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Afghanistan, il buco nero un anno dopo la disfatta. Parla il generale Giorgio Battisti

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Afghanistan, il buco nero un anno dopo la disfatta. Parla il generale Giorgio Battisti

Il caos aperto dalla vittoria dei Talebani in Afghanistan ha segnato profondamente la strategia occidentale in Medio Oriente. Un anno dopo la disfatta e la fuga da Kabul, l’Osservatorio si confronta sul lascito strategico della crisi con il generale Giorgio Battisti. Battisti, Generale di Corpo d’Armata (Aus.), Ufficiale di Artiglieria da Montagna, ha espletato incarichi di comando nelle Brigate Alpine Taurinense, Tridentina e Julia ed ha ricoperto diversi incarichi allo Stato Maggiore dell’Esercito. Ha comandato il Corpo d’Armata Italiano di Reazione Rapida della NATO (NRDC-ITA), l’Ispettorato delle Infrastrutture e il Comando per la Formazione, Specializzazione e Dottrina dell’Esercito. Ha partecipato alle operazioni in Somalia (1993), in Bosnia (1997) e in Afghanistan per quattro turni. Ha terminato il servizio attivo nell’ottobre 2016.

Il 2021 è stato l’anno del ritiro definitivo dell’esercito statunitense dall’Afghanistan. Tale evento storico è stato accompagnato dal ritorno al potere dei Talebani e, ora più che mai, la nazione centroasiatica è al centro di una preoccupante ‘crisi multifattoriale’. Lei come valuta l’attuale situazione sociopolitica e geopolitica dell’Afghanistan e, a suo dire, quali sarebbero le maggiori criticità e problematiche che attualmente il paese deve affrontare? 

L’Afghanistan è attualmente afflitto/condizionato da diverse criticità che possono essere ricondotte prioritariamente al suo isolamento in ambito comunità internazionale. Nessuno dei 193 Paesi che siedono alle Nazioni Unite ha riconosciuto formalmente il governo talebano, anche se alcuni Stati hanno – di fatto – relazioni con Kabul (Cina, India, Iran, Russia, Pakistan, Qatar, Turchia).

La situazione, a mio avviso, è destinata a peggiorare e a ripercuotersi negativamente sull’intera Asia Centrale. Dal loro ritorno al potere i Talebani non hanno intrapreso misure per convincere la Comunità Internazionale e la popolazione locale della legittimità del loro regime, della loro capacità di controllare la situazione, di garantire la sicurezza dei cittadini e di risolvere le questioni sociali ed economiche. Al contrario, nonostante le promesse e rassicurazioni, i Talebani si oppongono alla creazione di un governo con un’ampia partecipazione di tutte le forze politiche ed etniche. Nel frattempo, i leader locali perseguono una politica aggressiva di discriminazione contro i vari gruppi etnici, oltre a un rigido conservatorismo religioso, soprattutto ai danni delle donne e delle bambine.

A un anno dalla partenza dell’ultimo aereo militare statunitense da Kabul, inoltre, che ha segnato la fine della presenza dei contingenti stranieri in Afghanistan, il regime degli “studenti coranici” deve fronteggiare diverse formazioni armate che, per finalità diverse, contendono loro il controllo del Paese.

I Talebani che per vent’anni hanno combattuto il governo sostenuto dagli Stati Uniti, si trovano ora – a ruoli inversi – a dover contrastare un’insorgenza variegata e diffusa su tutto il vasto territorio.

Innanzitutto, l’ISIS-K (Stato Islamico dell’Iraq e del Levante – Provincia di Khorasan) che conduce la lotta contro l’autorità centrale prevalentemente con sanguinosi attentati ai danni della popolazione effettuati nei centri di aggregazione (moschee, scuole, ospedali, ecc.), soprattutto di etnia hazara (sciiti), per dimostrare l’incapacità talebana di garantire, come avevano promesso, la sicurezza alla società afghana. Oltre all’ISIS-K, hanno ripreso l’azione sia il National Resistance Forces of Afghanistan (NRF), guidato da Ahmad Massoud figlio del leggendario Ahmad Shah Massoud nella lotta anti-talebana degli anni ’90 nelle valli del Panshir e dell’Andarab, sia altri gruppi di ribelli che in più parti del Paese conducono attacchi e attentati contro le milizie locali dell’Emirato Islamico.

