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Salvare la scienza dagli scientisti

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Salvare la scienza dagli scientisti

“Scientifico” e “scienza” sono termini cui si è ricorso di più negli ultimi due anni, alla luce della crisi epidemiologica che sembra aver cambiato il nostro modo di vivere e il mondo stesso. Il significato dei predetti termini appare ovvio, scontato e, soprattutto, è apparente indice di “certezza assoluta”, anche per via dell’uso (e dell’abuso) che i media ne fanno. I custodi dei significati in questione, proprio come gli antichi sacerdoti egizi solevano fare con la “verità”, sono medici, virologi, ingegneri, chimici, ecc. e, generalmente, “navigati” uomini di scienza. Eppure, a ben vedere, dalle affermazioni, che, non di rado, contraddistinguono una cospicua parte di tali soggetti, e che, a volte, finiscono per assomigliare a veri vaticini, proprio come avveniva per bocca dei summenzionati sacerdoti, emerge, paradossalmente, una significativa ignoranza di indispensabili e basilari conoscenze storiche ed epistemologiche, unitamente a una sorta di cultura scientista, antitetica alla scienza stessa. Sembra, per certi versi, di assistere a un prepotente ritorno della mentalità positivista, e, in generale, del positivismo stesso, che, nel rispetto della propria essenza, pretende di fagocitare ogni campo del sapere, presentandosi come cultura “feconda”, capace di fornire risposte concrete a problemi concreti, relegando ai margini tutti i saperi non materiali, astratti e spirituali, funzionalmente giudicati sterili e inutili.

Si registra, infatti, una ferma presa di posizione nei confronti di tutto ciò che non risponde ai nuovi canoni “scientifici” e, quindi, essenzialmente materialistici. Tale cultura, ripugnando a tutte le conquiste dello spirito, segna e celebra, in realtà, il trionfo di materialismo e di nichilismo e rifiuta, al tempo stesso, qualsiasi confronto, affidandosi, piuttosto, al notorio principio dell’“Ipse dixit” («l’ha detto… allora è vero»), o meglio, principio d’autorità, che, a ben vedere, tradisce l’essenza stessa della scienza, la quale risulta, e non potrebbe essere altrimenti alla luce della propria storia, nient’altro che conoscenza in divenire. Ciò detto, oggi, è facile scorgere un inarrestabile processo volto a svincolare, sempre di più e con maggiore decisione, la scienza dall’epistemologia; si tratta di un processo posto in atto, o quantomeno favorito, da una certa politica, intollerante per propria essenza, che mira a fare “tabula rasa” di ciò che, non adattandosi agli schemi del materialismo, è giudicato d’ostacolo al “progresso” (“progresso” è da leggersi e da intendersi, in questo caso, come “profitto”). Questo tipo di politica camuffa abilmente lo “scientismo” per scienza, e si adopera, grazie a un massiccio ricorso ai media e ai social network, per isolare, silenziare ed esiliare socialmente quanti osano pensare altrimenti, riflettere e sollevare dubbi su decisioni spacciate per scientifiche, ma che, invero, hanno diversa natura.

Galileo Galilei, in uno dei suoi scritti, il “Dialogo sopra i due massimi sistemi del mondo” (1632), inventa un personaggio, Simplicio, il cui nome, in realtà, sta a indicare una certa ingenuità o semplicità di pensiero che interessa quanti, discutendo intorno a questioni scientifiche, per avvalorare le tesi sostenute, si rifanno al principio d’autorità e, di conseguenza, si allontanano tanto dalla verità quanto dalla scienza. Questo perché, per lo scienziato pisano, la scienza si fonda su un certo rigore metodologico, i cui elementi preponderanti sono le “sensate esperienze” e le “necessarie dimostrazioni”. In nessun modo, dunque, il metodo scientifico sperimentale può contemplare o prendere seriamente in considerazione elementi di “fede”, sia che essa si rifaccia a questioni propriamente metafisiche e teologiche sia che si rifaccia a principi d’autorità, che inevitabilmente assumono i caratteri di credenze religiose (a tal proposito si veda l’ingenua considerazione del progresso e della scienza da parte dei positivisti). Nel lavoro “certosino” dello scienziato, ogni ipotesi deve essere dedotta da fenomeni osservabili e assume i caratteri di legge scientifica solamente se regge alla prova dell’esperienza empirica, non di certo perché tale ipotesi proviene dalla bocca del cosiddetto esperto di turno. Di fatto, un tale modo di rivendicare “autorevolezza” e attenzione – purtroppo ritornato prepotentemente in auge – è significativamente lontano dalla scienza e dal necessario rigore metodologico, e, come tale, può venire fuori solo dalla bocca di uno stolto, ovvero da quel Simplicio, che, nelle intenzioni dell’autore, rappresenta un atteggiamento decisamente ostile nei confronti della scienza, nonché, a voler essere meno diplomatici, la sua stessa morte. Affidarsi al principio d’autorità per giustificare un’ipotesi e rivendicare per la stessa valenza scientifica significa muoversi sotto i dettami della confusione; e quello che è oscuro e confuso, certamente, si allontana dalla verità. A tal proposito, Galileo Galilei, per bocca del personaggio Salviati, in un celebre passo del summenzionato scritto, definisce, in questi termini, la questione.

