“Disciplina del caos”: le illusioni infrante del liberalismo
Tra le varie correnti che hanno animato la modernità, il liberalismo è assurto a dogma di fondo che oggi puntella il dominio dei signori del denaro, grazie alla subdola truffa ideologica vecchia di secoli secondo la quale non esisterebbe libertà al di fuori di un’individualistica ricerca del successo economico, con la politica ridotta a schiava ausiliaria di un “benessere” non soltanto ingiusto e ineguale, ma nei fatti sempre più rovesciato in malessere sociale ed esistenziale. Attualmente, quella liberale è l’anti-etica di massa al servizio di chi controlla il ciclo globale del denaro attraverso la forza degli Stati. La genealogia della morale liberale mostra da un lato come questa abbia capovolto in senso diametralmente opposto l’originario significato di liberalità, dall’altro in che modo sia possibile districarsi dalla trappola mentale della finta libertà.
Nel saggio “Disciplina del caos” edito da “La Vela” e di recentissima uscita, di cui oggi presentiamo un estratto, Alessio Mannino traccia un itinerario che passa dalla demistificazione dei grandi teorici per discendere agli inferi dell’alienato quotidiano, fino all’ipotesi di una disciplina fondamentale per lottare nel caos dei tempi tristi. Completano il saggio interviste a Franco Cardini, Paolo Ercolani, Fabio Falchi, Thomas Fazi, Carlo Freccero, Marco Gervasoni.
L’autore – Alessio Mannino (1980), giornalista freelance. Professionalmente nato alla Voce del Ribelle fondata da Massimo Fini, ha diretto i quotidiani online La Nuova Vicenza e Veneto Vox. Scrive per Il Fatto Quotidiano, L’Intellettuale Dissidente (dove ha una rubrica, “Sott’odio”), The Post Internazionale, Kritika Economica e Mondoserie.it. Collabora con il canale su youtube Vaso di Pandora.E’ autore di “Contro. Considerazioni di un antipolitico” (Maxangelo, 2011), “Mare monstrum. Immigrazione: bugie e tabù” (Arianna Editrice, 2014), “Contro la Costituzione. Attacco ai filistei della Carta ’48” (Edizioni Circoli Proudhon, 2016).Il suo ultimo lavoro “Disciplina del caos. Come uscire dal labirinto del pensiero unico liberale” (La Vela), è uscito l’11 ottobre 2021.
Quando la libertà divora sé stessa
Estratto di “Disciplina del caos” -pag. 385-389.
L’individualismo, anima del liberalismo, è definibile come il principio di solitudine. Demolita la stabilità come valore, “alla fine ci siamo ritrovati tutti terribilmente soli”. È da qui che bisogna ripartire: dalla pienezza di legami che riconciliano gli individui con se stessi.
Il liberalismo è stato molto più che l’involucro legittimante del capitalismo. Ha rappresentato una cesura antropologica: per la prima volta nella storia la dimensione economica è diventata il centro della vita umana. Mentre durante l’antichità, e per certi aspetti ancora in età medievale l’economi co, almeno idealmente, restava una parte del tutto e per di più non la più nobile (degno d’onore era il mercante se me cenate, non in quanto mercante né tanto meno in qualità di prestatore di denaro), con l’evo moderno l’ambito produttivo e commerciale si scorpora dalla cornice comunitaria e, autonomizzatosi in società civile, prevale su ogni altro. Il progetto moderno rinnega la natura legislatrice e l’historia magistra vitae e le sostituisce con la calcolabilità, secondo la quale ogni fenomeno è misurabile, quantificabile, programmabile (l’impresa capitalistica moderna, scrive Weber, “si fonda interamente soprattutto sul calcolo”). Ciò che interessa alla modernità liberale è la sicurezza dei traffici privati. Di conseguenza non serve più neanche una teoria dello Stato, perché lo Stato non è soggetto pri mario ma derivato, di risulta, strumento pericoloso da cui semmai difendersi. Non ha perciò più neanche senso parlare di governo: meglio chiamarla governance, amministrazio ne burocratica con il pilota automatico.
La libertà come dominio sull’eccesso è abbandonata per far posto all’eccesso come virtù, libidine di potenza ruotante interamente intorno al nervus rerum del denaro (“la tecnica che unisce tutte le tecniche”9). Il vero fine del capitalismo liberale, tuttavia, non è il denaro in sé: è l’appropriazione del futu ro tramite il denaro (“non esiste passato e non esiste presente, ma solo l’avvenire”). Speculazione e sfruttamento: im paziente di accumulare, il capitalista lasciato a sé, al netto delle intenzioni, è un delinquente etico. La monetizzazione del reale ha agito come acido solvente dei comportamenti umani, divorando come in “una febbre che dapprima aumenta il metabolismo e accelera la crescita di un organismo, per poi intaccarne la forma e minarne l’esistenza stessa”.
