Il “sovranismo psichico” sbarca su Treccani.it
Oggi Andrea Zhok, breve e coinciso, ci parla dell’inconsistenza della nozione di “sovranismo psichico” su Treccani.it. Buona lettura!
Dopo essere stata presa in giro sui social per mesi la definizione di “sovranismo psichico” ha l’onore di essere ospitata come voce dalla Treccani online. Forse è il caso di smettere di ridere e di chiederci se ci siano ancora limiti che i poteri mediaticamente ed economicamente più influenti (l’establishment) considerano non sorpassabili, o se oramai siamo arrivati al punto in cui si ritiene che valga tutto, assolutamente tutto, pur di abbattere l’avversario.
Già, perché ospitare come voce accreditata una formula che è dimostrabilmente un’idiozia con finalità di lotta politica spicciola ricalca esattamente una delle dinamiche descritte da George Orwell, di confisca concettuale e assoggettamento culturale.
Da un lato le istanze del ‘politicamente corretto’ mettono fuori legge tutte le espressioni che suonano come critiche dell’opinionismo mainstream, e dall’altro vengono accreditate unità concettuali farlocche e strumentali come se fossero descrittori di natura scientifica.
Non basta dunque aver distorto pervicacemente la nozione di ‘sovranismo’, applicata originariamente in contesto francofono per le istanze di rivendicazione autonomiste su base nazionale (Quebec, Irlanda, Palestina, ecc.), trasformandola in un sinonimo di ‘nazifascismo’. Ora si passa alla fase della patologizzazione del dissenso, che viene ridotto a categoria psichiatrica, a deviazione mentale.
Esaminiamo innanzitutto la definizione che ne viene data:
“Atteggiamento mentale caratterizzato dalla difesa identitaria del proprio presunto spazio vitale.”
La prima cosa da osservare è che se togliamo l’aggettivo ‘presunto’, che insinua la natura illusoria, erronea del giudizio (per il loro ‘presunto’ punto di vista obiettivo), il resto della definizione rappresenta una descrizione che si attaglia a tutte le specie viventi, a tutte le unità culturali, istituzionali e statali di cui abbiamo contezza. Infatti la “difesa identitaria del proprio spazio vitale” è qualcosa che può valere per l’identità di un organismo rispetto a fattori esogeni che ne destabilizzano l’identità, così come per ogni unità politica nota. Anche la multiculturale e multinazionale Svizzera opera in forme che tendono a preservare la difesa identitaria del proprio spazio vitale: ha una Costituzione, dei confini, leggi comuni, regole che ne definiscono l’indipendenza da altre unità politiche entro uno spazio in cui vivono i suoi cittadini.
Salvo che per colonie, protettorati o entità politiche fittizie (come alcuni paradisi fiscali), nel mondo non esistono che unità politiche per cui è ovvio che la propria identità entro uno spazio vitale vada difeso. Tutto il peso dello stigma nella definizione sta nel carattere di illusorietà (‘presunto’), che farebbe dell’ “atteggiamento mentale” una forma di delirio, di allucinazione malata.
Le citazioni che forniscono la campionatura d’uso dell’espressione sono in questo senso eloquenti. La prima fa riferimento ad un atteggiamento ‘paranoico’, cioè appunto ad una categoria delirante; niente viene aggiunto al quadro, salvo il giudizio insindacabile del giudicante: si tratta di patologia mentale. La seconda addirittura, secondo il canone retorico dello ‘strawman’, inventa di sana pianta una tesi che nessuno, neanche qualche ultras neonazi etilista, ha mai sostenuto (“vogliamo metterci alla guida dell’altro 99% affermando che devono fare quello che riteniamo giusto noi?”), per poter procedere alla liquidazione forfettaria di ogni richiesta di sovranità.
Ora, ciò che è particolarmente preoccupante in questo episodio di malcostume culturale è vedere l’abisso di malafede, arroganza e ignoranza in cui sguazzano soddisfatti precisamente quelli che sparacchiano accuse ad alzo zero di malafede, arroganza e ignoranza sui dissenzienti. Siamo di fronte ad operazioni spudorate, prive di scrupoli, in cui vengono avvelenati i pozzi del dibattito pubblico da coloro i quali sono stati posti a guardia degli stessi.