«Simplicio. Ma quando si lasci Aristotele, chi ne ha da essere scorta nella filosofia? nominate voi qualche autore.

Salviati. Ci è bisogno di scorta ne i paesi incogniti e selvaggi ma ne i luoghi aperti e piani i ciechi solamente hanno bisogno di guida; e chi è tale, è ben che si resti in casa, ma chi ha gli occhi nella fronte e nella mente, di quelli si ha da servire per iscorta. Né perciò dico io che non si deva ascoltare Aristotile, anzi laudo il vederlo e diligentemente studiarlo, e solo biasimo il darsegli in preda in maniera che alla cieca si sottoscriva a ogni suo detto e, senza cercarne altra ragione, si deva avere per decreto inviolabile; il che è un abuso che si tira dietro un altro disordine estremo, ed è che altri non si applica più a cercar d’intender la forza delle sue dimostrazioni. E qual cosa è più vergognosa che ‘l sentir nelle pubbliche dispute, mentre si tratta di conclusioni dimostrabili, uscir un di traverso con un testo, e bene spesso scritto in ogni altro proposito, e con esso serrar la bocca all’avversario? Ma quando pure voi vogliate continuare in questo modo di studiare, deponete il nome di filosofi, e chiamatevi o istorici o dottori di memoria; ché non conviene che quelli che non filosofano mai, si usurpino l’onorato titolo di filosofo. Ma è ben ritornare a riva, per non entrare in un pelago infinito, del quale in tutt’oggi non si uscirebbe. Però, signor Simplicio, venite pure con le ragioni e con le dimostrazioni, vostre o di Aristotile, e non con testi e nude autorità, perché i discorsi nostri hanno a essere intorno al mondo sensibile, e non sopra un mondo di carta.»

L’insegnamento di Galilei, che costituisce la genesi della scienza moderna, è ripreso da Isaac Newton, il quale porta a termine la rivoluzione scientifica moderna. Egli, piuttosto riluttante alle sterili polemiche sollevate dagli accademici del suo tempo, proprio come Galilei, non ha una concezione “religiosa” della scienza, ma, nel rigore del silenzio e della ricerca, delinea una visione di essa, brillantemente sintetizzata nell’espressione “hypotheses non fingo” (“non invento ipotesi”), la quale segna l’impossibilità, da parte dello scienziato, di andare al di là della descrizione dei fenomeni per coglierne le cause, ossia vincola qualsiasi ipotesi di spiegazione al fenomeno stesso. Da ciò deriva il controllo di un’ipotesi di lavoro – ricavata per induzione –, che ambisce a diventare legge scientifica, da parte dell’esperienza empirica, cui spetta, in tal modo, l’ultima parola in termini di corroborazione e riconoscimento. Un’ipotesi di spiegazione di un certo fenomeno indagato diventa legge scientifica esclusivamente quando l’esperienza empirica fornisce un esito positivo al riguardo, e l’ipotesi, dunque, spiega e domina il fenomeno stesso, almeno fino a quando non interverranno altre ipotesi, sempre validate dalla prova empirica, che meglio si adattano a quella realtà. La questione è così riportata nei “Principi matematici della filosofia naturale” (1687),vero capolavoro e pietra miliare della scienza.

«Qualunque cosa, infatti, che non sia deducibile dai fenomeni deve essere chiamata ipotesi e nella filosofia sperimentale non trovano posto le ipotesi sia metafisiche, sia fisiche, sia delle qualità occulte, sia meccaniche. In questa filosofia le proposizioni vengono dedotte dai fenomeni e sono rese generali per induzione.»  

«Regola IV – Nella filosofia sperimentale le proposizioni ricavate per induzione dai fenomeni, nonostante le ipotesi contrarie, devono essere considerate vere o rigorosamente o quanto più possibile, finché non interverranno altri fenomeni a seguito dei quali o sono rese più esatte o vengono assoggettate a eccezioni.»

Di fronte al rigore e alla forza del metodo sperimentale, espresso dalle suddette parole, il principio d’autorità è destinato ad apparire ridicolo, inappropriato ed essenzialmente antiscientifico.

