Teoria e pratica del “negazionismo” climatico
Uno degli aspetti di maggiore interesse del recente saggio di Marco Grasso e Stefano Vergine dal titolo “Tutte le colpe dei petrolieri” (Piemme, 2020) è certamente quello relativo alle modalità poste in essere dalle grandi compagnie petrolifere attraverso le quali il negazionismo climatico è stato legittimato e promosso.
Le principali multinazionali petrolifere, potendo contare sulla acquiescenza del resto dell’industria petrolifera, hanno a freddo architettato un’efficace campagna di negazionismo che ha paralizzato per decenni le politiche climatiche nazionali ed internazionali.
Prendendo spunto dalle tecniche di disinformazione attuate dalle multinazionali del tabacco, le compagnie petrolifere hanno finanziato in primo luogo organizzazioni contrarie al protocollo di Kyoto con lo scopo di influenzare l’opinione pubblica in merito all’inesistenza di un nesso di casualità tra combustibili fossili cambiamenti climatici di origine antropica. Tra queste organizzazioni certamente le più influenti-osservano gli autori-sono state la Global Climate Coalition, il Cimate Council e l’Information Council on the Environment.
In secondo luogo, le multinazionali petrolifere sono riuscite a finanziare anche l’influente George Marshall Institute di Washington il quale, a partire dal 1988, ha rivolto la sua attenzione alla contestazione dei risultati della scienza climatica. Se guardiamo alla multinazionale petrolifera ExxonMobil, questa nel periodo che va dal 1998 al 2014, ha finanziato ben 69 organizzazioni negazioniste le quali sono state in grado di seminare il dubbio nell’opinione pubblica affermando che la climatologia fosse contraddittoria e che gli scienziati fossero divisi fra di loro; inoltre queste organizzazioni hanno anche sottolineato come le azioni attuate dagli ambientalisti rischiassero di mettere in crisi l’economia globale.
Non dimentichiamoci inoltre che proprio questa compagnia, all’inizio di maggio del 2017, fece pervenire una lettera al presidente degli Stati Uniti allo scopo di esortarlo a ritirare l’America dall’Accordo di Parigi come di fatto poi è avvenuto.
Ma nel concreto quali sono le tecniche di disinformazione usate da queste compagnie? Ebbene, grazie a un interessantissimo studio della Union of Concerned Scientists dal titolo Disinformation Playbook, gli autori del saggio ne individuano sostanzialmente sei.
La prima tecnica che prende il nome di the fake consiste nel produrre pseudoscienza e nel farla passare per ricerca legittima. Ad esempio, alcune multinazionali petrolifere hanno finanziato ricercatori e centri di ricerca allo scopo di pubblicare risultati non scientifici che contraddicevano le evidenze degli stessi scienziati delle multinazionali che erano tutti concordi nell’individuare una relazione di causa-effetto tra combustibili fossili e cambiamenti climatici.
La seconda tecnica – denominata Blitz – consiste nel diffamare scienziati considerati pericolosi poiché presentano risultati scomodi per l’industria petrolifera. Gli autori del saggio si riferiscono al cosiddetto Climate Gate del 2009 e cioè alla controversia sull’e-mail hackerate di un certo numero di eminenti climatologi, dalle quali si sarebbe chiaramente compreso che questi avrebbero manipolato i dati per attribuire una maggiore rilevanza all’attività umana nei cambiamenti climatici.E che dire poi dei violenti attacchi mossi al climatologo americano Michael Mann nel 2010?
La terza tecnica -denominata the diversion – consiste nella creazione dei dubbi. Questo è infatti uno strumento molto efficace per delegittimare la scelta climatologica attraverso l’organizzazione di iniziative di varia natura allo scopo di screditare la scienza attribuendole una valenza ideologica. Infatti la strategia adoperata da pseudoscienziati dell’industria petrolifera era quella di sottolineare l’esistenza una divisione nella scienza del clima invitando giornalisti e politici compiacenti a trasmettere questi subbi a un pubblico già di per sé confuso.
La quarta strategia è quella nota come the Screen con la quale le multinazionali cercano di acquistare o costruire credibilità attraverso sinergie con il mondo accademico o con società professionale di natura climatologica grazie a generose elargizioni come per esempio quelle fatte alla Columbia University e al Mit. Gli autori del saggio si riferiscono nello specifico all’incontro annuale dell’American Geophysical society.
La quarta tecnica posta in essere è quella che gli americani definiscono Pass the buck o scaricabile che consiste nell’inquadrare la questione dei cambiamenti climatici come se fosse un tema di responsabilità individuale cioè dettata esclusivamente dalle scelte di consumo dei singoli agenti con lo scopo di impedire di comprendere chiaramente che la crisi climatica è un problema strutturale determinato proprio dalle. multinazionali petrolifere e dal loro atteggiamento negazionista. Grazie a questa tecnica le compagnie petrolifere sono riuscite a celare le proprie responsabilità per i cambiamenti climatici.
Infine, la sesta tecnica posta in essere dalle multinazionali – e nota come the Fix – consiste nella manipolazione dei funzionari pubblici per influenzare le scelte politiche. Attraverso questa tecnica le multinazionali petrolifere sono riuscite infatti ad esercitare per molto tempo fortissime pressioni sulla politica e sulla regolamentazione del clima a livello internazionale. Come evidenziano gli autori del saggio gran parte delle multinazionali hanno investito qualcosa come un miliardo di dollari nei primi anni successivi all’accordo di Parigi allo scopo di diffondere dubbi legittimando l’attività di lobbying. Nello specifico, tra il 2010 e il 2019, le multinazionali hanno investito 251 milioni di euro per attività di lobbying sugli organi decisionali della Unione Europea.
In ultima analisi anche da questo saggio come da quelli di cui abbiamo avuto modo di discutere nei precedenti articoli emerge con estrema chiarezza come sia le multinazionali sia i fondi di investimento manipolando enormi quantità di denaro e avendo nelle mani risorse considerate strategiche per la sopravvivenza stessa della società costituiscano un pericolo per le democrazie occidentali. Proprio per questa ragione le organizzazioni della società civile – ong, studi legali specializzati ,organizzazioni di giornalismo investigativo – hanno promosso iniziative non solo di opposizione e antagonismo ma si sono servite anche del diritto per portare a processo le multinazionali, da quelle petrolifere a quelle del tabacco, per arrivare infine a quelle delle sementi come la Monsanto.
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Maria
ANCHE in tempi di Covid la Basilicata continua ad essere depredata ed inquinata da queste multinazionali a cominciare dall’ENI ..
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