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La guida discreta di Milano: Mario Delpini e l’umanesimo del bene comune

MariO Delpini

La guida discreta di Milano: Mario Delpini e l’umanesimo del bene comune

Come ogni anno a Sant’Ambrogio l’Arcivescovo di Milano Mario Delpini ha tenuto il suo “Discorso alla Città”. In molti ricordano quello dell’anno scorso, carico di vis retorica, di emotività, il cui scopo era dare forza ad un tessuto sociale che pareva più fiaccato che mai, provato da un 2020 eccezionale e in preda ad un grande scoramento. Fu un discorso energico, ricco di speranza. 

Quello di quest’anno, “Con Gentilezza” è forse meno potente ma è significativo perché ricco di contenuti: giovani, famiglie, lavoro, ambiente, cura del bene comune (se si guarda ad un versante politico e sociale); partecipazione, riconoscenza, gentilezza, resilienza (se si osserva il discorso dal lato della morale).

In 32 pagine cerca di dare la visione popolare-cattolica di una vita impegnata e immersa nel tessuto sociale che la circonda.

La parte contenutistica la fa certamente da padrona ma le prime 9 pagine sono una introduzione e una premessa storico/formale in cui traccia, sull’esempio della figura ambrosiana, le caratteristiche che dovrebbe avere chi ha il compito di guidare la comunità o in essa vuole impegnarsi: stile nell’esercizio del ruolo, fermezza, gentilezza, giudizio e rispetto, determinazione e pazienza, onestà, discernimento e umorismo, saggezza, responsabilità e lungimiranza.

Proprio sulle ultime due vorremmo, se ci è consentito, innestare una riflessione, per cercare al di là dei contenuti, una metodologia, appunto una via, grazie alla quale si sviluppano poi le proposte e le priorità. 

(N.B. non si intende dire che Delpini avesse in mente quello che ora noi scriviamo mentre stendeva il “Discorso” , ma vogliamo provare ad allargare le sue fondamenta per aprirne uno spazio di fruibilità, formalmente minimo, ma intersoggettivamente ampio) 

A pagina 6, parlando della responsabilità è scritto che essa richiede “una dura ascesi”. A questa parola il pensiero va a quel prosaico ma magnifico testo del 1916 (scritto prima) di Max Weber “L’etica economica delle religioni universali. Considerazione intermedia”. Nella Considerazione intermedia Weber vede le grandi religioni di Asia e Medio Oriente come fondate su un atteggiamento di “rifiuto del mondo”. Pur non esplicitamente, Weber fa capire che l’esempio paradigmatico di etica religiosa di rifiuto del mondo è offerto proprio dalla religione cristiana. Il rifiuto del mondo è un atteggiamento tipico di tutte le religioni che pongono il divino in una dimensione trascendente, separata dal mondo materiale. Weber dunque cerca di illustrare quale sia l’atteggiamento etico del rifiuto del mondo, per raggiungere il divino, da attuarsi tramite l’”ascesi”. Proprio nel confronto tra religione della pietà universale e mondo, la religione, tramite un processo di razionalizzazione, si trasforma in etica religiosa di tipo razionale. In questo duro confronto tra etica e mondo, Weber vede due tipi di “ascesi” tramite le quali l’etica religiosa si scontra con gli aspetti razionali (economia e politica) e irrazionali (sfera estetica ed erotica) del mondo. Una ascesi extramondana, tipica dei mistici, che fuggono nella maniera più decisa, fino all’amore acosmico, con un atteggiamento radicalmente anti politico, che si sottrae alla prassi dell’agire politico, una prassi che è anche di calcolo e di violenza. L’altra via è una ascesi intramondana, tipica del puritanesimo, una etica professionale che considera ogni lavoro svolto in questo mondo come svolto al servizio del volere di Dio. Il mondo in questo caso è materiale su cui compiere il proprio dovere. La redenzione avviene cercando di imporre al mondo creaturale i comandamenti rivelati utilizzando anche i mezzi del mondo, anche quella violenza il cui rifiuto è il punto di partenza dell’etica religiosa stessa. In questo caso, però, cade il concetto di fratellanza, diventando la salvezza una questione individuale. Esattamente come nel caso della ascesi mistica. Tutte le soluzioni etiche adottate sono presentate come un compromesso di queste vie dicotomiche. Compromesso che Weber nomina senza darne una valutazione morale. Muovendosi sempre sul piano descrittivo arriva al capitolo (il VII) dedicato all’etica sociale organica in cui a ogni individuo e a ogni gruppo toccano determinati compiti a seconda della posizione socioeconomica determinata dal destino. Una soluzione di compromesso, interpretata sia in chiave di utilitarismo sociale sia di provvidenzialità, che è comunque gradita a Dio perché permette di limitare il peccato consentendo di salvare il maggior numero possibile di anime. Questa idea è dominata da una esigenza di fratellanza cosmica e razionale con una salvezza che deve essere, almeno in linea di principio, disponibile a tutti, andando dunque a distanziarsi dai due estremi ugualmente individualisti. 