Oltre a ciò, i Taleb sono riusciti in pochi mesi a entrare in contrasto, anche con violenti scontri a fuoco, con tutti i Paesi vicini. Dall’Iran (sciita) che lamenta lo scarso o nullo controllo dei confini e la mancata protezione dell’etnia hazara, al Pakistan che denuncia l’ospitalità assicurata da Kabul ai Talebani pakistani (TTP – Tehreek-e-Taliban Pakistan), alle ex Repubbliche Sovietiche che confinano a nord che a loro volta subiscono attacchi da parte di gruppi terroristici che trovano rifugio in Afghanistan. 

Una critica situazione che dimostra sempre più la loro incapacità di mantenere il controllo del Paese, sia per la carenza di forze rispetto alla superficie della Nazione sia per i contrasti interni tra le varie formazioni etnico-geografiche talebane (quelli di Kandahar a sud, quelli di Jalalabad a Est, quelli del Nord, ecc.).

Diversi opinionisti e analisti hanno criticato, più che il ritiro in sé, la gestione politica della ritirata dei contingenti militari statunitensi ed alleati, definendola “fallimentare”. In qualità di esperto e profondo conoscitore della tematica ritiene condivisibile, in parte o meno, tale giudizio? 

La conclusione della missione, decisa dal Presidente Trump con gli Accordi di Doha del febbraio 2020, è stata gestita con superficialità e miopia soprattutto per l’improvvida decisione del Presidente Biden di disporre il ritiro del contingente USA (e di conseguenza degli altri contingenti della NATO) in piena fighting season estiva, tradizionale stagione dei combattimenti (durante la stagione estiva si scioglie la neve sui passi che collegano l’Afghanistan al Pakistan e possono riprendere i rifornimenti delle munizioni e il movimento di uomini).

 Sia il Pentagono sia l’intelligence statunitense sia diversi Generali che avevano guidato le operazioni nel Paese (tra cui Stan McChrystal e David Petraeus) avevano consigliato la Casa Bianca di mantenere un limitato contingente di 2 – 3 mila uomini per assicurare con la loro presenza, sebbene di scarso valore operativo, un supporto (psicologico) alle forze afghane, in modo tale che non si sentissero abbandonate a sé stesse. Era stato, inoltre, suggerito di prevedere il ritiro completo in autunno quando l’Afghanistan si “ferma” per le abbondanti nevicate che bloccano i movimenti e cessano cosi anche i combattimenti. In questo modo le forze governative avrebbero avuto la possibilità di riorganizzarsi e mantenere le posizioni. Ma evidentemente ragioni di politica interna e di mancanza di fiducia nei confronti dei vertici militari USA hanno prevalso sulle indicazioni di carattere operativo (in questi ultimi mesi sono uscite diverse notizie sui media statunitensi che hanno confermato che il Presidente Biden e i suoi collaboratori più stretti erano stati avvisati in merito). 

Nel novembre del 2021 è stato dato alle stampe il suo nuovo libro “Fuga da Kabul”, scritto assieme alla giornalista Germana Zuffanti per la Paesi Edizioni. Nel saggio si offre una visione d’insieme dettagliata dello stallo afghano. L’Afghanistan di oggi ha relativamente poco a che vedere con l’Afghanistan segnato dalle guerre civili degli anni Novanta e dalla prima fase del regime talebano. Quali reputa essere le maggiori differenze e cambiamenti tra quell’era e oggi, sia da un punto di vista socio-economico così come geopolitico? 

I Talebani sono cambiati esclusivamente nella loro capacità mediatica, rispetto agli anni ’90. Ma nei fatti sono sempre gli stessi.

Il rapporto dello Special Rapporteur delle Nazioni Unite al Consiglio dei diritti umani sulla “situazione dei diritti umani in Afghanistan”, pubblicato il 6 settembre 2022 afferma che la situazione nel Paese si è deteriorata “al punto che la crisi dei diritti umani coincide con la crisi umanitaria e finanziaria dell’Afghanistan”. Ritiene che i Talebani siano responsabili del peggioramento dei diritti civili, politici e culturali degli Afghani, comprese “diffuse e gravi violazioni”, ed è preoccupato che il Paese mostri “forti segni di discesa verso l’autoritarismo”. Per quanto riguarda i diritti economici e sociali, invece, afferma che “tutte le parti portano gradi di responsabilità”, non solo i Talebani ma anche la Comunità Internazionale. 