E’ qualcosa che eravamo abituati a leggere nelle descrizioni sull’atmosfera di falsificazione culturale nella Controriforma tridentina o nella Restaurazione napoleonica, pensando che eravamo fortunati a vivere in un’epoca che li aveva superati. E ci ritroviamo oggi con i sedicenti portatori sani di ‘illuminismo’ a fare le stesse cose, ma con meno scuse.
TheTruthSeeker
1. Questa la precisazione della Treccani:
27 Novembre 2019
Torniamo sull’espressione “sovranismo psichico” con una dichiarazione di Luigi Romani, responsabile della sezione “Lingua Italiana”.
Proseguimento:
https://twitter.com/Treccani/status/1199712817651363846
Neologismo:
s. m. [dal fr. néologisme, comp. di néo- «neo-» e gr. λόγος «parola», col suff. –isme «-ismo»]. – In genere, parola o locuzione nuova, non appartenente cioè al corpo lessicale di una lingua, tratta per derivazione o composizione da parole già in uso (per es., modellismo, servosterzo), o introdotta con adattamenti da altra lingua (per es., informatica, dal fr. informatique e ingl. informatics, o guerra lampo, dal ted. Blitzkrieg; ma in questi casi si parla più spesso di «prestito» o «calco»), oppure formata con elementi greci o latini (e sono di questo tipo la maggior parte dei neologismi tecnici, scientifici e d’altri linguaggi settoriali, che vengono quotidianamente coniati nelle varie lingue di cultura); la creazione di neologismi risponde alla necessità di esprimere concetti nuovi, di denominare o qualificare nuove cose e istituzioni, ma può essere anche opera di singoli individui. Costituisce neologismo anche l’aggiunta di un significato nuovo a parola già esistente; si parla allora di n. semantico, per distinzione dagli altri, che sono detti n. lessicali (e talora, quando l’innovazione consiste in sintagmi più o meno complessi anziché in parole singole, n. sintattici).
Fonte: treccani.it
Quindi, siccome l’espressione propagandistica di “sovranismo psichico” è usata da quattro gatti radilcal chic globalisti e allora non si ravvisava e non si ravvisa la necessità da parte della Treccani di registrare questa espressione sotto forma di neologismo, a maggior ragione se poi fa una precisaziione del genere, vedasi punto 1.
Comunque, complimenti per l’ottimo articolo.
Cordiali saluti.
TheTruthSeeker
Margherita
L’idea di ” spazio vitale” desunta illegittimamente dalla biologia ( nell’ambito dell’ evoluzionismo darwiniano spenceriano, ovvero il principio della selezione applicato ai popoli “più adatti”), è effettivamente espressione di una sindrome paranoica ( aggiungerei suprematista bianca) che oggi paventa ľinvasione africana e la presunta perdita dell’identita europea ( quasi che identità fosse, piuttosto che un costrutto culturale in fieri, un dato topologico e geografico naturale, definito una volta per tutte, astorico…), ieri era alibi per politiche espansionistiche di una nazione ( ariana) sull’altra nella stessa Europa. Invito ľautore, meravigliato perché l’enciclopedia Treccani abbia dedicato una voce al cosiddetto “sovranismo psicologico”, a ripassare la storia del Novecento.
http://www.edurete.org/pd/sele_art.asp?ida=3196
Margherita
L’idea di ” spazio vitale” desunta illegittimamente dalla biologia ( nell’ambito dell’ evoluzionismo darwiniano spenceriano, ovvero il principio della selezione applicato ai popoli “più adatti”), è effettivamente espressione di una sindrome paranoica ( aggiungerei suprematista bianca) che oggi paventa ľinvasione africana e la presunta perdita dell’identita europea ( quasi che identità fosse, piuttosto che un costrutto culturale in fieri, un dato topologico e geografico naturale, definito una volta per tutte, astorico…), ieri era alibi per politiche espansionistiche di una nazione ( ariana) sull’altra nella stessa Europa. Invito ľautore, meravigliato perché l’enciclopedia Treccani abbia dedicato una voce al cosiddetto “sovranismo psicologico”, a ripassare la storia del Novecento.
http://www.edurete.org/pd/sele_art.asp?ida=3196
Margherita
L’idea di ” spazio vitale” desunta illegittimamente dalla biologia ( nell’ambito dell’ evoluzionismo darwiniano spenceriano, ovvero il principio della selezione applicato ai popoli “più adatti”), è effettivamente espressione di una sindrome paranoica ( aggiungerei suprematista bianca) che oggi paventa ľinvasione africana e la presunta perdita dell’identita europea ( quasi che identità fosse, piuttosto che un costrutto culturale in fieri, un dato topologico e geografico naturale, definito una volta per tutte, astorico…), ieri era alibi per politiche espansionistiche di una nazione ( ariana) sull’altra nella stessa Europa. Invito ľautore, meravigliato perché l’enciclopedia Treccani abbia dedicato una voce al cosiddetto “sovranismo psicologico”, a ripassare la storia del Novecento.
http://www.edurete.org/pd/sele_art.asp?ida=3196
Astrid Agerskov
L articolo Il sovranismo psichico sbarca su Treccani.it proviene da Osservatorio Globalizzazione .
