Venti di rivolta a Bagdad, Santiago, Caracas, Hong Kong, Barcellona, Beirut, Parigi, il Cairo? Autunno caldo globale.
Oggi il nostro direttore ci parla dei venti di protesta globale e di come tutti hanno dei punti in comune, tracciando un filo rosso che li collega. Buona lettura!
Nei più diversi angoli del Mondo (come quelli che abbiamo citato ed a cui potremmo aggiungere altri meno eclatanti) si stanno verificando rivolte di piazza di ampie proporzioni(con cortei di decine di migliaia di persone, ma, in alcuni casi di oltre un milione) con scontri diretti con la polizia o, addirittura le forze armate e la televisione mostra scene di sconcertante similitudine: le stesse fiamme di barricate improvvisate, gli stessi idranti, le stesse violenze poliziesche … Tutto si somiglia: dall’anima giovanile della rivolta alle espressioni incredule e torve dei governanti e persino le divise dei poliziotti (in genere nere, con le stesse imbottiture e gli stessi caschi) si richiamano l’un l’altra, gli stessi cannoni ad acqua, le stesse tecniche antisommossa. Un vero spettacolo da mondo globalizzato, dove tutti imitano qualcuno e sono imitati da altri.
Ma, al di là delle esteriorità, cosa hanno realmente in comune rivolte che appartengono ad ambienti, nonostante tutto, così diversi? Parigi di Macron (dove la rivolta dei gilet gialli è partita un anno fa per estinguersi –almeno sinora- dopo le elezioni europee) non è l’Egitto dei militari e la Spagna, per quanto abbia una costituzione assai discutibile, non è la stessa cosa delle incerte democrazie latino-americane. E le differenze non mancano né sul piano dei regimi né su quello delle ragioni della rivolta o del diverso processo di formazione che hanno avuto. Ogni caso ha la sua specificità e non c‘è un minimo comun denominatore che si può applicare a tutti i casi al di là del fatto che c’è una rivolta e che essa ha forme espressive, comunicative e di azione molto simili fra loro.
Occorrerà fare uno studio attento di ciascun caso, per ora iniziamo da un esame sommario partendo dalle cause.
Spesso alla base c’è la rivolta contro un singolo provvedimento (l’applicazione della legge penale della Rpc ad Hong Kong, il rincaro del prezzo dei trasporti a Santiago o delle tasse sulla benzina a Parigi, o in generale l’aumento delle tasse in Libano) che, però, poi si estende ad altro e continua anche dopo la revoca del provvedimento contestato (Hong Kong, Parigi, Santiago) rivelando un malessere più profondo. In qualche modo è come se le prime manifestazioni rivelassero il soggetto della protesta a sé stesso, mettendo in moto anche le proteste successive, il che è un classico modo di manifestarsi dei movimenti spontanei improvvisi.
Altro tema ricorrente in molti casi è quello della corruzione (Venezuela, Iraq, Cile, Egitto e, sullo sfondo, Francia).
Diversi casi (Libano, Cile) sommano la richiesta di riforme economiche e sociali, in altri casi si chiede la caduta del governo (Egitto) o la si ottiene (Sudan e Libano); ci sono poi i casi particolari di Catalogna (dove si chiede la secessione e si protesta per le condanne dei leader secessionisti) o Hong Kong (che chiede la separazione dalla Rpc e l’annessione al Regno Unito, esattamente come era prima del ritiro degli inglesi dalla città-isola). Il caso di Hong Kong è unico nel suo genere perché è la prima volta che una regione chiede si separarsi dal suo stato nazionale per tornare nell’ambito del suo precedente stato colonizzatore, pur se come parte di tale stato con diritti pari a quelli di ogni altra regione del paese. E la cosa colpisce tanto più ove si consideri la contemporanea pressione secessionista della Scozia ed il particolare caso dell’Irlanda del Nord creato dalla Brexit.