Assunta la razionalità utilitarista come criterio più razionale rispetto all’imprevedibile ragionevolezza politica, l’interesse privato ed economico ha colonizzato l’immaginario, indebolendo il concetto stesso di pubblico. E finendo, oggigiorno, con il considerare fatto del tutto normale la sfiducia nel prossimo (“il 75,5% degli italiani non si fida degli altri, convinti che non si è mai abbastanza prudenti nell’entrare in rapporto con le persone”, così rileva il censis nel Rapporto 2019).
Armi della distorsione liberale sono state la scienza tecnica e l’economia neoclassica. Quest’ultima sarebbe più cor retto chiamarla marginalista, dal momento che nasce contro quella classica di David Ricardo (contrario al laissez-faire) idealizzando il margine, ovvero l’apporto che ciascun soggetto arreca alla produzione di reddito. I marginalisti pretendono di dimostrare non solo una semplicistica lettura della legge di Say – secondo cui l’offerta sregolata genererebbe come per magia la domanda – ma anche che sia possibile la piena occupazione grazie a una massiccia flessibilità contrattuale. Ben lontana dall’essere scientifica, tale scuola va considerata “una teoria politica alla ricerca di egemonia” che sorvola sulla strutturale eccedenza di offerta che porta il capitalismo a cicliche crisi di domanda (il che significa che si produce di più di quanto si consuma).
La libertà come esenzione da imposizioni, e dunque da im poste, ha legittimato innanzitutto il cambio della guardia tra aristocrazia di sangue e aristocrazia degli affari. In un secondo momento, tuttora in corso, ha sradicato il concetto stesso di gerarchia di sforzi e meriti. Storicamente giustificabile con la decadenza della nobiltà e l’inefficienza dell’assolutismo, l’emancipazione sette-ottocentesca dai lacci della tradi zione (ancien régime) è reiterata ai giorni nostri come se anco ra sussistesse una qualche residua sacralità, che invece è stata rasa al suolo da tempo. I liberali dell’ultimo metro, i cosid detti neo-liberali, ragionano come se Adam Smith fosse qui tra noi. David Boaz, vicepresidente del Cato Institute di Washington, ebbe a dire che “il liberalismo ha innanzitutto portato alla rivoluzione industriale e, in una evoluzione naturale, al la nuova economia […]. In un certo senso siamo ora torna ti sulla via tracciata all’inizio del xviii secolo, alla nascita del liberalismo e della rivoluzione industriale […]. L’ideale dei liberali non è cambiato da due secoli. Vogliamo un mondo nel quale gli uomini e le donne possano agire nel loro interesse […] perché in questo modo contribuiranno al benessere del resto della società”. Più chiaro di così…
“Le istituzioni liberali cessano di essere liberali non ap pena si riesce ad ottenerle: non v’è nulla, in seguito, che in maniera più terribile e radicale delle istituzioni libera li danneggi la libertà”
Friedrich Nietzsche
Il liberalismo ha dichiarato pornografica la necessità di assi portanti comuni che non siano regolette procedurali. È diventato così il nemico pubblico numero uno della libertà di cui presume di avere l’esclusiva. Una truffa intellettuale. L’individuo, anziché pensarsi come nodo di relazioni, galleggia nell’isolamento (il che è tecnicamente materia per manuali di psichiatria). Di conseguenza i valori sono considerati come attinenti alla sola sfera individuale, “dove non ci sarebbe più il problema di accordarsi eticamente su nulla”. Una comunanza etica diventa allora irrazionale. Peggio: un peso. “Non sappiamo più amare, né credere, né volere. Ciascuno di noi dubita della verità di ciò che dice, sorride della vee menza di ciò che afferma e presagisce la fine di ciò che pro va”. Lo scriveva già Constant nel primo Ottocento. Valeva al lora come vale adesso.
Per meglio servire il vitello d’oro si alimenta un edonismo da straccioni, che pagano per godersi quel po’ di vita concessa dalla dichiarazione dei redditi. Vaticinato e stigmatizzato già durante l’ascesa della ragione liberale, l’homo oeconomicus è oggi cosa fatta. Ma non potrà andare avanti per sempre. Normalità sociale (intesa come norma prevalente) e naturalità psicobiologica (l’insieme dei caratteri precipui della specie umana) reclamano il ripristino dei propri canoni. E lo faranno, piaccia o meno, con le buone o con le cattive. Tornare umani, non restare umani, sarà la gaia scienza di un mondo post-liberale.
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