Alberto Iannelli
Gentile Margherita,
ogni identità è storica, certamente. E, nondimeno, occorre “coraggio d’aquila” (Nietzsche, Also sprach Zarathustra, quarta parte, Dell’uomo superiore) per affissare e afferrare l’abisso dischiuso da questa apparentemente innocua affermazione. Essa stessa affermazione, vede, è un’unità che si dà nella storia, e si dà attraverso un’identità: “ogni identità è storica” = A. Epperò, essa apparentemente innocente affermazione, da lei posta con levità e leggiadria anapodittica, coimplica in verità il già esserci patente di un orizzonte di senso in cui e l’identità noumenica (= il concetto) “Identità”, e l’identità noumenica “Storia”, si di-mostrino attraverso l’inambigua propria haecceitas. Infine, proprio se teniamo salda presso verità la sua irenica affermazione, essa eideticità particolare o distintiva con cui affermante e ricevente qui ed ora afferrano i concetti di “Identità” e “Storia” (e dunque di A medesima, “ogni identità è storica”), altro non è se non la profilazione avanguardiale raggiunta dalla storia di entrambi i concetti. Provi infatti a chiedersi, socraticamente, tì estí – hic et nunc – “Identità”, “Storia”, “ogni identità è storica”? Esse sono tutto ciò che sono state sino all’attimo della loro interrogazione identitaria.
Proviamo dunque a condurre a presenza perlomeno e anzitutto il passato o la storia dell’identità “Identità”. Chiediamoci pertanto:
1) Che cos’è l’identità di qualcosa?
2) Qualcosa può essenza senza essere-qualcosa?
Accogliendo il suo garbato invito finale a “ripassare la storia del Novecento”, mi permetto di contraccambiare la sua cortesia nell’invitarla a ripassare un’altra disciplina, assai utile in questo nostro preliminare tentativo definitorio, preliminare giacché – per poterci dire consentanei o discordi (A = V; A = F) rispetto alla sua capitale affermazione apofantica – dobbiamo a punto non dare per scontato l’orizzonte di senso in cui i suoi costitutivi concetti (As = “l’identità”; Ap = “è storica”) si iscrivono, e ciò proprio in quanto principiamo dall’accreditare presso verità tale sua affermazione (ripetiamo, se “ogni identità è storica”, i concetti di Identità e Storia sono identità storiche, epperò, qui ed ora, sono ciò che finora sono stati).
E dunque:
1) La filosofia ci consegna l’identità di qualcosa attraverso la formula della reduplicazione (Verdopplung, Scheiden, Entzweiung, per Hegel) tautologica, ossia dell’auto-medesimezza, della cor-rispondenza altrimenti del sé al sé: A = A.
2) “Ogni ente è ente determinato” (Hegel, Scienza della Logica): identità e sostanza si coimplicano in ogni realtà che ci si para innanzi e di cui facciamo, come ora, predicazione.
Nondimeno, l’astrattezza della formula definitoria sembra non dare soddisfazione ulteriore rispetto al riverbero – infinito e a punto metastorico, cioè non più oltre procedibile – dell’automedesimezza:
3) Posto che A è A se e finché è A, che cosa è, in-sé, A?
4) È possibile che A vada oltre la propria tautologia originaria?
Ecco che, se vogliamo definire A non esclusivamente attraverso se stessa, percepiamo l’insufficienza dell’Identità, percepiamo ovvero l’impossibilità di lasciare l’identità determinata all’Identità in sé, percepiamo ebbene l’esigenza dell’esserci della Differenza.