Finora, i Talebani si sono dimostrati abbastanza immuni alle richieste di modificare quelli che considerano i loro principi fondamentali, ad esempio le politiche sulle donne e sulle ragazze, o di affrontare gli abusi di cui negano l’esistenza, a esempio le esecuzioni extragiudiziali e la discriminazione di gruppi etnici o religiosi. 

Passando ai Taliban c’è da dire che lo stesso movimento degli “studenti del Corano” si è, almeno in apparenza, modernizzato e ha operato un salto di qualità perlomeno a livello comunicativo e d’immagine. Tuttavia, a distanza di un anno, si può ben dire che tale “restyling” sembrerebbe perlopiù formale e la nuova era talebana è segnata da una graduale ma pervasiva restrizione generalizzata dei diritti delle donne e di diverse minoranze etniche e religiose. Lei come valuta l’evoluzione dell’organizzazione e, inoltre, ritiene sia possibile e auspicabile non tanto il riconoscimento della nuova entità statuale ma perlomeno un’apertura al dialogo e alla relativa collaborazione su alcuni temi delicati? 

Ritengo al momento difficile una apertura formale (occidentale) nei confronti del governo talebano. Almeno sino a quando non ne sia rivista la sua composizione. Attualmente sono presenti nella compagine governativa terroristi sulla lista nera di più Paesi e delle Nazioni Unire, come ad esempio Sirajuddin Haqqani, ministro dell’Interno, sul cui capo pende una taglia di 10 milioni di dollari da parte di Washington; il Ministro della Difesa invece è il figlio primogenito del Mullah Omar.

Ciò non toglie che alcuni Paesi abbiano già avviato (o rinforzato) contatti informali con Kabul come Cina, Qatar, Pakistan, Qatar, Russia, Turchia.

L’Afghanistan contemporaneo vive una certa recrudescenza del terrorismo di matrice islamista radicale, specialmente ad opera di gruppi salafiti legati, ufficialmente o meno, allo Stato Islamico e al non correlato Isis-K.  Tali gruppi terroristici operano allo scopo di rovesciare il regime talebano ma, d’altro canto, si ritiene che lo stesso Emiro sia in qualche modo “colluso” con organizzazioni terroristiche di stampo globale come Al Qaeda e la stessa uccisione a Kabul dell’ex capo dell’organizzazione, Ayman al-Zawahiri, proverebbe il consolidamento dei rapporti tra il regime e una parte dei vertici del gruppo terroristico che fu guidato da Bin Laden. A suo dire tali rapporti sono in qualche modo “organici” e la permanenza dei Taliban al potere potrebbe essere vista dai qaedisti come un’opportunità per riconquistare la leadership nell’ambito del jihadismo globale? 

L’uccisione di Al-Zawahiri rappresenta la conferma che i Talebani, malgrado quanto sottoscritto negli Accordi di Doha (29 febbraio 2020), continuano ad “ospitare” formazioni terroristiche islamiste sul proprio territorio. Risulterebbe da più fonti che Al-Zawahiri era a Kabul grazie alla protezione di Sirajuddin Haqqani, ministro dell’Interno del governo talebano.

Secondo valutazioni statunitensi e delle Nazioni Unite sono una ventina i gruppi terroristici attivi nel Paese asiatico, che annoverano tra le loro fila numerosi militanti stranieri. I periodici rapporti del UN Analytical Support and Sanctions Monitoring Team, dedito al monitoraggio dei gruppi terroristici nel mondo, hanno confermato inoltre lo stretto legame – per i reciproci benefici – tra al-Qaida e i Talebani. Secondo alcune fonti campi terroristi sono sensibilmente aumentati rispetto al 2021. I terroristi, che erano relegati soprattutto nell’Est del Paese, sono ora presenti in diverse province afghane. Alcune basi militari NATO sembra siano utilizzate per l’addestramento dei terroristi.

