Elogio della coesistenza, strumento di Pace tra i popoli
La grande assente nel dibattito pubblico occidentale è la parola “coesistenza”, termine dietro al quale si cela una filosofia politica che necessita di essere recuperata. L’aggravarsi della situazione internazionale, con tensioni sempre più prossime a trasformarsi in scontri militari a tutto campo, le cui conseguenze potrebbero chiamare in causa l’esistenzialismo più che la politica, richiede, anzi impone, che la società tutta torni a parlare di coesistenza intesa come mezzo e come premessa di democrazia.
La coesistenza perduta
Assistiamo, dal 24 febbraio 2022 (ma in realtà da molti più anni), al polarizzarsi e all’irrigidirsi del dibattito politico nei diversi Paesi. Si tratta di un processo certamente speculare (abbastanza evidente nel caso del conflitto in corso tra Russia e, per interposta Ucraina, NATO), ma che ha nell’Occidente in senso lato non poche delle sue coordinate originarie.
La retorica delle classi dirigenti occidentali nell’affrontare la questione ucraina in particolare (ma è possibile estendere il ragionamento anche ad altri contesti di crisi internazionali), non si può restare indifferenti dinanzi al riproporsi, continuo e costante, di uno schema di linguaggio sconcertante in cui l’avversario è oggetto di un’aggressione reiterata su diversi piani (verbale, economico, culturale, militare in forma ibrida). Questo atteggiamento dogmatico si irrigidisce, anziché smussarsi, dinanzi alle, pur minime va ricordato, possibilità di distensione che si presentano nel corso dello sviluppo delle crisi in essere. L’opinione pubblica assiste così, impassibile e quasi rassegnata, al degenerare dello scontro verso scenari oltre i quali la dimensione politica perderebbe di significato.
Perché parlare di coesistenza, e dunque di democrazia, è diventato così difficile proprio in quei Paesi che si considerano la culla della democrazia stessa? Nelle democrazie occidentali, che si autodefiniscono liberali (ma l’aggettivo migliore da affiancare rimane quello di “borghesi”), monta ormai da anni una crisi del liberalismo, a sua volta riflesso di quella del capitalismo incapace ancora oggi di uscire dalla tempesta economica del 2008. La crisi è in effetti organica e il liberalismo ne subisce, più o meno consapevolmente, le conseguenze accentuando gli elementi di esclusivismo, eccezionalità e intolleranza che purtroppo in alcune sue componenti possiede.
Nel momento in cui celebra sé stesso come la migliore filosofia politica esistente il liberalismo è minacciato, internamente, da impulsi reazionari, aventi nel sovranismo la loro sintesi. Costretto a competere col sovranismo, cresciuto del resto sul terreno fertile del liberalismo conservatore, quest’ultimo è costretto a contraddire i suoi principi adottando, a seconda dei casi, scelte che ne minano la credibilità. E così, per restare alla strettissima attualità, mentre professa l’universalità dei diritti umani, i Paesi che si definiscono democrazie liberali alzano muri e fili spinati per impedire a migliaia di esseri umani il godimento del diritto ad una vita dignitosa negando loro l’ingresso nell’Occidente progredito.
Queste contraddizioni inaspriscono, con effetti potenzialmente disastrosi per l’umanità intera, quel germe di intolleranza che, in parte, caratterizza il pensiero liberale già intuito da Kant quando, nel 1795, criticava la tendenza alla guerra degli stati europei: “e mentre commettono ingiustizie con la stessa facilità con cui si beve un bicchier d’acqua, vogliono farsi passare per nazioni elette in fatto di ortodossa osservanza del diritto”1. Il liberalismo infatti si pensa come universale, proiettando così, nella società e nell’ambito delle relazioni internazionali, una dimensione di eccezionalità ben espressa dall’ideologia del “destino manifesto” incarnata dal modello americano. Tuttavia “questa visione, in base alla quale c’è un unico popolo cui compete il privilegio eterno di guidare mentre tutti gli altri popoli si devono rassegnare ad essere eternamente guidati, è la negazione stesso dell’idea di eguaglianza e di democrazia nei rapporti internazionali”2.
La minaccia dell’intolleranza
L’eccezionalità di questo tipo di discorso si traduce, ribaltandosi, in concretissima intolleranza in quanto negazione della diversità. Per essere più precisi: il liberalismo accetta sì la diversità degli individui; ma ponendo questi ultimi al di fuori dei rapporti sociali che definiscono l’essere umano, finisce col non riconoscere la diversità reale, sociale, come elemento fondante della democrazia.
