Generic selectors
Exact matches only
Search in title
Search in content
Top

L’Iran tra nazionalismo persiano e khomeinismo

Iran Khomeini

L’Iran tra nazionalismo persiano e khomeinismo

L’Iran è la culla di una delle più antiche e culturalmente importanti civiltà che siano mai esistite: quella persiana. Le origini del popolo iraniano, formatosi nell’alveo del perduto universo degli indoeuropei, risalgono alla notte dei tempi e l’impero, se si considerano le fasi evolutive, il paragrafo macedone ed ellenistico e l’alternanza delle dinastie come un ciclo unico, è stato il più longevo al mondo, essendo durato dal 550 avanti Cristo al 1979.

I persiani, che secondo gli antichi greci erano gli eredi di Perse, il figlio del semidio Perseo, all’apice delle conquiste hanno controllato gran parte del mondo conosciuto dell’antichità: l’Anatolia, la Mesopotamia, parte dell’Asia centrale, parte della valle dell’Indo, parte della Grecia, il Caucaso e parte dell’Egitto.

L’Iran, crocevia degli equilibri internazionali

Nell’immaginario collettivo dell’antichità, la Persia era una delle culle della conoscenza primordiale  (ex Oriente lux) ed era anche identificata con il pericolo, essendo il luogo dal quale era provenuta la maggior parte delle minacce affrontate dalle civiltà del mar Mediterraneo. Come le guerre fra la cristianità europea e l’impero ottomano hanno plasmato il mondo moderno, quelle fra le città-stato greche e i re persiani hanno plasmato il mondo antico. Oggi come nei secoli ante-Cristo è sempre l’Iran uno dei punti caldi delle relazioni internazionali, un luogo di incontro e scontro fra civiltà e visioni del mondo: una remota ed ancestrale, quella persiana, ed una moderna e fittizia, quella occidentale.

Eppure, è proprio a quest’ultima che i condottieri persiani hanno guardato nelle ultime fasi di vita del decadente impero per ridargli vigore, per portarlo a nuova vita. I tentativi di occidentalizzare l’Iran, che è stato uno degli storici antagonisti e rivali delle civiltà euromediterranee, hanno trovato un ostacolo insormontabile nella dura legge della storia, finendo in maniera drammatica nel 1979, l’anno della rivoluzione khomeinista.

L’Iran e l’Occidente dallo shah alla Rivoluzione

Un interessante approfondimento a cura di Carol Giacomo, pubblicato recentemente per il The New York Times, dal titolo “Iran and the United States: Doomed to Be Forever Enemies?”, è una lettura obbligatoria per chiunque sia intenzionato a rileggere le relazioni fra Occidente e Iran in maniera alternativa, in controtendenza a quanto propinato dalla letteratura tradizionale, secondo una chiave di lettura più geofilosofica che politica.

La dinastia Pahlavi non è riuscita nell’intento di occidentalizzare l’Iran perché esso è l’antitesi dell’Occidente: culla della “tradizione”, come la chiamerebbero i pensatori della scuola guenoniana, sarà sempre il cuore pulsante dell’antimodernità. Nel 1979 il popolo si riappropriò del suo destino, rovesciando la situazione di decadenza geopolitica e di smarrimento culturale venutasi a creare con l’inizio del Grande Gioco fra britannici e russi.

Grande Gioco è il termine utilizzato dagli storici per descrivere un periodo di competizione antagonistica fra l’impero britannico e quello russo che ha caratterizzato tre quarti del 19esimo secolo. Ieri come oggi, i britannici lottavano affinché la Persia non cadesse nella sfera d’influenza russa – poiché ritenuta la porta d’accesso all’India – mentre gli zar combattevano per ridurre l’influenza di Londra nel turbolento e sempre in fermento mondo islamico centro-asiatico – strumentalizzabile per inscenare moti antirussi all’interno del vasto impero. Ieri i britannici, oggi gli statunitensi, cambiano gli attori ma gli obiettivi sono sempre gli stessi, ed immutata è la rilevanza geostrategica dell’Iran, al cui destino è interessato tanto l’Occidente che l’Oriente a trazione sino-russa.

Il tentativo di occidentalizzare l’antica Persia iniziò nel primo dopoguerra, quando i britannici sostituirono la declinante dinastia Qajar con i Pahlavi, approfittando dell’isolamento antagonistico inaugurato dall’Unione Sovietica all’indomani della rivoluzione bolscevica. I Pahlavi furono scelti in virtù di una peculiarità: l’apparente fedeltà a Londra e il disinteresse verso il loro mondo di appartenenza, intuibile dallo stile di vita sfarzoso e dalla passione per tutto ciò che europeo.

Reza Shah fu nominato a capo della dinastia che avrebbe governato il Paese fino al 1979, ma manifestò segni di insofferenza molto presto, già negli anni ’30. Nel 1932 cancellò la concessione petrolifera all’Anglo-Persian Oil Company con l’obiettivo di ritrattare la divisione degli introiti a favore di Teheran, in seguito privò il diritto di stampare moneta dalla Banca Imperiale Britannica alla Banca Nazionale dell’Iran, promulgando delle leggi di de-stranierizzazione dei settori strategici e palesando la fine del programma di occidentalizzazione culturale nel 1935, quando cambiò il nome del Paese da Persia a Iran.

