“Geopandemia”: il caos del mondo dopo il coronavirus
L’Osservatorio Globalizzazione presenta oggi un’ampia conversazione avuta con il professor Salvatore Santangelo sul suo ultimo saggio, “Geopandemia. Decifrare e rappresentare il caos” (edito da Castelvecchi). Santangelo, classe 1976,è giornalista professionista e docente universitario. Esperto di politica internazionale e di storia del Novecento, studia la dimensione mitica nell’attualità occupandosi di “geosofia”, e tra le sue più recenti pubblicazioni si segnalano GeRussia (2016) e Babel (2018). Con lui abbiamo discusso delle motivazioni che lo hanno spinto a scrivere “Geopandemia”, delle dinamiche innescate dal coronavirus nella politica internazionale e nell’evoluzione della globalizzazione e delle lezioni che la storia e le culture del passato possono dare al presente per superare questa fase di crisi.
Professor Santangelo, come ha elaborato il concetto di “Geopandemia” e l’idea che le conseguenze geopolitiche della pandemia inaugurino una nuova fase dell’era globalizzata?
“Geopandemia” è un termine “denso” e questo perché la crisi pandemica ha una sua “densità” che merita di essere esplicitata nelle sue diverse componenti, e nella mia trattazione ho scelto di dare priorità proprio a quella geopolitica: la pandemia si è inserita in un determinato contesto storico, facendo saltare equilibri già precari.
Quali sono le sue principali idee riguardanti la fase storica in cui ci troviamo, influenzata dal Covid-19?
Nella mia visione, la dinamica storica oscilla tra alternanti momenti di apertura e di chiusura. In questo senso, non esiste una sola globalizzazione, e allo stesso modo possiamo riconoscere fasi “globali”, “post-globali” e “anti-globali”.
La particolarità della nostra contemporaneità risiede nel fatto che il tempo-mondo che stiamo vivendo vede, per la prima volta nella storia, la sincronizzazione di questi momenti.
“Abitiamo” – contemporaneamente – un mondo globale, post-globale e anti-globale.
Un contesto, dunque, in cui coesistono forze che spingono lungo traiettorie divergenti…
Esatto: assistiamo a una fase di forte aumento della velocità del pendolo della storia, che – come dicevamo – oscilla tra spinte verso l’apertura e l’omologazione (pensiamo alla fase matura dell’Impero Romano, con la sua cultura unificatrice e il suo cosmo plasmato dalla guerra ma ancor più dalle rotte commerciali) e fasi specularmente antitetiche, di chiusura (come nell’Alto Medioevo). La globalizzazione che abbiamo conosciuto abbraccia un periodo di circa quarant’anni ed è stata a trazione sino-americana; parte cioè da quello che – dal mio punto di vista – è il vero punto di svolta della Guerra Fredda: la diplomazia del ping-pong, ovvero la capacità di Nixon e Kissinger di comprendere che riappacificarsi con Pechino sarebbe stato cruciale per “amplificare” le profonde faglie politiche, storiche e strategiche che dividevano la Cina dall’Urss, isolando quest’ultima. La rottura del blocco ideologico e geopolitico del mondo comunista e la svolta economica impressa da Deng Xiaoping hanno aperto la strada alla globalizzazione, che – in particolare – ha trasformato la Cina da Paese uscito a pezzi dalla Rivoluzione Culturale nel nuovo protagonista (revisionista) dell’ordine mondiale. La globalizzazione è stata plasmata dai capitali e dall’ideologia statunitense e dalla forza lavoro cinese sulla base di un’alleanza pagata comunque a duro prezzo dagli Usa, che, nel medio periodo, hanno sacrificato – sull’altare della vittoria nella Guerra Fredda – la tenuta del proprio ceto medio e, a causa delle delocalizzazioni, di segmenti importanti della propria base industriale.
In questo contesto, il Covid accelera i processi: basti pensare alla transizione verso il digitale, ai nuovi modello di produzione, commercio, interazione e controllo sociale. Con tutte le implicazioni del caso: vediamo come il modello distopico – stile “Black Mirror” – della Cina abbia piegato il virus, mentre i Paesi liberali e soprattutto quelli guidati dai “sovranisti” (Trump, Bolsonaro e Johnson) siano stati travolti dalla pandemia e, soprattutto, dalla narrazione sulla loro presunta incapacità di gestirla.
Tecnica e autorità statale in Cina, narrazione senza autorità né tecnica in Occidente, insomma?
