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Vincenti e perdenti della globalizzazione: commercio e disuguaglianze

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Vincenti e perdenti della globalizzazione: commercio e disuguaglianze

Seconda parte dell’analisi di Matteo Samarani sulle conseguenze economiche della globalizzazione. Buona lettura!

INGIUSTIZIA SOCIALE: COSA NON HA FUNZIONATO?

La teoria che pone le basi al liberismo cercando di cogliere i benefici derivanti dal libero scambio è la teoria dei vantaggi comparati  di David Ricardo. Secondo l’economista britannico ciascun paese si specializza nelle produzioni in cui gode di un vantaggio comparato (settori in cui opera in maniera più efficiente), questo fa sì che il libero scambio generi un beneficio netto, sia ai paesi avanzati, che a quelli meno sviluppati, in quanto entrambi esporteranno i prodotti dei settori in cui sono più efficienti e importeranno gli altri dal resto del mondo. Il problema, come evidenziato da J. Stigliz, è che alcuni economisti e certi politici hanno raccontato una sorta di “bugia innocente”, ossia, che il commercio internazionale crea posti di lavoro. In realtà, se è vero che le esportazioni generano posti di lavoro e che le importazioni li distruggono e se è vero anche che i paesi avanzati esportano prodotti che necessitano di meno manodopera rispetto  ai beni importati dai paesi in via di sviluppo, dato che nel lungo periodo le importazioni e le esportazioni si equivalgono, le prime distruggeranno molti più posti di lavoro di quanti non ne creeranno le seconde. Tuttavia i teorici della globalizzazione avevano sostenuto che se i vincitori avessero condiviso la grande torta da essa derivante, avrebbero potuto compensare i perdenti generando un miglioramento generalizzato delle condizioni di vita. Ma la teoria diceva che potevano farlo non che lo avrebbero fatto (Stigliz, 2018).

In questo senso, uno dei principali problemi della globalizzazione è stata la sua governance. In tema di accordi commerciali essi sono stati sistematicamente volti ad avvantaggiare i paesi avanzati, ma non i paesi avanzati in termini assoluti, bensì in termini relativi: tali accordi erano stipulati con l’intento specifico di favorire gli interessi delle grandi multinazionali dei paesi avanzati (proprio quell’uno percento più ricco in grado di esercitare una notevole influenza nei round commerciali), con conseguente sbilanciamento a favore delle imprese e a scapito dei lavoratori. Si aggiunga inoltre che con un commercio perfettamente libero e mercati ben funzionanti vi è una convergenza dei salari e questa convergenza punta sicuramente verso il basso: se un paese dell’area Ocse importa dai paesi in via di sviluppo prodotti ad alta intensità di manodopera, avrà meno bisogno di produrli sul suolo nazionale. Questo, spingendo la domanda di lavoro verso il basso, ridurrà i salari dei lavoratori, soprattutto quelli meno qualificati (c’è da dire che la spinta al ribasso dei salari avviene solitamente nei paesi con istituzioni del mercato del lavoro più flessibili, nei paesi più rigidi solitamente è la disoccupazione a vedere un rialzo). Inoltre, nei paesi avanzati, la domanda di lavoro nel settore manifatturiero è stata penalizzata dal fenomeno della terziarizzazione, ovvero, la transizione di un’economia a prevalenza di occupati nel comparto industriale, ad un’economia che occupa la maggior parte della sua forza lavoro nel terziario.

I salari dei lavoratori sono diminuiti anche a causa di due altre variabili fondamentali: l’indebolimento del potere contrattuale e il progresso tecnico. Il primo, oltre ad essere stato influenzato dalle revisione al ribasso dei poteri sindacali imputabile alla suddetta rivoluzione Thatcher-Reagan, è stato influenzato anche dalla minaccia delle aziende di delocalizzare in paesi a più basso costo del lavoro. I sindacati non potevano trovare rimedio a questa causa e si è venuto a creare una sorta di circolo vizioso al ribasso (riduzione poteri sindacali-riduzione salari). Il secondo ha ridotto la domanda di manodopera meno qualificata portando un ulteriore livellamento verso il basso dei salari (con crescenti disuguaglianze tra lavoratori qualificati e meno qualificati).