La virata improvvisa spinse Londra a intervenire militarmente nell’agosto 1941, in coordinamento con Mosca, per deporre lo scomodo Shah e sostituirlo con suo figlio, Mohammad. Anch’egli, come il padre, inizialmente rispettò gli accordi presi con la corona britannica, salvo poi iniziare un percorso di autonomia politica e culturale. Quel percorso nel 1951 portò all’elezione alla presidenza del consiglio dei ministri di un nazionalista convinto, appassionato e zelante: Mohammad Mosaddeq, la personificazione del sentimento antibritannico diffuso nel Paese.

Mosaddeq sfruttò sapientemente l’astro positivo esercitato sullo Shah per convincerlo a nazionalizzare l’industria petrolifera, l’unico modo per emancipare il Paese dal giogo britannico, senza sapere che ciò avrebbe scatenato l’intervento degli Stati Uniti, emersi come prima potenza occidentale nel secondo dopoguerra.

Nel 1953, CIA e MI6 diedero vita all’operazione Ajax, una guerra coperta avente come obiettivo un colpo di Stato ai danni di Mossadeq per mezzo della propagazione di violenze e sabotaggi. Lo Shah fu obbligato a destituire il primo ministro – condannato al confino perpetuo – acconsentendo all’esecuzione di personaggi-chiave del governo, come il ministro degli esteri Hossein Fatemi, ottenendo in cambio la permanenza al potere – ma non avrebbe più dovuto commettere errori, gettando nel dimenticatoio ogni progetto di rinascita nazionale dalle venature antioccidentali.

Nel dopo-Ajax lo Shah riprese con vigore la campagna di occidentalizzazione culturale, ribattezzata la rivoluzione bianca”, trasformandola in un progetto imposto dall’alto e con la forza, inimicandosi soprattutto il clero sciita, l’istituzione sociale più prestigiosa e popolare sin dai tempi della conversione all’islam del popolo iraniano, impegnata tanto nell’aiuto ai poveri che nel custodire la memoria nazionale.

Lo Shah, totalmente astruso dalla realtà e fermamente convinto di godere dell’appoggio popolare, iniziò a considerare le proteste anti-riformiste come un tentativo insurrezionale partorito dal clero, ignorando la possibilità di una loro effettiva impopolarità data dal radicamento di una visione profondamente conservatrice nella società. La polizia segreta, la Savak, fu adibita al compito di stanare, incarcerare e far sparire i capi delle rivolte, esacerbando ulteriormente il clima di scontro.

Sullo sfondo della repressione interna, lo Shah tentò simultaneamente di riappropriarsi della politica estera, seppure più debolmente rispetto agli anni di Mossadeq, ottenendo l’effetto di alienarsi il consenso degli alleati occidentali.

Pur continuando formalmente a sostenere la dottrina dei due pilastri di Washington – Teheran e Riad quali baluardi dell’interesse a stelle e strisce nel Medio Oriente – lo Shah allacciò legami con la Libia di Muammar Gheddafi, supportando i paesi OPEC nel corso della crisi petrolifera del 1973 e allontanandosi da Israele, accusato di esercitare un’influenza perniciosa per mezzo dei propri lobbisti alla Casa Bianca.

La rivoluzione e i suoi effetti

L’apogeo di questa piccola primavera nazionalista è rappresentato dalla firma degli accordi di Algiers con l’Iraq di Saddam Hussein, siglati con l’obiettivo di porre fine ad ogni disputa territoriale con Baghdad e anticamera di un possibile sodalizio in chiave antiamericana e anti-israeliana. Grazie agli accordi, a Washington e Tel Aviv fu impedito di sostenere ulteriormente l’insurrezione curda in Iraq.

Fu anche per via dell’ostilità crescente provata dagli alleati dell’Iran a causa delle politiche in campo estero dello Shah che nessun aiuto fu fornito nel contenimento delle proteste, in parte anche sobillate dall’Unione Sovietica – perché si cita spesso la rivoluzione del 1979 come un trionfo dei rivoluzionari religiosi, ma si dimentica che a protestare nelle piazze contro il riformismo all’occidentale dell’imperatore ci furono molti giovani laici, semplicemente patriottici, e comunisti, rispondenti al Cremlino. In breve, a manifestare contro l’annullamento dell’identità iraniana non era soltanto il clero, ma la maggior parte della nazione.

Intimorito dallo spettro di una guerra civile, nel 1979 lo Shah riparò all’estero, trovando rifugio  nell’Egitto dell’amico Anwar Sadat, rendendo possibile il ritorno in patria di Ruhollah Khomeini, il leader morale della rivoluzione.

