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Le radici pagano-cristiane dell’Occidente

Le radici pagano-cristiane dell’Occidente

Torna il dossier di Alessio Pinna sulla “religione ufficiosa dell’Occidente”, che in questo capitolo ci parla della sovrapposizione di profonde radici pagane al cristianesimo nella determinazione del canone religioso occidentale. Frutto consolidato di una storia millenaria che ha la sua origine ai tempi della predicazione dei discepoli di Gesù: la dinamica dell’assimilazione di elementi precristiani, cioè pagani, è insita nel cristianesimo stesso.

San Giustino, filosofo del secondo secolo dopo Cristo, tra i primissimi cristiani e per questo fondamentale nonostante raramente si ricordi la sua importanza, scriveva nella sua prima Apologia[1]: «Coloro che vissero secondo il Logos furono cristiani anche se sono considerati atei, come tra i greci Socrate, Eraclito e altri come loro; tra i barbari Abramo, Anania, Azaria, Misaele e tanti altri, l’elenco delle cui opere e dei cui nomi ora tralasciamo sapendo che è troppo lungo. Così anche quelli che nacquero prima del Logos e non vissero secondo questo furono malvagi, nemici di Cristo e persecutori di quanti vivevano secondo il Logos. Quanti invece sono vissuti e vivono secondo il Logos sono cristiani, impavidi e imperturbabili». Logos è la parola greca che nel Vangelo di Giovanni il cristianesimo latino traduce con Verbum, cioè facendosi carne il Cristo stesso, ma fra le tante possibili trasposizioni in latino di questo termine così ricco di significati e per questo ampiamente utilizzato nella filosofia precristiana c’è anche quello di ratio, cioè di regola, proporzione, natura. Infatti per Giustino chi prima del Cristo visse in modo equilibrato, giusto e naturale – come Abramo che ovviamente Giustino include tra i barbari cioè tra gli estranei alla civiltà greco-romana – è considerabile come cristiano nonostante non abbia mai conosciuto il Verbo nella sua interezza.

Questa dottrina, anche detta dei Logoi Spermatikoi o Semina Verbi cioè dei Semi del Verbo, dichiara la liceità se non l’obbligo per i cristiani di salvare tutto ciò che di ragionevolmente recuperabile vi è in ciò che teoricamente è estraneo al Cristo cioè nel paganesimo. Nel fare ciò non si discosta tanto da San Paolo, l’ebreo che per primo si batté perché chi si convertiva dal paganesimo al cristianesimo potesse non adottare i costumi giudaici e conservare quindi quelli del suo popolo. Paolo, l’Apostolo delle Genti, a sua volta non fa altro che rifarsi alla figura del Cristo, che portando a compimento la Legge veterotestamentaria, cioè sublimandola nel comandamento della carità universale, la rendeva ugualmente universale ovvero teoricamente accessibile a tutti i popoli del mondo.

Similmente Sant’Agostino scriveva nelle sue Ritrattazioni[2]: «Quella che ora prende il nome di religione cristiana esisteva già in antico e non fu assente neppure all’origine del genere umano, finché non venne Cristo nella carne. Fu allora che la vera religione, che già esisteva, cominciò a essere chiamata cristiana». Così anche San Columba di Iona, proveniente da una nobile famiglia dalla ricca tradizione druidica, poté affermare: «Cristo è il mio druido!»[3].

Questo è, detto in modo spicciolo, il motivo per cui i cristiani pur seguendo una dottrina che si dichiara il compimento di quella preannunciata nell’Antico Testamento furono da principio liberi di non seguire prescrizioni della Legge veterotestamentaria come l’obbligo della circoncisione e, viceversa, di continuare con pratiche che la stessa proibisce come il cibarsi di carne suina.

E a cosa servono se non a soddisfare le stesse esigenze umane di sempre, ma riformulate alla luce della Rivelazione cristiana, i culti locali di certi santi, il culto popolare di simulacri e reliquie, talune forme di culto mariano, e quant’altro? Non a caso il giudaismo post-veterotestamentario ma anche l’islam e addirittura il protestantesimo, più concentrato sulle Scritture che sulla Tradizione, rimproverano al cattolicesimo (così come al cristianesimo ortodosso, seppur per varie ragioni in misura diversa) una sovrabbondanza di elementi derivanti dalla devozione popolare.