Nelle democrazie liberali, quindi, la diversità è riconosciuta agli individui nella forma della tutela delle cosiddette libertà positive (libertà di pensiero; libertà di parola; libertà di stampa; libertà di culto; libertà di orientamento sessuale; libertà di scelta). Ma l’individuo, come ci ricorda Melville, preso in astratto, è poco più che una bellissima immagine fantastica3. L’individuo senza società, l’uomo senza natura, è un concetto metafisico; così anche le sue libertà individuali perché non storicizzate. Il limite del liberalismo sta nel non comprendere la storicità della realtà. Ne consegue che la stessa diversità è confinata ad un livello astratto, individuale, soggettivo. Estraniando la diversità dalla realtà e dalla società il liberalismo alimenta involontariamente l’intolleranza che pretende di combattere, demolendo anziché costruire, e praticare, la democrazia.
La negazione della diversità minaccia la democrazia
Cerchiamo di comprendere in che modo la negazione della diversità socializzata sia una negazione concreta della democrazia.
La retorica politica di matrice anglosassone ha individuato nel confronto-scontro tra “democrazie” ed “autocrazie” la ragion d’essere della contemporaneità per il mondo occidentale. Ad una prima e superficiale analisi entro questi parametri è riconosciuta una diversità sostanziale, ben evidente; tale diversità, tuttavia, assume connotati manichei e moralistici. Del resto tale contrapposizione forzata è espressione di una chiara agenda di politica internazionale sorta, in maniera esplicita, in seno all’amministrazione Biden (che ne aveva fatto un punto dirimente sin dalla campagna elettorale per le presidenziali del 2020). Come ogni contrapposizione forzata la “dialettica” tra “democrazie” ed “autocrazie” è intrisa di connotati ideologici che non pongono i due poli dello scontro sul medesimo piano.
La diversità stessa, qui, è rivestita di connotati palesemente sbilanciati a favore di uno dei due poli in competizione. La stessa scelta delle parole, volutamente non aggettivate, esprime, in maniera molto efficace, l’idea di mondo che l’Occidente intende, insistentemente, difendere quando non realizzare compiutamente. Al tempo stesso questa concezione ideologica del mondo, che non si riesce a non immaginare, quando va bene, diviso in blocchi contrapposti, fornisce il sostrato culturale per legittimare la persistenza dell’imperialismo come strumento di dominio.
Non si tratta, però, del riconoscimento di una diversità reale perché il piano su cui sono posti i due poli è inclinato. Così le “democrazie” (senza specificarne tipologia, dimensioni, assiomi istituzionali) si auto-ergono a rappresentanti legittimate di una civiltà che si pretende più evoluta, mentre le “autocrazie” non possono che figurare come residui involuti appartenenti ad un passato retrogrado e avvolto nell’oscurantismo politico. Non può esserci reale riconoscimento della diversità se si imposta la relazione in un modo tanto volgare e sbilanciato. Del resto il linguaggio adottato conferma, in modo implicito, questo non riconoscimento: tutto ciò che ha a che fare con le cosiddette “autocrazie” viene respinto secondo tecniche di comunicazione, ben amplificate dall’industria mass mediatica, che passano con disinvoltura dalla polemica alla ridicolizzazione quando non all’aperto insulto.
La negazione del riconoscimento della diversità assume caratteristiche peculiari se si osserva la mancata categorizzazione all’interno dei due poli. Se con “democrazie”, con buona pace di ciascuno di noi, i liberali intendono “le loro democrazie”, è nel campo delle “autocrazie” che si assiste ad una rozza omologazione indistinta. “Autocrazie” sono quindi sia stati come la Russia o l’Iran, dove, nonostante la crisi di democrazia che le investe da tempo, pure esiste un’opposizione politica e dove comunque, grazie anche al livello di istruzione complessivo delle loro società, è possibile notare l’affacciarsi di un pluralismo nella forma anche di un antagonismo delle idee; e stati come l’Arabia Saudita, regimi in cui l’autocrazia propria dell’autocrate-re si manifesta nella repressione capillare e violenta di ogni forma di dissenso. Come è possibile mettere sullo stesso piano una petromonarchia assoluta, con tendenze teocratiche, con, ad esempio, stati come il Nicaragua, Paesi in cui comunque le libertà degli individui sono maggiormente tutelate?
I limiti del liberalismo
Problemi analoghi si riflettono per le “democrazie”. Il liberalismo concepisce la democrazia solo ed esclusivamente nella forma giuridico-istituzionale figlia della sua filosofia politica. Eppure nel mondo, oggi, in virtù di processi storici di lunga durata, esistono innegabili democrazie che non si riconoscono, in modo totalizzante, nei valori del liberalismo, ma che intrecciano gli aspetti più avanzati della cultura liberale con quelli delle filosofie politiche che hanno contribuito a determinarle. Paesi come il Sud Africa, l’India o il Brasile che non possono (e non vogliono) definirsi “democrazie liberali” sarebbero quindi “democrazie” o “autocrazie”?