Ricollegandoci alla domanda precedente, reputa convincente l’ipotesi che ritiene l’Afghanistan un possibile nuovo hub del terrorismo internazionale o, tenendo comunque conto della natura localista e “tribalista” del regime e dell’ideologia taliban, pensa che il pericolo sia perlopiù circoscritto ai paesi limitrofi, come Pakistan e Iran, o situati nelle vicinanze come le stesse India e Cina? 

L’Afghanistan attuale, rischia di divenire (o è già) un grande “santuario” per numerose formazioni islamiste. Indubbiamente questa situazione risulta preoccupante per l’Occidente. Ne è la dimostrazione che in questi giorni stanno comparendo sui media internazionali notizie di numerose incursioni con droni armati su basi terroristiche site nel Paese, quasi sicuramente dovute agli USA.

Da un punto di vista umano e lavorativo, quanto ti ha dato l’esperienza vissuta in Afghanistan e come descrivi le particolarità di questo Paese, così particolare e così lontano dalla vista e dagli standard degli individui e del mondo occidentale? 

L’Afghanistan è stato per millenni un passaggio obbligato tra Oriente e Occidente, corridoio per il transito degli eserciti, nodo di confluenza di commerci, interessi secolari e flussi migratori, dove convergevano le principali direttrici provenienti dai bacini mediterraneo – mesopotamico e aralo – caspico/euroasiatico. Una “terra di mezzo” da conquistare o controllare, abitata da un popolo prodotto di una storia millenaria – scritta sui volti dei suoi abitanti – tra i più ospitali al mondo ma ostile agli stranieri in armi per gli innumerevoli tentativi invasione succedutisi nei secoli, tanto da essere ribattezzato “il cimitero degli imperi”.

È una terra dove ancora oggi la storia, la religione e la violenza sembrano fondersi in modo inestricabile, mentre il suo popolo e la sua società sono stati profondamente influenzati dalla guerra: bellicose tribù periodicamente in lotta tra di loro, pronte nondimeno ad unirsi per combattere un invasore straniero: una società di fieri e irriducibili guerrieri, animati da un forte senso dell’indipendenza e con un tradizionale legame all’etnia, al clan, alla tribù, al villaggio e alla famiglia. I rapporti umani erano e sono regolati dal Pashtunwali (il suo significato può essere interpretato come “la via dei Pashtun” o “il codice della vita”. Le origini del Pastunwali risalgono al periodo pre-islamico), un codice consuetudinario comportamentale non scritto e stile di vita tradizionale del popolo pashtun, adottato anche da altre etnie afghane o pakistane, nato in tempi remoti e rispettato ancora oggi soprattutto nelle aree tribali (Regione situata tra Pakistan e Afghanistan abitata prevalentemente dai Pasthun). Si caratterizza per il rispetto di valori ritenuti fondamentali: nang: onore (e vergogna), melmastiya: ospitalità (asilo), ghairat: dignità (onore), badal: vendetta (faida), namus: onore delle donne. L’onore è la virtù che guida il comportamento e le relazioni, il rispetto della vita e della morte, l’ospitalità concessa, la promessa data, ma anche il sentimento che perpetua vendette infinite e lotte secolari. La lealtà personale è soprattutto rivolta alla famiglia e alla tribù. Cacciati o ritiratesi gli stranieri, le tribù, i clan e i villaggi riprendono a combattere tra loro per secolari controversie dovute alla proprietà di terreni da coltivare, ai pascoli e alle sorgenti d’acqua, a lotte tribali ed etniche e alle faide familiari.

Malgrado questi contrasti e conflitti, esiste un sentimento di comune appartenenza: essere Afghano significa fare parte di una comune identità guerriera.

Oltre all’Afghanistan, la tematica globale più importante dei primi mesi del 2022 è indubbiamente quella relativa al conflitto in Ucraina. Qual è la sua opinione sull’attuale andamento di tale guerra europea? 

Il conflitto sembra entrato in una fase di stallo da entrambe le parti.  