Dunque, accanto a temi sociali come il carovita, la disoccupazione o economici come la pressione fiscale, c’è anche la presenza di movimenti con obiettivi più direttamente politicicome le riforme o che attaccano la stessa configurazione territoriale dello stato nazionale.
E veniamo alle caratteristiche operative: sono tutti movimenti non organizzati (qualche dubbio può esserci per i gilet gialli francesi, mentre nel caso venezuelano c’è la sovrapposizione fra la protesta spontanea e l’azione dei gruppi di opposizione di destra e di sinistra) e talvolta non sono neppure riconoscibili dei leader della protesta. Sono tutti (o quasi) movimenti ideologicamente compositi, in cui non prevale (o, almeno, non è riconoscibile) nessun indirizzo ideologico preciso. Anche nei casi in cui si reclamano riforme, non sempre è chiaro che tipo di riforme vengono auspicate ed anche nel caso spagnolo, il minimo comun denominatore dell’indipendenza da Madrid non si associa a nessuna cultura politica particolare (liberale, cattolica, socialista, comunista o di destra che sia). È da ritenersi che la giovane età dei dimostrati, nella grande maggioranza dei casi non appartenenti a nessuna formazione politica, incida in questa caratteristica che segnala il malessere ma non esprime indirizzi politici in positivo.
È da notare anche la sostanziale assenza dei sindacati, anche nei paesi in cui essi sono legali ed hanno un radicamento organizzato (forse unica parziale eccezione la Catalogna), il che li mostra nella loro essenza di apparati burocratici separati dagli umori popolari.
Il vero regista della protesta è la rete: sia nel mettere in comunicazione fra loro i singoli ed i piccoli gruppi, sia nel socializzare lo stato d’animo protestatario, sia nel formarsi degli appuntamenti di lotta. E, almeno per ora, non sembra che i governi siano in grado di penetrare il mondo della rete per cercare di modificarne gli indirizzi, anche solo come pratica provocatoria o di infiltrazione.
Questo ci sembra il quadro sommario allo stato dei fatti. Ma quali sono le ragioni più profonde del malessere diffuso? In tutti i casi c’è una forte componente giovanile e studentesca, ma con pezzi di ceto medio non irrilevanti (Francia) e/o popolari (Iraq, Egitto, Venezuela) il che non sembra casuale: ceti medi e giovani (in particolare studenti) sono i settori sociali in particolare sofferenza in questo periodo. L’ordinamento neoliberista ha creato dappertutto una crescente pauperizzazione dei ceti medi ed offre prospettive disperanti (soprattutto occupazionali) ai giovani (e qui i casi di Francia, Cile, Libano, Iraq ci stanno dentro a pieno titolo). Diversi sono i casi di Hong Kong, Barcellona, Egitto dove l’accento cade piuttosto sulla democrazia e i diritti civili, pur mescolandosi ai temi socioeconomici prima accennati. Il Venezuela assomma un po’ tutto, anche se, al di là degli effetti dell’ordine neoliberista c’è il generoso contributo di un governo sedicente socialista che è fra i più corrotti e autoritari del Mondo.
Tirando le somme: non si tratta di coincidenza casuali, per quanto ogni caso ha una storia a sé, quello che unifica questa costellazione di episodi è una rivolta contro l’ordine neoliberista entrato in sofferenza con la crisi del 2008 che è tuttora irrisolta. Una rivolta che in alcuni contesti prende i caratteri di jacqueries urbane, in altri quelli dei terremoti elettorali che portano ai successi dei cosiddetti sovranisti in Argentina, Brasile, Italia, Germania, Francia, paesi del gruppo Visegrad eccetera. In fondo la stessa elezione di Trump ha la stessa radice anche se con caratteri propri (in altri paesi assume i caratteri del radicalismo islamico). Ed ai bordi di questo quadro vanno iscritti anche il movimento giovanile sulle questioni ambientali, i forti flussi migratori dall’America Latina ed, ancor più, dall’Africa. Non è la rivolta contro la globalizzazione, ma solo il suo inizio.
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