L’identità completa di A (3), pertanto, alla luce della Differenza, va così posta: A = A se e finché A ≠ ¬ A. A si (contro-)distingue quindi da tutto ciò che essa non è, ossia dalla (solo) sua contraddittorietà. Tuttavia, pur avendo introdotto la Differenza e la Contraddittorietà, ancora la tautologia ci si para innanzi, inibendoci precisamente quell’“in fieri” che lei correttamente ci ricorda essere immorsato a ogni identità. Se, infatti, domandiamo: che cos’è Non-A? Ancora, apparentemente, non procediamo oltre la (contro-)tautologia: Non-A è Non-A.
E, nonpertanto, può realmente l’Alterità permanere presso l’identità di sé (D = D) se permane – in perenne (contro-)tautologia assoluta (“Il-non-qualcosa-in-sé” è “Il-non-qualcosa-in-sé”) – presso sé? Evidentemente no, giacché noi qui discutiamo di A, e non di B. La Differenza per essere sé, per permanere coalita all’unità-didima del sé, deve dunque differenziarsi, pro-durre altresì l’alterità da sé.
Ciò, sia posto senza fondamento per non annoiarla con futili digressioni, conduce alla posizione dell’impossibilità di porre l’Identità(-in-sé) come identità originaria, giacché essa tesi non sono condurrebbe all’“impossibilità fenomenologia” dell’orizzonte “parmenideo”, in cui solo l’Identità(-in-sé) (= l’Essere) è (per cui essa sola è ed è sé per sempre, ossia è ed è sé proprio con quella sclerosi meta-storica che lei ci esorta a non prendere in considerazione circa l’identità particolare), e null’altro è, altro e differente invece ora a noi ostendentesi (poiché discutiamo della sua A, e non della – eventuale – mia B: “ogni identità è eterna”), ebbene anzitutto essenteci, ma anche all’impossibilità logica di esso orizzonte “dell’Essere” o “dell’Uno”: per essere, rammenti Hegel, la stessa Identità deve essere qualcosa (I), e per essere qualcosa deve non-essere tutto l’altro da sé; ma non l’Identità può contenere nel proprio perimetro identitario la differenza, il non-essere, la contraddittorietà (e le risparmio l’a-bisso in cui “getta” il porre la Differenza come l’Originaria “identità”).
Ritornando invece alla sua affermazione capitale: proprio perché l’identità particolare (nonché la stessa Identità in sé) trova il proprio fondamento nella Differenza, ogni identità non è eterna, ossia posta una volta e per sempre, al di là della Storia, cioè al di là dell’articolarsi nel Tempo della Differenza.
Provi dunque ora ulteriormente a definire che cosa sia A. Abbiamo affermato che il rimanere fermi e saldi nella tautologia – e distintiva (A è A), e contraddistintiva (A non è Non-A) –, non ci concede avanzamento oltre A, cioè apertura della differenza-particolare, abbiamo ovvero parimenti affermato che per procedere-oltre la posizione “eterna e metastorica” della tautologia dobbiamo introdurre nello spettro predicativo di A l’alterità, la partizione, la differenza: A è B + C.
E, tuttavia, ora ci troviamo nella necessità di definire e B e C. Ed ecco che ancora la tautologia minaccia la nostra storicità. Ebbene: non è l’identità con noi stessi che ci fa essere ciò che siamo, altrimenti eternamente saremmo ciò che da principio e sempre siamo (ma, abbiamo accennato, neppure ciò saremmo, ebbene neppure qualcosa saremmo, nella suddetta coimplicazione onto-identitaria), ma è l’aprirsi della differenza tra noi e il Mondo, ossia il progressivo differenziarsi della nostra contraddittorietà, egualmente il via via differenziarsi del Mondo “oltre” la puntuale coalescenza unitaria (Io = Io) che noi stessi siamo, a determinare la storicità della nostra propria e di ogni altra identità, ebbene a determinare precisamente quel contenuto identitario (Non-A) che la nostra identità – sempre, cioè finché è – tiene insieme o presso sé (A = A).
Ciò pre-posto, veniamo pertanto ai concetti principali attraverso i quali si articola essa sua contro-confutazione della liceità d’essere del lemma Treccani “sovranismo psichico”: “spazio vitale” (e, aggiungo io – rimandando a Fichte e ai suoi esortativi discorsi alla nazione tedesca affinché si sollevi contro l’invasore francese –, “Blut und Boden”, “sangue e suolo”), “identità quale costrutto culturale in fieri e non dato topologico e geografico, definito una volta per tutte, astorico”.