L’ascesi della responsabilità menzionata da Delpini, per come si sviluppa la parte contenutistica del “Discorso”, prende da un lato l’impegno intramondano tipico della seconda ascesi (per realizzare le politiche indicate) con l’esigenza di massimizzazione della fratellanza ottenuta con le virtù menzionate a livello morale.

Proseguendo nella lettura del “Discorso alla città”, si legge che chi intraprende l’ascesi della responsabilità “non può sottrarsi alla pressione dell’urgenza per le emergenze che scuotono il convivere” delle persone. Facendo però attenzione, secondo quella ascesi che non si riduce a salvezza individuale mistica o intramondana, perché non tutti i desideri e pretese sono ugualmente urgenti e legittimi, come invece pare essere secondo un “individualismo troppo diffuso e troppo approvato (pag 8)
Qui si apre l’altra grande questione che Delpini deve risolvere, quella della classificazione delle preferenze, perché sono molti i casi in cui si dà conflitto fra interessi e preferenze. La risoluzione dei conflitti, oltre allo sviluppo educativo, fa da sfondo a tutte le tematiche espresse nel “Discorso”. 

Quali priorità dunque assegnare alla politica? Sono quelle dei paragrafi successivi. Ma come farlo? Per rispondere a questa domanda, che rimane inevasa, salvo che immediatamente non si dia credito all’autorevolezza vescovile o non si condivida l’agenda “popolare”, ci può venire in aiuto, ci offre una via di fuga, l’economista e filosofo ungherese Janos Harsanyi (più conosciuto come John Harsanyi). Filosofo, economista, teologo, dal 1950, anno in cui lasciò l’Ungheria, è stato un vero punto di riferimento del pensiero anglosassone da Sydney e Berkeley. In particolare prendiamo in esame lo scritto “Moralità e teoria del comportamento razionale” nella raccolta “Utilitarismo e oltre” del 1964. Si parte innanzitutto dall’adottare un punto di vista corrispondente a quello di un osservatore imparziale, poi si selezionano solo quelle preferenze che possono essere reciproche, arrivando infine all’idea che il criterio di giustizia sia un criterio di massimizzazione dell’utilità sociale. Il criterio di Harsanyi per discernere le preferenze si potrebbe riassumere nel dire che una preferenza morale è la preferenza espressa da un individuo nel caso in cui l’individuo non tenga conto della sua posizione nei vari strati sociali (o per lo meno che sia ugualmente probabile che l’individuo si trovi in diverse posizioni). L’equiprobabilità porta a considerare in egual modo gli interessi e i bisogni di chiunque, dato che si assume la stessa probabilità di esserne detentore. Questo dà lo sfondo per una oggettività della scelta in termini di massimizzazione, ammesso che una tal cosa sia possibile, unito ad una autonomia della scelta, per cui ciascuno è il miglior giudice dei propri interessi, ma ancora non ci dice come dare delle priorità all’azione morale e dunque a quell’impegno intramondano che dà luogo ad azioni politiche (della polis) concrete.

Ci sono infatti, secondo il pensatore ungherese, preferenze manifeste (qualsiasi preferenza individuale) e preferenze vere o razionali. Per la determinazione delle priorità non bisogna intendere ciascun bisogno o desiderio ma solo quelli che superino le prove della razionalità, o della prudenza. Così nella funzione di utilità sociale entrano solo le preferenze vere o razionali. Poiché appunto si tratta di massimizzare in un contesto sociale, i primi desideri che vanno scartati sono quelli chiaramente antisociali. Harsanyi parla di questioni di giustizia, ma per il nostro scopo, cioè quello di mostrare come possono essere scelte le priorità dei bisogni e dei desideri, possiamo comunque dire che sono ammesse quelle preferenze avere le quali è coerente con l’essere membri di una comunità sociale. 

Lasciando perdere le critiche si possono muovere a questa teoria di utilitarismo delle preferenze (tutto il versante contrattualista), ci pare però che formalmente possa essere adatta a dare ragione delle priorità che Delpini affronta nel “Discorso alla città”. 

Per attuare questa cernita è richiesto quello spirito di ascesi responsabile nei confronti del mondo, così da arrivare a dire “ho fatto quello che ho potuto, ho fatto quello che dovevo fare” (pag. 25), risolvendo l’impasse dell’individualismo in ogni suo aspetto, sia nelle intenzioni (nelle convinzioni, per dirla a la Weber) con un impegno verso il mondo, sia nelle azioni con le sole scelte veramente (razionalmente per dirla a la Harsanyi) utili alla comunità.

Laureato magistrale in Scienze Filosofiche all'Università degli Studi di Milano, è attualmente consigliere comunale nel paese di Cesano Boscone.

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