In tale contesto, il supporto dei Paesi Occidentali a Kiev continua ad essere molto forte: bisognerà vedere se con questi aiuti, unitamente alla progressiva professionalizzazione delle truppe ucraine, alla guerriglia partigiana e agli attacchi nelle retrovie, i russi inizieranno a perdere slancio e a dover indietreggiare oppure dovranno consolidarsi ancora di più sulle posizioni attuali. 

I Russi faranno di tutto per non cedere l’area di Kherson perché se dovessero perderla, oltre a forti riflessi negativi in termine di immagine internazionale, la popolazione della Crimea rischierebbe di non disporre più dell’acqua dolce del fiume Dnepr e della corrente elettrica proveniente dall’Ucraina come è avvenuto dal 2014 quando la penisola è stata occupata dai militari di Mosca.

 L’aggravarsi del conflitto in Donbass e l’invasione russa dell’Ucraina hanno portato ad una crisi diplomatica senza precedenti tra la Russia e la maggior parte dei paesi facenti parte dell’Alleanza Atlantica. A suo parere, al giorno d’oggi potrebbero esserci delle possibili risoluzioni diplomatiche del conflitto in corso almeno a lungo termine? (9)

Non vedo al momento, a mio avviso, possibili sviluppi diplomatici. Più volte sia il Presidente Putin sia alti rappresentanti istituzionali russi hanno affermato che non sussistono margini per una soluzione diplomatica del conflitto. Lo stesso vale, ritengo, per il governo ucraino. Entrambi i contendenti sono fermi sulle loro posizioni: i Russi nell’affermare che intendono “liberare” l’intero Donbass; gli Ucraini nella volontà di riprendersi tutti i territori occupati da Mosca, Crimea compresa. L’unica intesa sinora raggiunta è quella sull’accordo per l’esportazione dei cereali per finalità umanitarie.

Il Segretario di Stato USA, Blinken, in occasione della riunione dell’Alleanza Atlantica di Bruxelles del 9 settembre scorso, ha affermato: “In questo momento non vediamo la volontà della Russia di riprendere la strada della diplomazia. Un obiettivo della NATO è di assicurare che l’Ucraina sia in una posizione più forte quando inizieranno i negoziati. I segnali della controffensiva sono positivi e le forze di Kiev stanno compiendo progressi tangibili. Ma non sappiamo dove porterà la controffensiva. Putin è disposto a usare uomini e mezzi anche a caro prezzo per la Russia”.

E se sì, quanto potrebbe impattare a livello internazionale, ad esempio sulla lotta al terrorismo islamista e altri “temi comuni”, un critico e graduale riavvicinamento tra la NATO e la stessa Russia?

La lotta al terrorismo islamista è passata, dall’inizio del conflitto, in secondo piano, soprattutto da parte Occidentale. E ciò rischia di essere un grosso problema in quanto l’ISIS e al-Qaida, approfittando di questa “disattenzione” hanno ripreso vigore sia in Medio Oriente sia nel Sahel espandendo le proprie azioni terroristiche.Lo stesso Segretario Generale dell’ONU António Guterres aveva evidenziato, l’8 giugno 2022 alla riunione del Global Counter-Terrorism Coordination Compact delle Nazioni Unite (che riunisce Agenzie ONU, Stati membri e altri partner), che i gruppi terroristici “sfruttano i vuoti di potere” e che, sebbene il numero di morti a causa del terrorismo sia diminuito, la minaccia globale è lungi dall’essere superata, in particolare in Africa dove è in aumento. “Gruppi come al-Qaida, Da’esh e i loro affiliati continuano a crescere nel Sahel e a far breccia nell’Africa Centrale e Meridionale. Sfruttano i vuoti di potere, le lotte interetniche di lunga data, le debolezze interne e le fragilità degli Stati”, ha affermato. Nei Paesi interessati da conflitti, come la Repubblica Democratica del Congo, la Libia e la Somalia, il terrorismo ha intensificato i cicli di violenza, alimentando ulteriore instabilità, minando gli sforzi di pace e ritardando gli obiettivi di sviluppo. Nel frattempo, in Paesi in gran parte pacifici, come il Mozambico e la Tanzania, i terroristi cercano di sfruttare e manipolare le rimostranze della società e la sfiducia nei governi.

Tutte le interviste dell’Osservatorio

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