Ma nonostante tutte le critiche che le si potrebbero fare non si può non riconoscere che questa commistione costituisce la base stessa, la “personalità” (che non è neutra, come vorrebbe qualcuno), di quella che un tempo si definiva Cristianità cioè dei popoli che con questa si sono via via identificati: sono insomma le antiche radici dell’Europa, e per estensione della civiltà cosiddetta occidentale.

Sulla validità o meno dell’accezione comune del termine “Occidente” come indicante la civiltà europea e quella che ne è derivata anche in altre terre (in primis l’America e l’Oceania ma anche altrove) ci sarebbe da discutere oltremodo, ma non essendo questo il tema su cui si focalizza l’opera basti a noi prendere per buona quella derivante dalla convenzione comune; la quale comunque ha effettivamente una sua validità nella misura in cui indica un insieme di popoli le cui storie si sono intrecciate e con tratti comuni dal punto di vista culturale e sociale. Uno tra i più importanti, se non il più importante tout court, è per l’appunto la religione cristiana.

Sorge a questo punto il problema – ineludibile – di distinguere fra il cristianesimo in quanto tale, dottrina che si dichiara atemporale e universale, e in quanto connotatosi storicamente ed etnicamente (in contesto prima mediorientale ed europeo, poi occidentale, e infine globale).

A questo proposito è utile riportare la riflessione dello studioso ebreo Leo Baeck sulla direzione che il cristianesimo prese sin dal principio. Nel saggio Il Vangelo: un documento ebraico[4] egli sostiene che l’insegnamento di Gesù non conteneva alcuna messa in discussione fondamentale del giudaismo, e che il responsabile della “deriva antiebraica” della Chiesa primitiva fu soprattutto Paolo di Tarso, ovvero colui che si calò a tal punto nel suo ruolo di “apostolo delle Genti” da far trionfare sull’embrionale giudeo-cristianesimo quello che lui definisce come pagano-cristianesimo, il cristianesimo cioè dei popoli pagani – mediterranei e per estensione europei – e non degli ebrei. Ugualmente lo storico delle religioni Hans-Joachim Schoeps, anch’egli ebreo, sostiene[5] la teoria dell’ellenizzazione cioè della paganizzazione del cristianesimo primitivo, che altrimenti sarebbe stato (o meglio, secondo questa interpretazione, rimasto) più marcatamente debitore del giudaismo. E tale operazione sarebbe stata realizzata ovviamente a partire da Paolo sotto l’influenza delle religioni misteriche e dello gnosticismo diffusi in tutta l’area mediterranea e oltre.

Baeck e Schoeps, essendo di religione ebraica, possono legittimamente concepire questa dinamica come un errore o un incidente di percorso, ma teoricamente un cristiano non potrebbe fare altrettanto se non cadendo nella contraddizione di mettere in dubbio l’intera storia del cristianesimo. Per questo l’influente teologo luterano Rudolf Bultmann similmente sostiene[6] che i giudeo-cristiani furono soppiantati dai cristiani provenienti dal paganesimo allorquando questi combinarono il cristianesimo con elementi ellenistici, ma il prodotto di questa assimilazione è comunque la religione alla quale egli aderisce. Ancor più netto l’eminente teologo cattolico Hans Küng che nella sua opera Cristianesimo[7], parte di una sorta di trilogia sulle religioni abramitiche, utilizza pressoché la stessa terminologia e rileva lo stesso processo ma a questo non attribuisce, e non poteva fare altrimenti, una connotazione negativa.

Ora, accettando la ragionevolezza di tutte queste riflessioni a prescindere dalle sfumature ed escludendo la possibilità che il processo in questione sia stato determinato dal caso si può arrivare a una sola logica conclusione: la dinamica dell’assimilazione di elementi precristiani, cioè pagani, è insita nel cristianesimo stesso.