Questa è una prospettiva interessante. In un evento di poco precedente al primo lockdown il mio maestro Giuseppe Sacco ha dato una prospettiva quasi oracolare dei tempi che stiamo vivendo: chi avrà il controllo delle tecnologie con cui si stanno scrivendo e definendo i nuovi paradigmi avrà un determinante vantaggio politico, economico e la supremazia narrativa. Profondo conoscitore della Cina, dove ha anche insegnato – presso la Fudan University di Shanghai – Sacco ha anche ricordato il ruolo della sicurezza sociale e sanitaria come volano per l’innovazione, in particolare del software per il riconoscimento facciale o per i termo-scanner, profondamente migliorati di fronte alla necessità di individuare i capi da abbattere negli allevamenti di maiali durante la precedente crisi dell’influenza suina. Questo è un tema da tenere in considerazione: la pervasività dei sistemi (data mining, algoritmi, sistemi di riconoscimento) e la grandezza delle società digitali (le cosiddette OTT) sono fattori sempre più determinanti.
C’è un passaggio fondamentale di “Guerra senza limiti”, opera di due colonnelli cinesi (Qiao Liang e Wang Xiangsui), in cui gli autori ricordano la necessità di fare fronte a minacce che minano la stessa coscienza dell’essere umano: “Ci sono reti sopra le nostre teste e trappole sotto i nostri piedi. Non abbiamo dunque possibilità di fuga”. La pervasività degli strumenti e della tecnologia mette a repentaglio persino quella che Carl Schmitt chiamava la nostra “cittadella interiore”.
Modelli che, per tornare a quanto dicevamo in precedenza, si riscontrano anche nella tripartizione tra fasi “globali”, “post-globali”, “anti-globali”?
Certamente. La globalizzazione è trascinata dalla tecnica, dal dominio del privato sul pubblico. Oggi invece il Covid apre squarci sulle altre due fasi e inverte i termini della questione, accelera la tendenza a mettere al centro lo Stato che già pre-esisteva in diversi contesti (la ricerca scientifica e tecnologica, il complesso militar-industriale), come ha ben evidenziato Alessandro Aresu nelle sue ricerche sul capitalismo politico.
E qui torniamo alla concezione secondo cui gli “archetipi” condizionino, anche senza che ce ne accorgiamo, il nostro agire politico e sociale.
Esatto, e soprattutto dobbiamo prendere in considerazione il ruolo di un altro elemento: il fattore tempo.
Il tempo, ovvero il controllo delle fasi di azione in un contesto di forte accelerazione?
Il tempo gioca a favore delle potenze in ascesa e complotta contro quelle in declino. Esiste una vera e propria “geopolitica del tempo” (e del controllo del suo fluire). Dettare i tempi, controllare la successione delle azioni politiche, dominando la narrazione: il tempo è fondamentale, e la possibilità di controllarlo è anche l’archetipo che guida una delle opere più importanti di quest’anno: “Tenet” di Christoper Nolan.
Torna un tema escatologico importante in quanto dice: il “potere che frena”.
Il concetto di Katehon,dei poteri frenanti… Sul tema c’è un libro fondamentale di Massimo Cacciari, da rileggere per comprendere come l’attuale “conflittualità globale” si manifesta nel non spazio (in senso moderno) della globalizzazione, e porta a compimento, con un salto di qualità, le dinamiche spazialmente nichiliste della mobilitazione totale, dei totalitarismi e della guerra totale, già all’opera nella prima metà del XX secolo, e temporaneamente bloccate dalla Guerra fredda.
Il tanto deprecato (allora) bipolarismo Usa-Urss è stato veramente, oggi lo sappiamo, l’ultimo kat’echon, “l’ultima forza” in grado di trattenere l’avvento di un “tempo nuovo”.
Sul piano politico, pensiamo all’azione di Putin volta a rallentare la dinamica del tempo, cristallizzando – attraverso un “Putin per sempre” – l’esistente, cercando di frenare appunto la tendenza declinante del suo Paese.
Ma c’è anche chi coltiva una visione escatologica e vorrebbe accelerare l’avvento dei tempi ultimi, pensiamo agli sciiti o agli evangelici americani.