Ebbene, se abbiamo testé posto essere lo iato o la differenza tra la puntualità coalita in unità tautologica e tutto il mondo altro da e oltre essa adimensionalità didima, il contenuto della nostra propria identità, che cosa è, in se stessa, questa Differenza, che cosa è questo Mondo-tutto-eccetto-noi?
Esso particolare mondo non può essere il Mondo(in-sé), poiché se A differisce da B in quanto anzitutto non-A differisce da non-B, è evidente che tra non-A e non-B debba aprirsi iato o dia-vergenza: ecco che il mondo tutto oltre me che mi fa essere ciò che sono è il mio mondo, e non il suo.
Non ci resta pertanto che determinare che cosa sia il mio mondo, ossia da che cosa l’identità storica il “Mondo-oltre-me-stesso” sia costituita. Per farlo, occorre certamente definire la seconda identità, quella predicativa, della sua principale affermazione (“l’identità è storica”), ossia la Storia stessa, e la sua coimplicazione con la Differenza e con l’Identità.
Abbiamo posto che l’affermazione che predica la storicità di ogni identità implica la seguente risposta all’interrogazione socratica (tì estí): qui ed ora, questa identità è ciò che, finora, è stata. Abbiamo altresì posto che il contenuto di ogni identità è determinato da tutto il mondo che – sempre, ossia finché questa identità è – si estende oltre la di essa posizione propria, in quanto lo stare in posizione presso sé di questa (haec) distintiva posizione conferisce esclusivamente la seità dell’insietà. Non ci resta pertanto che porre la risultante sintetica di queste due posizione e affermare che “Io sono ciò che tutto il mio mondo è stato finora”.
Ma forse l’immensa e abissale portata di questa affermazione apparentemente semplice potrebbe sfuggirci. Proviamo dunque a esemplificarla, seguendo, come detto, l’articolarsi puntuale della sua contro-confutazione apologetica. Lei, in sostanza, afferma (e mi si conceda perdono per l’inferenza): sì, il passato dell’Europa è stato “bianco”, cristiano, linguisticamente indogermanico ma, poiché l’identità è un costrutto culturale in fieri, in futuro, cioè oltre la posizione di questo nostro presente, essa identità potrebbe diventare amerindioide o australoide, mussulmana o confuciana, linguisticamente altaica o bantu, pertanto non ha senso “difendere” la scelori del passato, perché essa, nell’attimo stesso in cui di essa se ne fa questione, già non è più, già si è sciolta nell’innanzi.
E, nondimeno, si è posto che l’identità – proprio perché è storica – qui ed ora è determinata da ciò che essa è stata, e non da ciò che essa potrà essere. Ecco pertanto che appare contraddittorio definire, ad un tempo, l’identità e come “costruzione storica”, e come costruzione determinata non da ciò che essa è stata sinora, ma da ciò che, da ora innanzi, essa potrebbe essere (certo, potremmo definire l’identità indeterminabile proprio perché il passato si liquefà e il futuro appare nullo, ma definire l’identità indeterminabile è pur in qualche modo definirla, determinarla, così come, ci ricorda Aristotele nel libro Delta della Metafisica, affermare, ad un tempo, di C, e X e non-X, è pure qualcosa affermare…).
Purtroppo, elevando questa contraddizione, ci si parano innanzi altre due categorie capitali della nostra tradizione filosofica, ossia la Potenza (Futuro) e l’Atto (Passato) (ponendo, con lei, e con Hegel, l’impossibilità di fermare il presente e definendo l’eidos attuale di qualcosa come teoria del suo passato).
Si ponga ora questa identità: “l’Europa sarà mussulmana” (A). Questa identità appare, ossia questa identità si dà all’atto, alla presenza afferrabile, per tramite dell’haecceitas solo sua? Certamente sì, eccola infatti qui d’innanzi a noi ostendersi e farlo così come essa è. Si chieda ora: qual è il contenuto di questa identità? Il suo passato. Questa risposta immediatamente sconcerta. Saremmo infatti subito portati a rispondere: il suo contenuto è il suo futuro, ossia “l’Europa (che sarà) mussulmana”, lì e allora, ossia l’Europa come sarà nel tempo dell’inveramento di questa identità qui e ora presente, nel tempo ossia del suo condursi all’atto.