Oltre a tutto questo vi è un ultimo aspetto da considerare: la globalizzazione, guidata dalle grandi aziende mondiali, ha fatto spuntare in tutto il mondo quelli che vengono chiamati “paradisi fiscali” permettendo alle multinazionali di eludere le imposte che dovrebbero pagare. Questo, oltre che spingere tutti i paesi del mondo ad una concorrenza al ribasso in termini di pressione fiscale, ha altresì ridotto il gettito fiscale dei paesi più avanzati, andando a penalizzare ulteriormente i lavoratori. Questi hanno sofferto quindi tre volte: per i salari più bassi, per lo spostamento su di loro del carico fiscale, e per i tagli ai servizi pubblici che sono una diretta conseguenza dell’elusione delle imposte da parte delle aziende (Stigliz, 2018).

Secondo Stigliz, l’abbassamento dei salari non è stato una conseguenza “accidentale”, bensì era l’obbiettivo: infatti, prendendo come spunto alcune osservazioni dall’opera La ricchezza delle nazioni di Adam Smith, ricorda che quando gli imprenditori si uniscono per sollecitare una particolare politica, è indubbio che abbiano pensato alle sue conseguenze, anche in termini di costo del lavoro.

DISUGUAGLIANZA: LA SCOMPARSA DEL CETO MEDIO E LE IMPLICAZIONI POLITICHE

Le pressioni al rialzo delle disuguaglianze hanno dato il via al fenomeno del declino della classe media: secondo una analisi del solito Milanovic, negli Usa la quota della classe media, definita come la quota di individui con redditi disponibili attorno alla mediana, è calata dal circa il 33 per cento nel 1979 al 27 per cento nel 2010. Inoltre il suo reddito medio, che ammontava all’80 per cento del redito medio generale statunitense nel 1979, cala sino a raggiungere il 77 per cento della media nel 2010. La politica e le istituzioni non sono certo immuni a questo fenomeno, anzi, negli ultimi anni ne sono state fortemente influenzate. L’incremento della forbice delle disuguaglianze, la sempre più evidente scomparsa della classe media e, più in generale, il crescente numero di individui che hanno perso la partita della globalizzazione, hanno spinto l’opinione pubblica nella culla di quelle forze politiche che vengono definite populiste: la Brexit, l’affermazione di Donald Trump negli Usa, i crescenti consensi di Marine Le Pen in Francia e il governo Giallo-Verde formatosi all’indomani delle elezioni del 4 Marzo 2018 in Italia sono solo alcuni esempi. Oltre ai cambiamenti strutturali dell’economia mondiale, i crescenti successi di queste forze politiche sono anche frutto dei fallimenti del centro-sinistra: il neoliberismo è divenuto parte integrante dell’orientamento politico anche in questi ambienti, ciò li ha portati a seguire quasi ciecamente l’agenda della globalizzazione della destra. Dato che più nessuno pensava a difendere gli interessi dei “perdenti” è nato una sorta di vuoto politico, terreno fertile per la demagogica propaganda populista. Non importa se il problema sia l’immigrazione, la tecnologia o la mala gestione della globalizzazione: chi ha perso il posto di lavoro o ha visto diminuire le proprie entrate, sosterrà il demagogo di turno che promette di porre rimedio alla sua condizione.

La politica commerciale spesso proposta dai nazional-populisti per porre rimedio ai malesseri del proprio elettorato è quella del protezionismo (le politiche di Donald Trump ci offrono un buon esempio). Tuttavia il protezionismo, oltre a non essere la soluzione ai suddetti malesseri, potrebbe addirittura incrementarli. Punto primo:  dato che l’occupazione nei paesi avanzati all’interno dei comparti industriali è in declino a causa della già citata terziarizzazione, anche se la quota di occupazione mondiale restasse invariata, l’occupazione manifatturiera dei paesi post-industriali sarebbe in calo. Punto secondo: anche al presentarsi di una remota possibilità di ripresa della produzione industriale in questi paesi, la produzione verrebbe probabilmente gestita mediante attrezzature automatizzate per il cui impiego sarebbero necessarie competenze diverse rispetto a quelle facenti capo ai disoccupati del settore manifatturiero. Punto terzo: l’innalzamento di barriere tariffarie, oltre a penalizzare le imprese importatrici ed i consumatori (essi si troverebbero infatti a dover pagare un prezzo maggiore per i beni importati), potrebbe scatenare delle guerre commerciali con conseguente incertezza e crollo della produzione mondiale che si tradurrebbe paradossalmente in un ulteriore crollo dell’occupazione, a svantaggio proprio della base elettorale di questi partiti politici.

