Lezioni del Quirinale: la Democrazia è un sistema complesso
Molto rumore per nulla. Se dovessimo dare un titolo a questo romanzo Quirinale, non vi sarebbe scelta più calzante se non quella della famosa tragicommedia shakespeariana.
D’altronde i personaggi che il bardo di Avon fa vivere sulla scena non si differenzierebbero molto da i protagonisti di questa partita quirinalizia.
«Allora, per la verità, mi sembra troppo bassa per un’alta lode, troppo scura per una chiara lode, e troppo piccola per una grande lode. Solo questo posso riconoscerle di buono, che se fosse diversa da com’è, non sarebbe bella, e che, essendo com’è, non mi piace»
Con queste parole, all’inizio del primo Atto, Benedetto fornisce a Claudio, claudicante di nome e di fatto nelle opinioni e nelle scelte, un parere – che poi è un non parere- sulla bellezza della giovane Ero.
Le stesse battute potremmo immaginarle pronunciate a rotazione da tutti i leader coinvolti nella battaglia per l’elezione del Presidente della repubblica: per mettere veti, senza metterli; per bruciare nomi, senza pronunciarli.
La conclusione dell’opera di Shakespeare quella del romanzo quirinale risolvono nella stessa direzione: sembra che tutti si siano traditi, vituperati, calpestati, ma alla fine tutto finisce con un’allegra danza e il nostro Claudio, che è tutta la classe politica, alza il velo di una sposa misteriosa che si rivela essere la stessa che tanto in passato aveva calunniato e rifiutato. Sergio Mattarella, la nostra Ero.
Per coloro che non avessero chiaro il riferimento drammaturgico – in quel caso il consiglio è di recuperare assolutamente un’opera così raffinata quanto divertente- il sunto è semplice.
In un gioco nel quale il massimo dell’impegno è stato profuso nel non scoprire le carte, nel disorientare l’avversario, l’unica soluzione possibile è stata tornare all’inizio della faccenda.
Ad onor del vero qualcuno che ha provato a giocare a carte scoperte c’è stato. Matteo Salvini.
Il problema è che se al tavolo stanno tutti giocando a poker e tu pensi di giocare ad asso pigliatutto, le cose rischiano di andare decisamente male.
Nel caso dell’asso pigliatutto, infatti, l’asso (un Pera, un Nordio, una Moratti) è il culmine del gioco, ma a poker la stessa carta è da gestire con criterio.
Anche un tris d’assi risulta perdente davanti ad una scala.
Probabilmente il problema è stato anche che un vero poker, delle regole d’ingaggio vere e proprie non ci sono stati e ognuno si è mosso secondo il suo di gioco.
Il Partito Democratico, immobilista, ha poi calato la briscoletta, sicuramente non la più alta – il cosiddetto stoppino- , utile ad uscire dignitosamente da una partita nella quale ha avuto in mano perlopiù dei lisci o dei puntarelli insignificanti.
Matteo Renzi, che a questo giro, di carte proprio non ne aveva, ha costruito la sua partita sull’essere il presunto ago della bilancia, quello che decide di mettere il giocatore mancante o sulla briscola lettiana o sull’asso pigliatutto leghista. Optando infine per un bel memory, nel quale vince chi trova la carta uguale a quella già scoperta. Mattarella su Mattarella. Certo per il leader di Italia Viva, un po’ di Casini -rigorosamente lettera maiuscola- si sarebbero potuti anche fare. Ma tutto sommato non è andata male.
Giuseppe Conte: tante, troppe carte e troppo diverse. Una mano composta da francesi, piacentine, carte da yu-gi-oh e chi ne ha più ne metta. Era difficile giocare in queste condizioni. La soluzione Mattarella, anche per l’avvocato del popolo, non è la fine del mondo eppure il MoVimento è una micro-cosmo particolare e, nonostante quello del Presidente in carica fosse uno dei nomi di riferimento fin dagli inizi per i pentastellati, Conte oggi si trova comunque a ballare sul filo del rasoio e con una guerra civile aperta in seno al partito.