Il problema risiede nel fatto che un’affermazione tale può risultare tanto banale quanto di difficile applicazione, e questo per via di un eurocentrismo che ancora permea gli schemi su cui è impostato il cristianesimo mainstream. Ad esempio, quando gli studiosi esaminano fenomeni di sincretismo religioso relativamente recenti, come il vudù, il candomblé o la santeria, non hanno alcun problema a riconoscerli come sincretismi fra culti “tribali”, cioè pagani, ed elementi a questi estranei come quelli apportati dal cristianesimo; ma quel che sfugge a tanti è che neanche questi sono “neutri”, puramente “cristiani” come se ciò fosse possibile, bensì a loro volta connotati dalla precedente commistione con elementi delle civiltà precedenti. Un esempio tipico è la rappresentazione stereotipata di Gesù come di un uomo biondo e con gli occhi azzurri: era realmente così? Non lo sappiamo, i Vangeli non lo descrivono fisicamente. Eppure è quella l’iconografia che si è imposta, perché adatta ai canoni degli europei che rappresentavano la maggioranza dei cristiani. Ma da quando cristiani lo sono anche tanti nativi americani, africani subsahariani, asiatici, etc, è più che ragionevole immaginarlo diversamente.

Questa sovrapposizione di commistioni non è dunque in nessun caso un’eccezione, una deviazione da un percorso altro, bensì la prassi stessa del cristianesimo che sempre passa attraverso un processo di inculturazione ovvero una declinazione nella cultura in cui si va a diffondere. E questo – ripetiamolo ancora una volta – è esattamente quel che è successo anche alle prime popolazioni che hanno accolto il messaggio del cristianesimo: quelle mediorientali, mediterranee ed europee.

E non si è mai trattato di cristianesimi “nuovi” rispetto a uno “originale”. È proprio qua che risiede il carattere universale della dottrina cristiana, il modo in cui emerge un’impostazione che nell’Antico Testamento, o Bibbia Ebraica secondo una terminologia sempre più diffusa, rimane implicita: nell’essere capace di ricomprendere al suo interno i particolarismi invece di annullarli.

Per lo stesso motivo è comprensibile perché i giudei che non divenivano cristiani trovassero in queste acquisizioni un’ulteriore conferma al loro rifiuto a confluire in quella che percepivano come una cultura diversa dalla loro. Era infatti in grandissima parte la cultura di altri: i goyim, cioè i pagani, con cui – per ragioni che non stiamo qui a contestare – non vollero confondersi.

Si potrebbe quindi giustamente concludere che parlare di radici cristiane o di radici pagano-cristiane dell’Europa (e dell’Occidente) equivale a parlare della stessa medesima cosa, e che l’utilizzo della seconda aggettivazione potrebbe al limite servire a mettere in evidenza una caratteristica della prima. Ma in seguito ai fattori che analizzeremo nel prossimo capitolo, a partire dal diffusissimo equivoco sulle decantate “radici giudaico-cristiane dell’Occidente”, questa specificazione si rende ora particolarmente opportuna e necessaria.

2 – continua

1 – La religione ufficiosa dell’Occidente

2 – Le radici pagano-cristiane dell’Occidente

3 – La civiltà giudaico cristiana – prima parte

4 – La civiltà giudaico-cristiana – seconda parte

5 – Constatazioni e ipotesi sulla religiosità ufficiosa dell’Occidente

Tratto da: Alessio Pinna, Una benedizione in mezzo alla Terra, Streetlib 2019.

Dibattito sull’Occidente



[1]San Giustino, Apologia XLVI:3-4.

[2]Sant’Agostino, Ritrattazioni XIII:3.

[3]Giuseppe Barbiero, Federico Gasparotti, Elena Baruzzi, La verde pelle di Gaia: Dialogo tra un biologo e un druido nel bosco (Libreriauniversitaria.it Edizioni, 2015), p.102.

[4] Leo Baeck, Il Vangelo: un documento ebraico (La Giuntina, 2004).

[5]Hans Joachim Schoeps, Paul: The Theology of the Apostle in the Light of Jewish Religious History (James Clarke, 2002).

[6] Rudolf Bultmann, Teologia del Nuovo Testamento (Queriniana, 1985).

[7] Hans Küng, Cristianesimo (Bur, 1999).

Alessio Pinna è un ricercatore attivo nel campo degli studi sulle religioni, autore di diverse pubblicazioni e svariati articoli. È stato docente IRC nella scuola pubblica, docente di Teologia delle Religioni Non-Cristiane presso il Centro Diocesano di Teologia di Oristano e collaboratore del settimanale diocesano L'Arborense. Nei suoi lavori fa uso, oltre che della metodologia propria della saggistica, di uno stile narrativo a suo parere necessario per trattare adeguatamente materie in parte intangibili come quelle che coinvolgono la metafisica

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