OSSERVAZIONI CONCLUSIVE: È  POSSIBILE UNA GLOBALIZZAZIONE ALTERNATIVA?

A fronte dei fallimenti della governance della globalizzazione è opportuno chiedersi se esiste una strada alternativa per sostenere un modello di sviluppo economico più equo e socialmente inclusivo. In questi termini, sono interessanti le proposte che arrivano dall’economista statunitense Joseph Stigliz che nella versione più recente dell’opera La globalizzazione e i suoi oppositori ci offre degli spunti interessanti, spunti che ho cercato di rielaborare e riassumere in queste cinque riflessioni:

  1. Se si vuole davvero porre rimedio, occorre invertire la tendenza, riponendo meno fiducia nelle capacità autoregolatrici del mercato, rendendosi conto dei fallimenti a cui esso spesso incorre, e favorendo un’azione pubblica più incisiva. Sarebbe opportuno, per esempio, regolamentare i mercati finanziari disincentivando la speculazione a breve termine fonte, come abbiamo visto, di instabilità finanziaria ed economica.
  2. È indispensabile riscrivere le regole della globalizzazione in modo da colmare quel divario che vede favorite le grandi multinazionali a scapito del potere contrattuale dei lavoratori e dell’erosione dei loro salari. Sarebbe sensato, in ambito di accordi internazionali, mettere sul tavolo la questione del dumping sociale (tratto caratteristico dei Paesi in via di sviluppo), così da porre un freno alla convergenza al ribasso dei salari.
  3. Bisogna prendere atto del declino in termini occupazionali del settore manifatturiero a favore del settore terziario (c.d. terziarizzazione): infatti l’occupazione in ambito manifatturiero sta diminuendo perché il ritmo di crescita della produttività supera il ritmo di crescita della produzione. In questi termini è necessario intervenire mediante una trasformazione strutturale dell’economia volta a facilitare questa transizione e orientata sui servizi e sulla conoscenza. Saranno dunque fondamentali politiche in materia di istruzione in cui il settore pubblico dovrà svolgere un ruolo fondamentale nella creazione di una società dell’apprendimento.
  4. Mettere in atto politiche volte a garantire la protezione sociale: servono politiche per sostenere le persone che perdono il lavoro a causa della globalizzazione o della tecnologia. Politiche attive del lavoro volte a riqualificare i disoccupati e reinserirli nel mercato del lavoro. Inoltre servono trasferimenti per quei soggetti che non riescono a trovare lavoro in modo da permettergli un’esistenza dignitosa (la flexicurity dei paesi scandinavi è un buon modello di riferimento).
  5. Occorrono politiche macroeconomiche più efficaci in grado di mantenere l’economia ad un livello vicino alla piena occupazione, in modo da evitare elevati livelli di disoccupazione ciclica che rischia di trasformarsi in disoccupazione strutturale. Tra queste sarebbero opportune: politiche fiscali espansive con spese per investimenti, infrastrutture e tecnologie; espansioni di bilancio in pareggio aumentando le impose di pari passo con le spese, che – per il principio del moltiplicatore del bilancio in pareggio, e, se le imposte e le spese vengono scelte attentamente (sarebbe opportuno tassare i redditi elevati o comunque i patrimoni più consistenti) – permettono di far crescere il reddito e di incrementare l’occupazione.

Seguendo questo percorso alternativo sarebbe possibile rendere la globalizzazione un processo da cui la maggior parte degli individui trarrebbe vantaggi e non il contrario. Questo avrebbe come conseguenza il ricucirsi delle fratture sociali che stanno caratterizzando i paesi occidentali negli ultimi tempi, facendo ritrovare all’opinione pubblica la fiducia nelle istituzioni: condizione necessaria per la stabilità di un sistema democratico.     -9.0pt;} ol


Classe 1995, nato a Brescia e residente a Coccaglio (BS), è laureato in Economia con laude presso l'Università degli Studi Brescia e, attualmente, frequenta il corso di Laurea Magistrale in Economia e Politica Economica presso l'Alma Mater Studiorum di Bologna. Si interessa principalmente di economia politica e politica economia.

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