Conclude la rassegna Forza Italia. Ha il suo campione fuori gioco da prima che la partita iniziasse. L’unica carta che ha in mano, ed è una carta pesante – la presidente del Senato-, viene affabulata dal gioco d’azzardo Salviniano. Rimane a giocare una partita di sponda, bussa e chiede di andare a vedere, nella speranza che qualche carta sia di appetibile.
Infine, al di fuori, Giorgia Meloni cementa il suo ruolo di forza d’opposizione, a carte – lo dice fin da subito- non ha proprio voglia di giocare. Guadagna in termini di consenso, nel paese e fra i gruppi parlamentari del centrodestra, ma la morale rimane sempre la stessa e sarebbe il caso di impararla: alla fine a guadagnarci è sempre chi, anche con grossi rischi e molti sacrifici, accetta di pescare le carte e giocare.
Da Shakespeare, all’intrigante mondo del Gioco, le narrazioni affini alla quirinalizia epopea appena consumatasi sono innumerevoli. Esercizi di stile per chi scrive, nonché didascalie utili a chi non gira con il vocabolario politichese sotto braccio o semplicemente cerca un po’ di brio, un briciolo di romanticismo, in lande assai noiose e desolate.
D’altronde anche lo stesso Petrarca andava comparando, pensoso, per li deserti campi.
Continuando questo gioco intellettuale allora analizziamo l’ultimo attore, fondamentale, in questa vicenda.
Quel Parlamento, un po’ rugantino, un po’ balanzone. Un po spaccone ed un po’ tronfio di sé stesso, ma anche attaccato alle sue prassi, ai suoi riti, al suo moderno latinorum, che alla fine ha giocato il ruolo più importante.
Servirebbe Giorgio Parisi, fresco premio nobel per la Fisica, per spiegare i meccanismi straordinari, le leggi della natura, che portano i sistemi complessi a trovare un proprio equilibrio. Servirebbe dunque il professore per raccontare la capacità del Parlamento, un sistema disordinato, complesso, come mai lo era stato da molti anni, di raggiungere per primo una propria stabilità, imposta poi a tutti coloro che pretendevano di dettare legge, senza conoscere le norme più profonde che regolano le complessità.
É una lezione formidabile quella che arriva dall’Aula, un monito verso chi nel leaderismo, nella semplificazione tendente alla verticalizzazione, pensava e tentava di convincere il pubblico che sarebbe stato tutto più facile.
A perdere, invece, sono state proprio le monadi, le singolarità, così ripiegate su se stesse da creare l’impasse.
A sciogliere la matassa, a trovare l’equilibrio, è stata invece la complessità, il gruppo, il groviglio di relazioni multilaterali per eccellenza che è il Parlamento. Si tratta di una vittoria della Democrazia, della sua necessaria farraginosità, in quanto contrappeso necessario alla volontà di verticalizzare i processi di potere. Un sistema complesso, in fondo, è sinonimo di pluralità.
La rielezione di Mattarella, la riconferma di Draghi, non sono simbolo di immobilismo e neppure d’incapacità, se non quella dei soli leader.
Il Parlamento esce rafforzato e le guide di partito, i conclamati bigs, ministri, segretari e così via invece ne escono con le mani legate.
Ora non ci sono scuse, lo scenario utile a cambiare è servito, non ci si può nascondere dietro ad assestamenti, insediamenti e rodaggi. Sarebbe stato comodo un nuovo Presidente, magari anche un nuovo premier, un’ottima quinta dietro la quale accoltellarsi in libertà e rimanere fermi su dossier importanti.
Il secondo mandato di Mattarella è invece uno scacco matto: vie di fuga non ce ne sono, tutto è rimasto così com’è e forse, aldilà dei proclama, era il timore più grande per molti.
Qualcuno sperava nel Gattopardo, ma questa situazione è risultata un Leogatto. Nulla è cambiato e ciò costringe a cambiare tutto, se si vuole sopravvivere.