The patient as Profit Center: Hospital Inc. Comes to Town”, The Nation, 18 Novembre, pp. 18-22

Gottlieb M.- Eichenwald K. 1997, “A Hospital Chain’s Brass Knuckles, and the Backlash”, New York Times, 11 Maggio, Section 3, p. 1.

Himmelstein D.-Woolhandler S. – 1994, The National Health Program Book, Monroe, ME: Common Courage Press.


Note

[i] Nota dell’aprile 2020: nell’ottima serie televisiva Breaking Bad al protagonista viene diagnosticato un tumore che può essere curato con una terapia diversa da quelle previste dalla polizza assicurativa. Rischia la vita e la povertà, sua e della sua famiglia. Trova la soluzione. Da geniale professore di chimica sintetizza una rivoluzionaria e purissima metanfetamina che ha un grande successo sul mercato della droga. Sarcastica versione dell’American Way of Life.


Indice

I Puntata (Premessa; Introduzione; 1. Le radici storico-politiche e le caratteristiche del settore fino al New Deal del presidente Roosevelt)

II Puntata (2. La nascita delle Blue-cross e delle Blue shield e l‘eredità di Roosevelt; 2.1. Il ruolo del presidente Roosevelt; 2.2. Medicaid e Medicare; 2.2.1. Medicaid; 2.2.2. Medicare; Bibliografia)

III Puntata (3. La Managed care; 3.1. Medicaid e Medicare nella Managed care; 3.1.1 Il controllo di qualità dei piani; Note)

IV Puntata (4. Il decennio ’90: il fallimento della riforma Cinton e l’espansione delle HMO; 4.1. Le HMO (health managed organization); 5. Considerazioni finali; Bibliografia; Note)

Nato nel 1955, Laurea in Scienze Politiche. Al suo attivo pubblicazioni a stampa, progetti e rapporti di ricerca, missioni di lavoro in Venezuela, Russia, Ucraina, un lungo soggiorno di studio e lavoro negli Stati Uniti.

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