L’impossibile semplificazione della realtà propugnata dai sostenitori del dogma “democrazia-autocrazia” è estremamente dannosa perché impedisce di leggere le cose come stanno e, quindi, di comprenderle.
Uguaglianza e coesistenza
La rozza suddivisione bipolare del mondo di cui sembra innervata oggi parte delle classi dirigenti occidentali non riconosce la diversità reale. Non riconoscendo la diversità, infatti, non riconosco né l’altro (soggetto politico; governo; stato) né le sue ragioni. In questo modo escludo a priori che il mio interlocutore sia anzitutto un interlocutore di pari dignità e grado; in secondo luogo non intendo dare alcun valore alle ragioni che muovono l’altro. Sto escludendo, schematicamente e ideologicamente, l’altro non riconoscendolo uguale a me nella sua diversità negando quindi che “la ‘natura’ dell’uomo non è qualcosa di omogeneo per tutti gli uomini in tutti i tempi”4. Se non lo riconosco come diverso, non posso che negare il presupposto fondamentale alla base della coesistenza e cioè che esiste una uguaglianza nella diversità e che tale uguaglianza (di preoccupazioni per la sicurezza; di ricerca del benessere; di emancipazione sociale e così via) sia il perno attorno cui costruire una cultura delle relazioni internazionali improntata alla Pace come presupposto reale della democrazia.
Certo, come ci ricorda Todorov “vivere la differenza nell’eguaglianza: è cosa più facile a dirsi che a farsi”5. E del resto purtroppo oggi l’Occidente, negando la diversità, nega nei fatti il riconoscimento di un interlocutore che finisce con l’essere delegittimato sul piano verbale, su quello economico (l’imposizione di sanzioni), su quello culturale (il processo, mai del tutto abbandonato dai tempi dell’antica Grecia, di “barbarizzazione” della cultura altrui). Così facendo si assiste all’implicita (ma nemmeno troppo a dire il vero) negazione del presupposto di “uguaglianza” che è insito in ogni essere umano, in una sorta di restyling della variegata gamma di stereotipi con cui nel XVI secolo l’aristotelico Juan Ginès de Sepulveda intendeva sottolineare l’ineguaglianza di fatto degli indios mesoamericani rispetto ai colonizzatori europei6.
Il continuo processo di negazione del riconoscimento delle ragioni dell’altro non può che condurre alla negazione effettiva della democrazia stessa, la quale, per realizzarsi in modo compiuto, non può prescindere dal confronto paritetico tra posizioni differenti che riconoscono, reciprocamente, il presupposto di uguaglianza alla loro origine e che coincide con l’accettazione della rispettiva dimensione umana. Sul piano delle relazioni internazionali solo la coesistenza, con tutti i suoi limiti, può garantire, nelle condizioni storiche attuali, quell’equilibrio fondamentale da cui possa derivare il mutuo riconoscimento delle ragioni dell’altro, garanzia effettiva della Pace e, dunque, della democrazia.
La necessità della coesistenza
Dobbiamo quindi porci, come esseri umani prima che membri della società civile, la questione fondamentale della coesistenza e delle modalità per promuoverne la costruzione nell’ambito delle relazioni internazionali.
La coesistenza, oggi, si impone come necessità storica immediata nonché come presupposto di libertà. Promuovere la presa di coscienza della necessità della coesistenza significa promuovere, innanzitutto, una battaglia politica non priva di rischi nell’attuale contesto delle democrazie liberali. Del resto l’assenza del riconoscimento della diversità sociale, collettiva, è purtroppo l’origine della negazione della democrazia; e tale assenza si manifesta, con veemenza, nel linguaggio, nella retorica e nella propaganda dei settori più intolleranti del liberalismo. Chiunque si batta, con gli strumenti della partecipazione, per smuovere, mediante esercizio di critica, l’unilateralismo delle posizioni ideologiche va incontro alla delegittimazione, che è dopotutto lo strumento naturale grazie al quale il dibattito politico viene definitivamente annacquato.
I rischi sono enormi e, per citare il solo movimento pacifista italiano, le campagne denigratorie e diffamatorie non sono mancate nel corso di questo primo anno di guerra. Se i rischi sono enormi, la necessità della politica è ancor più impellente ed è per questo che la ripresa dell’argomento della coesistenza non può più essere procrastinata.