Ma “l’Europa sarà musulmana” (A) è, qui ed ora, una deissi del nulla, un ponte verso il nulla, una relazione ossia tra questo punto preciso e il nulla che non consente appuntarsi alcuno, che non dà alcuna differenziazione possibile entro sé. È, certamente, qui ed ora, ma è giacché prolessi. E, tuttavia, è, e dunque ha un’identità solo propria o distinguibile da tutto l’altro da sé, e dunque, ancora, il contenuto di essa identità che si proietta nel “ciò che sarà” è “ciò che è stata”.
Se infatti io affermo: “l’Europa sarà confuciana” (B), parimenti traccio una linea tra questo punto e il nulla; ma entro il nulla non si dà articolazione alcuna di alterità posizionale, si è detto, per cui la differenza tra A e B, la differenza ossia che distingue A da B, la differenza, egualmente, che fa essere A, A, e B, B, non può essere determinata da ciò verso cui entrambi puntano (ossia “l’Inappuntabilità identitaria assoluta”), bensì, ancora, dal punto presso il quale pro-puntano verso il sempre medesimo Nulla (assoluto o inautentico, si dirà).
Chieda ora, con sincerità, a se stessa: ha più senso lottare per ciò che ci fa essere ciò che siamo (ovvero per ciò che semplicemente ci fa essere qualcosa: ricordi la co-implicazione onto-identitaria), o ha più senso battersi per ciò che ci fa essere an-identitariamente indistinti, ebbene per ciò che semplicemente non ci fa essere alcunché, ossia per il nulla dell’Indistinzione assoluta?
Lei replicherà, forse: io non lotto per il nulla dell’indistinto, io mi batto per questa unità onto-tautotetica che ha per contenuto ciò che dimora nell’affermazione: “non si dà alcuna sclerosi identitaria determinata, giacché l’identità è una costruzioni perennemente diveniente”.
E sia, così precisamente è. Abbiamo infatti affermato che persino quell’unità onto-tautotetica che punta al nulla indistinto è, si distingue, si dà nell’atto. Ci sorge nondimeno il dubbio che il contenuto della storia di questa sua affermazione (“non si dà alcuna sclerosi identitaria determinata, giacché l’identità è una costruzioni perennemente diveniente”), cioè la sua identità (abbiamo infatti posto che ogni identità è determina da ciò che essa è stata) sia precisamente la stessa (contro) storia dell’Indistinto, giunto ormai verso la plenitudine del proprio esserci.
È il nostro infatti il Tempo del nichilismo inautentico, il Tempo ossia in cui non ne è pressoché più niente di ogni posizione identitaria-distintiva, poiché pressoché più niente né è del Nulla autentico, ovvero della Dia-ferenza originaria, mentre, enantio-dromicamente, pressoché tutto ne è dell’Indistinzione-in-sé, cioè proprio di quell’Identità lasciata a se stessa, di quell’Identità-in-sé altresì di cui sopra si è posta l’impossibilità dell’auto-sufficienza posizionale principiale (e dunque la sua derivata deuteriorità).
Alcuni, usando categorie “non filosofiche”, definiscono questo Tempo nostro usando l’espressione: “omologazione planetaria”.
Ecco perché, in definitiva, battersi per il proprio sangue e per il proprio suolo, cioè per la propria tradizione patria, per quel sole i cui raggi filtrano attraverso fitte foreste di frassini e non si danno invece abbacinanti nell’aoristia della steppa; per quell’ombra che si raccoglie vicina e intima tra gli arbusti della macchia mediterranea e non piuttosto lungi saetta al meriggio, scoccata dalle guglie di gotiche conifere; per l’etimo di quel Sole e di quell’Ombra; per ogni parola pronunciata e per ogni zolla dissodata da mio padre; per ogni ara eretta e per ogni fonte difesa dal mio Popolo; significa battersi per l’essere e per l’identità (ossia, autenticamente, per l’essere-del-Nulla e per l’identità-della-Differenza, ebbene per l’Originario), cioè battersi per la Storia (Ge-schichte), mentre lottare per “l’eterno e liquido divenire senza possibilità di radicamento e discretudine distintiva alcuna”, significa lottare per il nulla e per l’indifferenza (ovvero, autenticamente, per l’essere-dell’Essere e per l’identità-dell’Identità, ebbene per il Deuteriore), cioè lottare contro l’Uomo, egualmente contro l’identità nostra, contro il nostro Destino (Ge-schick).
Io non nutro dubbio alcuno circa la partizione per la quale combattere. Spero, alla nuova luce di ciò, che non li nutra lei neppure.
La saluto cordialmente.
Alberto Iannelli
Keenan
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