Ovviamente, in quest’articolo ci si è concentrati, intenzionalmente, solo su una parte dell’epistemologia, i cui sviluppi sono così complessi e interessanti da mettere in gioco, continuamente, l’idea e il significato di scienza; basti pensare alle riflessioni Karl Raimund Popper, di Thomas Kuhn o all’anarchismo epistemologico di Paul Karl Feyerabend, i quali, nel corso del Novecento, confrontandosi (e scontrandosi), smontano e rimontano visioni e significati della scienza, anche apparentemente incontrovertibili. Proprio Popper, nella “Logica della scoperta scientifica” (1934), scrive:

«La scienza non è un insieme di asserzioni certe, o stabilite una volta per tutte, e non è neppure un sistema che avanzi costantemente verso uno stato definitivo. La nostra scienza non è conoscenza (epistème): non può mai pretendere di aver raggiunto la verità, e neppure un sostituto della verità, come la probabilità.»

A prescindere dalle varie posizioni, però, emerge un dato fondamentale: la contezza dell’importanza dell’epistemologia, e la relativa conoscenza, dovrebbero rappresentare un necessario punto di riferimento per qualsiasi uomo di scienza degno di questo nome; l’“analfabetismo epistemologico”, difatti, è particolarmente nocivo nei confronti della scienza, perché ne determina una concezione falsata, distorta, spesso fanatica, che finisce per sfociare in scientismo. Tale forma di analfabetismo, purtroppo, risulta presente nelle affermazioni di specialisti, esperti, e, in generale, di diversi uomini di scienza, i quali troppo spesso rivendicano e pretendono credibilità e autorevolezza, intorno a questioni che sconfinano nettamente dai loro rispettivi ambiti di studio, solamente per il fatto di essere uomini di scienza.  

«La scienza senza epistemologia, se pure si può concepire, è primitiva e informe» afferma Albert Einstein, senza troppi giri di parole; mentre Edmund Husserl, grande filosofo e matematico del Novecento, dal canto suo, consapevole delle derive scientiste e dei pericoli da esse derivanti, sottolinea che «la vera natura nel senso delle scienze naturali è un prodotto dello spirito che la indaga…»; il che dovrebbe suonare sempre come un monito affinché vengano prontamente scongiurate interpretazioni errate della scienza, attraverso le quali, poi, ci si adopera per giustificare decisioni e, conseguentemente, determinare ordini che con la scienza non hanno nulla a che fare, sebbene vengano presentati e “impacchettati” come scientifici.

Per finire, un estratto dal discorso di Alexandre Millerand, Ministro del Commercio francese, che commenta l’apertura dell’Expo a Parigi, manifestazione che si tenne dal 14 Aprile al 10 Novembre 1900, non solo risulta molto attuale, ma rende bene l’idea circa la mentalità e l’euforia scientista dell’epoca.

«… Sotto la nostra mano noi abbiamo visto la forza della natura asservirsi e disciplinarsi. Il vapore, l’elettricità, ridotti alla parte di docili serventi, hanno trasformato le condizioni dell’esistenza. La macchina è divenuta la regina del mondo. Installato da padrone nella nostra officina, l’organismo di ferro e d’acciaio scaccia e sostituisce, mercé un lento e continuo invadimento, i lavoratori di carne e ossa, di cui fa i propri ausiliari. Quale cangiamento nelle relazioni umane.

Le distanze diminuiscono fino a scomparire. In alcune ore sono divorati dei percorsi che un tempo non si compivano che in giorni e settimane. Il telefono, questo mago, fa intendere al nostro orecchio la parola e fino il timbro della voce d’un amico separato da noi da centinaia di leghe.

Mentre crescono all’infinito l’intensità e la potenza della vita, la stessa morte indietreggia davanti alla marcia vittoriosa dello spirito umano… Il male, afferrato alle sue origini, isolato, cede […] Trionfare dell’ignoranza, vincere la miseria, quale più alto, quale più urgente dovere sociale? […] L’incontro pacifico dei Governi del mondo non resterà sterile. Io sono convinto che, grazie all’affermazione perseverante di certi pensieri generosi di cui ha risuonato il secolo che finisce, il XX secolo vedrà rifulgere un po’ più di fraternità e un po’ meno di miserie di ogni ordine e che ben presto forse avremo varcato uno stadio importante nella lenta evoluzione del lavoro verso la felicità e dell’uomo verso l’umanità.»

Come andò a finire, purtroppo, lo sappiamo tutti, a dispetto dei vaticini scientisti dell’epoca.

Francesco Neri è nato a Cinquefrondi (RC) il 04/05/1983 e vive attualmente a Nicotera (VV). È docente ordinario di filosofia e storia presso il liceo classico “Bruno Vinci” di Nicotera. Collabora con le riviste nazionali “Gazzetta filosofica”, “L’Intellettuale Dissidente”, “Pangea” e con il quotidiano regionale “il Quotidiano del Sud”.

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