Ma che cosa intendere per coesistenza? Il precedente storico della Guerra Fredda è illuminante per un verso, ma non incoraggiante per un altro. Tra il 1945 e il 1991 l’umanità ha vissuto e partecipato di una effettiva, reale, coesistenza, su scala globale, tra due modelli politici ed economici differenti e contrapposti. Eppure, va riconosciuto, quel genere di coesistenza si basava anche (e forse soprattutto) su un equilibrio di terrore (la minaccia della mutua distruzione assicurata in caso di utilizzo di armi nucleari) a sua volta sistematizzatosi attorno al determinarsi di due blocchi militari antagonisti (con la NATO in postura aggressiva a nascere per prima e a produrre, così facendo, per reazione, la costituzione del Patto di Varsavia). I vantaggi di una coesistenza di questo tipo sono stati evidenti e hanno potuto essere riassunti nel semplicistico, ma efficace, discorso sulla scomparsa della guerra tra grandi potenze (scomparsa effimera in quanto sostituita dalle sempre più sdoganate ‘guerre ibride’ o per procura, leggasi Afghanistan o Vietnam). Questo modello di coesistenza non ha tuttavia retto l’urto dello sviluppo storico, andando a sfaldarsi dopo il 1989 e lasciando posto ad un preoccupante unilateralismo che, a causa della crisi del capitalismo, si è tradotto, lentamente ma progressivamente, in una non meno allarmante tendenza all’egemonismo.
E allora, che genere di coesistenza si rende oggi necessaria? Escludendo quella fondata sui vincoli imposti dalle alleanze militari contrapposte (che nella Storia hanno sempre portato alla guerra o al collasso del sistema difeso da uno di quei blocchi), bisogna pensare una coesistenza di tipo nuovo; una coesistenza che sia base reale per l’individuazione di un insieme di valori umani comuni attorno ai quali tutti i popoli e tutti i sistemi politico-sociali, nel rispetto delle reciproche differenze, sappiano riconoscersi.
Si tratta di immaginare, e poi sforzarsi di costruire, un sistema di relazioni internazionali che sia contrario all’unilateralismo e che metta al centro un multilateralismo reale. Il movimento per la Pace in tutte le sue diramazioni (sociali, sindacali, politiche, religiose) deve valorizzare ogni esperienza e ogni pratica che consenta all’umanità di procedere in direzione della propria emancipazione; tra queste non può essere più derogata una serrata, severa e stringente critica dell’intolleranza, oggi purtroppo ben inserita nel discorso pubblico europeo. La coesistenza che si deve immaginare è un modello contrario, opposto, al dualismo “democrazie-autocrazie” accennato in precedenza. La coesistenza deve essere un modello di libertà perché mette al centro il riconoscimento della diversità nell’uguaglianza (di valori e di necessità). Forse, per impostarla, un suggerimento ci viene da Marco Aurelio, che parlando alla sua coscienza si rivolge in realtà a quella di ciascuno di noi e per il quale “il modo migliore per difendersi da un nemico è di non comportarsi come lui”7. Se vogliamo costruire e praticare la coesistenza come premessa di democrazia, e dunque di Pace, forse è necessario iniziare a fare l’opposto di chi, in nome di una presunta volontà di pace, si dice pronto a fare la guerra, adottando l’intolleranza come stella polare.
È una sfida immensa, ma da cui non possiamo né dobbiamo sottrarci. È una battaglia culturale che dobbiamo combattere. Ne va della nostra esistenza come specie; e proprio per questo motivo si rende urgente iniziare a promuovere, nella società, una serie di valori comuni aventi nella Pace la loro sintesi. Perché non possiamo dimenticarci che “noi siamo infatti nati per darci aiuto reciproco, come i piedi, le mani, le palpebre, come le due file di denti. Ecco perché è cosa contro natura agire l’uno contro l’altro; e irritarsi contro qualcuno e detestarlo è proprio di persone tra loro nemiche”8.
1I. Kant, Per la Pace perpetua, N. Merker a cura di, Editori Riuniti, Roma 2020, pp. 60-61.
2 D. Losurdo, Imperialismo e questione europea, La scuola di Pitagora editrice, Napoli 2019, p. 168.
3 Cfr. H. Melville, Moby Dick o la Balena, C. Pavese trad., Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1976, p. 389: “Siediti come un sultano tra le lune di Saturno e prendi l’uomo solo, molto in astratto: ti sembrerà un prodigio, una grandezza e un dolore”.
4 A. Gramsci, Quaderni del carcere, V. Gerrattana a cura di, Einaudi, Torino 2001, vol. III, p. 1875.
5 T. Todorov, La conquista dell’America. Il problema dell’“altro”, Einaudi, Torino 1992, p. 302.
6 Cfr. ivi, pp. 184-194.
7 Marco Aurelio, Pensieri, M. Ceva a cura di, Mondadori, Milano 2022, p. 113.
8 Cfr. ivi, p. 25.