Il primo aprile, il popolo iraniano fu chiamato alle urne per decidere il destino del Paese: votando all’unanimità per l’adozione di una nuova costituzione funzionale alla nascita di un nuovo ordine incardinato su una repubblica di stampo islamico. Sono passati 41 anni dall’unica rivoluzione spirituale del Novecento e, nonostante il peso delle sanzioni, della guerra fredda con Israele e le petromonarchie della penisola arabica e dei tentativi di rivoluzione colorata periodicamente consumati,  l’ordine khomeinista è ancora in piedi e, pur ammettendo che non goda dello stesso sostegno del 1979, ciò è spiegabile in una maniera soltanto: si regge sul consenso di vasti settori della popolazione.

Quest’ultimo punto, ovvero il consenso genuino dei popoli a degli ordini ritenuti in errore a priori poiché non modellati secondo il criterio della democrazia liberale disegnata dagli illuministi europei, è la fonte principale di ogni problema che attanaglia gli analisti e i politici europei ed americani. Se non è democrazia liberale, non può essere; e chiunque la supporti è in malafede o indottrinato. Si tratta di un ragionamento illogico, tipico di studiosi occidentalo-centrici, e velatamente intriso di un senso di superiorità morale e disprezzo verso tutto ciò che non è Occidente.

È lo sbaglio mortale dal quale aveva messo in guardia il politologo Samuel Huntington, il teorico dello scontro di civiltà, la cui predizione si è rivelata fallace in diversi punti ma estremamente giusta e lungimirante in altri.

Prevedendo con largo anticipo il fenomeno Erdogan, considerando la Turchia destinata a vivere una rinascita neo-imperiale nel nuovo secolo, e sostenendo l’insostenibilità dell’universalismo occidentale imposto con la forza su popoli che occidentali non sono, Huntington ha illustrato alcune vie da seguire che, essendo state ignorate, si sono trasformate nella causa dei mali e dei conflitti che stanno caratterizzando il ventunesimo secolo.

L’occidentalizzazione può funzionare soltanto se a volerla e a chiederla è il popolo, perché la sua imposizione coercitiva non potrà che risultare controproducente nel lungo periodo.

Nel caso turco, abbiamo mostrato come le velleità antikemaliste – la variante occidentalista utilizzata per trasformare la Turchia ed inglobarla con un’operazione antistorica nell’orbita euroamericana – siano state presenti sin dal dopo-Ataturk.

Nel caso ungherese abbiamo mostrato come anche un popolo asiatico ma europeizzatosi nei secoli per via dell’acquisizione di una nuova casa, nel cuore del Vecchio Continente, abbia avviato un percorso di recupero identitario che, contrariamente alle aspettative, sta riscuotendo ampio successo e ha compiuto ormai un decennio.

Il caso iraniano è un’ulteriore dimostrazione del fatto che le identità non possono essere completamente annullate e che i popoli dotati di una coscienza storica forte hanno trovato nei miti fondativi, nel recupero dei sogni di grandezza e nell’adozione di valori conservatori dei validi strumenti con cui affrontare la forza socialmente disgregatrice e culturalmente massificatrice della globalizzazione.

Prima di Khomeini, a modo loro ci furono i Pahlavi – contradditori portatori di un sogno mescolante venerazione della civiltà persiana e della figura dell’imperatore – e quando l’ordine rivoluzionario cadrà – perché ogni egemonia affronta inevitabili cicli di ascesa e declino – un altro periodo di occidentalizzazione sopraggiungerà, ma sarà a sua volta destinato ad essere schiacciato dalla forza travolgente dello spirito dei figli di Perse.

Dibattito sull’Occidente

Classe 1992, è laureato in Scienze internazionali, dello sviluppo e della cooperazione all’università degli studi di Torino con una tesi sperimentale intitolata “L’arte della guerra segreta”, focalizzata sulla creazione di, e sulla difesa dal, caos controllato. Presso la stessa università si sta specializzando in Studi di area e globali per la cooperazione allo sviluppo – Focus mondo ex sovietico. I suoi principali campi di interesse sono geopolitica della religione, guerre ibride e mondo russo, che negli anni lo hanno portato a studiare, lavorare e fare ricerca in Polonia, Romania e Russia. Scrive per e collabora con diverse testate, tra cui Inside Over, Opinio Juris – Law & Political Review, Vision and Global Trends, ASRIE, Geopolitical News. Le sue analisi sono state tradotte e pubblicate all’estero, ad esempio in Bulgaria, Germania, Romania, Russia.

Post a Comment


доступен плагин ATs Privacy Policy ©

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.

Questo sito fa uso di cookie, file di testo che vengono registrati sul terminale dell’utente oppure che consentono l’accesso ad informazioni sul terminale dell’utente. I cookie permettono di conservare informazioni sulle preferenze dei visitatori, sono utilizzati al fine di verificare il corretto funzionamento del sito e di migliorarne le funzionalità personalizzando il contenuto delle pagine in base al tipo del browser utilizzato, oppure per semplificarne la navigazione automatizzando le procedure ed infine per l’analisi dell’uso del sito da parte dei visitatori. Accettando i cookie oppure navigando il sito, il visitatore acconsente espressamente all’uso dei cookie e delle tecnologie similari, e in particolare alla registrazione di tali cookie sul suo terminale per le finalità sopra indicate, oppure all’accesso tramite i cookie ad informazioni sul suo terminale.