Recensione dello studio “Cibo & Migrazioni”
Diamo il benvenuto ad Andrea Pentimone, nuovo importante collaboratore dell’Osservatorio Globalizzazione, che fa il suo ingresso con questa recensione dello studio “Cibo & Migrazioni” prodotto da MacroGeo in collaborazione con il Barilla Center for Food and Nutrition foundation (BCFN).
Questo report va a situarsi all’interno di un assunto più generale, la “sostenibilità”, la cui sfida oggi è reindirizzare il quanto più possibile, e quanto più efficacemente, le politiche locali, nazionali e internazionali perché nel futuro prossimo lo sviluppo, in termini di “consapevolezza”, acquisti realmente una connotazione sì “globale” e comprensiva, ma soprattutto consapevole e inclusiva di tutte le aree politico-economico del mondo.
Lo studio prende in esame un fenomeno di non scarsa rilevanza nei media e nel dibattito pubblico occidentale, ovvero quello dell’”immigrazione”; tuttavia esso non si limita a delineare in profondità la stazza e le conseguenze di questo fenomeno (spesso ben più complesso delle raffigurazioni che tendiamo a configurarci su di esso), bensì cerca di definire empiricamente quali implicazioni concrete, geopolitiche, demografiche, economiche, politiche e sociali hanno condotto questo fenomeno ad assumere una rilevanza internazionale. Il vero referente empirico è soprattutto un particolare legame geopolitico e strategico legato al fenomeno migratorio, ovvero il “cibo”. «Per quanto riguarda la i paesi d’accoglienza, la cultura alimentare si rivela soprattutto un fattore centrale nell’integrazione dei migranti nei paesi d’accoglienza europei. È diventata sempre più un tratto distintivo delle identità (anche delle identità religiose) dei singoli e delle comunità. La diffusione di abitudini e costumi alimentari provenienti dai paesi d’origine dei migranti, soprattutto dall’Africa, sta cambiando il panorama culturale europeo» così scrive Lucio Caracciolo, direttore della rivista di geopolitica Limes, nella prima sezione da lui curata all’interno dello studio. Gli obiettivi dello studio sono esattamente questi: «inserire nel dibattito sui fattori di spinta della migrazione la sicurezza alimentare e la nutrizione» e «introdurre un’agenda di ricerca sui cambiamenti socio-culturali che avvengono nei sistemi alimentari dei paesi di destinazione per effetto dell’immigrazione».
Viene efficacemente dimostrato come l’”alimentazione” sia un canale potenziale per creare dinamiche di inclusione e come spesso a fenomeni come le reti di contrabbando di merci si possano facilmente sovrapporre le attività dei trafficanti di esseri umani. Le parole chiave sono “interdipendenza” («tra aree e culture diverse, in termini di sviluppo, rischi e opportunità»), “paradosso” («fare il punto sui paradossi che riguardano il cibo») e “incertezza” («viviamo in un’epoca di transizione, nella quale l’adattamento sarà progressivo e influenzato da una serie di variabili»). Come sottolineato all’incontro informativo sullo studio svoltosi l’11 febbraio 2019 presso l’Università degli Studi di Milano, tre sarebbero i paradossi globali del cibo: in primo luogo vi è lo squilibrio tra “malnutrizione” e “obesità”. In secondo luogo la prospettiva in cui indirizzare le risorse: è più strettamente necessario e urgente nutrire persone, animali o per esempio creare nuovi biocarburanti per auto? Il 47% della produzione cereale ad oggi è destinata all’alimentazione umana, mentre un altro 40% circa all’alimentazione animale o alla produzione di carburanti. Terzo invece, il paradosso è riassumibile nell’interrogativo: “sprecare cibo o nutrire chi ha fame?”. Sono infatti 1,3 miliardi le tonnellate di cibo sprecate ogni anno nel mondo. Una tale quantità corrisponderebbe al quadruplo dell’apporto alimentare necessario per sfamare le 821 milioni di persone che nel mondo soffrono la fame.
Lo studio finisce per soffermarsi soprattutto una particolare zona strategica di scambio, il Mediterraneo, che fin dai tempi antichi è sempre stata una zona di continui scambi e transizioni. Questo permette agli analisti di mettere a confronto realtà vicine, simili sotto certi aspetti e differenti da altri punti di vista. Il cibo e la sostenibilità ambientale ed ecologica parrebbero essere concretamente una reale “chiave di volta” nel processo di “integrazione” e di “cooperazione allo sviluppo” di questa area geografica (di cui il Sahara rappresenta una “seconda faccia”), ovviamente tramite la dovuta sensibilizzazione e informazione al riguardo, per cui studi come questo non dovrebbero passare inosservati, o peggio, inascoltati, soprattutto se la “Cassandra” della situazione sta implorando di iniziare ad aprire lo sguardo ad una visione d’insieme e multidisciplinare dei fenomeni in atto sia dal punto di vista sociale oltre che economico ed ambientale, perché tali fenomeni, come il cambiamento climatico, o la crescita esponenziale della popolazione in alcune zone del mondo, andrebbero fin da subito considerati come delle urgenze globali, non sottostimabili.
Quando il fenomeno viene ignorato, il rischio è quello di un interminabile «circolo vizioso tra nutrizione e migrazione. Gli anelli che formano questa catena comprendono la crescita demografica, che è salita alle stelle, la nutrizione inadeguata, l’interruzione dello sviluppo fisico e dello sviluppo delle abilità cognitive, e la diffusione di malattie croniche, con ovvie conseguenze sulla produttività e sulle condizioni economiche dei singoli e della comunità. Il risultato è una trappola malthusiana: la povertà genera malnutrizione (se non addirittura fame) e un’elevata mortalità infantile che, a sua volta, stimola un’elevata fecondità che genera povertà» Più volte nel corso dello studio vengono citati gli obiettivi di sviluppo sostenibile dell’Agenda ONU 2030, punto di riferimento costante dato il loro rapporto con l’alimentazione e le migrazioni.
La sfida demografica non è meno urgente delle altre sfide, a causa dei tassi di fecondità ancora eccessivamente elevati per continenti come l’Africa. Nonostante sia anche questa in lento declino, un’ipotesi cosiddetta della “convergenza” con i sempre meno fecondi paesi occidentali è altresì «plausibile [solo] nel lunghissimo periodo», per cui nel 2050 lo scenario di squilibrio potrà notevolmente aumentare, visto che, al contempo, la sfida alimentare diverrebbe estremamente più ardua, come quella della sostenibilità di una tale popolazione in termini alimentari, sociali, sanitari e via dicendo. «L’elevata fecondità potrebbe far precipitare le regioni popolose nella trappola malthusiana […] la povertà alimenta la fame, la malnutrizione e l’elevata mortalità infantile che, aggiungendosi all’elevata fecondità, producono un alto tasso di crescita che genera ancora più povertà. […] Il capitale economico, sociale e scientifico moderno potrebbero può darci i mezzi per bloccare questo ciclo. […] Politiche sociali adeguate potrebbero favorire l’autonomia delle donne e aiutare le coppie a controllare la fecondità e a ridurre le nascite non pianificate.»
Dall’altra parte della medaglia, nelle cosiddette “economie avanzate” invece il tesso di fecondità è spesso altamente al di sotto al tasso di sostituzione di 2,1 figli per donna. Inoltre molti lavori ad alto utilizzo di manodopera sono spesso trascurati e questa carenza è un forte richiamo per l’immigrazione, che è per questo motivo inevitabile e parte integrante ormai della nostra civiltà odierna.
1 – Continua
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