Al contrario, la strategia cinese, seguendo Sun Tzu, asseconda il tempo e, non imponendo forzature, segue il flusso della storia. E lo vediamo nella continuità d’azione della leadership cinese. Il Covid ha un forte legame col fattore-tempo, dato che in tanti contesti pone di fronte alla realizzazione di cambiamenti strutturali che sarebbero comunque avvenuti, ma con un orizzonte temporale più lungo. Pensiamo alla già richiamata spinta alla digitalizzazione delle nostre società. Si accelera anche l’iperaccumulazione finanziaria e contemporaneamente la necessaria discesa in campo dello Stato come garante del welfare, della coesione sociale, come potere frenante contro gli eccessi, attraverso la ridistribuzione.
Un ordine mondiale dunque che va consolidandosi, in cui il Cremlino gioca in solitaria?
Putin appare una figura aliena rispetto a questo ordine globale. Tra le varie letture che si possono dare, vi è sicuramente il rigetto da parte dell’Occidente di un uomo che – fin dall’inizio (e allora in modo inaspettato) – ha corretto la traiettoria politica ed economica di Boris Eltsin e dei suoi consiglieri liberisti. Vi è poi il dato dell’ideologia putiniana, totalmente antitetica a quella globalista ancor più di quanto lo sia quella cinese. Anzi, Xi Jinping – a Davos – disse che la “globalizzazione è il grande oceano da cui non ci si può ritirare”. La globalizzazione oggi è perfettamente funzionale agli interessi cinesi, anche se Pechino potrebbe – prima o poi – scegliere di staccare la spina.
La Cina, tra le vincitrici della globalizzazione, che sceglie di tornare indietro? Come potrebbe accadere?
Qualora la Cina vedesse, per esempio, all’orizzonte il pericolo di una nuova Tienanmen sono certo che assisteremmo a dei profondi ripensamenti politici. La Cina può essere, su molte questioni autosufficiente, il problema è capire se il mondo può esserlo senza la Cina, come del resto fa notare anche Aldo Giannuli nel suo ultimo saggio.
Siamo partiti parlando di accelerazioni, tecnica, crisi contemporanee. Cosa riserva il futuro al mondo globalizzato?
L’incertezza che ha fatto irruzione nella nostra quotidianità è simile ai mostri metafisici di H.P. Lovecraft che scrive molte delle sue opere in una fase di profonda crisi economica e sociale. E forse non è un caso che i suoi racconti più riusciti e terrificanti anticipino di poco l’inizio della Grande crisi economica del 1929 e accompagnino tutta la sua deflagrante esplosione. Inoltre, proprio dalle pagine di HPL percepiamo che gli scrittori del fantastico sono “in genere” dei reazionari per il semplice fatto che sono professionalmente coscienti dell’esistenza del Male e scorrendo le sue pagine siamo colpiti da una semplice realtà: l’evoluzione del “mondo moderno” ha reso più presenti, ancor più viventi quelle fobie.
Incertezze e paure che le società contemporanee sembrano non saper governare, mentre al contrario gli antichi le avevano interiorizzate nel proprio vivere sociale, inquadrandole in un sistema di valori e credenze, in una visione tragica della Storia.
Il Covid ci costringe a fare i conti con ciò che è eterno e non fugace, come accaduto anche con le grandi pandemie del passato e con i loro narratori (dalla peste ateniese di Tucidide a quella del Manzoni). Siamo tornati a convivere con termini dal sapore antico: “quarantena”, “coprifuoco”, “confinamento”, che rimandano a una dimensione bellica che la nostra società aveva dimenticato.
I romani, i greci erano appunto più strutturati per affrontare queste calamità e – non a caso – apro il mio volume con l’episodio della distruzione di Pompei che è preso dal saggio di Michel Onfray sulla necessità di recuperare lo stoicismo e la saggezza antica.
Abbiamo detto anche del capitalismo politico e delle interessanti riflessioni di Aresu. Aggiungiamo la riscoperta della sicurezza come necessaria precondizione della prosperità: una traiettoria cheguidava l’azione politica di Roma. Nel suo libro (ultra-europeista) Il sogno di Roma l’attuale premier britannico Boris Johnson ne dà un’idea descrivendo l’immagine dell’arco di trionfo come una porta urbica senza mura, ovvero come simbolo di una città che non necessita di bastioni difensivi perché inserita nel cosmo della pax romana,garantita dalle legioni. A ciò si aggiunge la necessità di riscoprire la fiducia nel quadro del sistema economico e internazionale: la risposta sociale alla pandemia può essere trovata seguendo la teoria dei giochi, con il classico paradosso del dilemma del prigioniero. Si vince fidandosi. Ma qui sorge un problema. Le pongo io una domanda: mi sa indicare una rappresentazione positiva o benevola del potere in un romanzo, una serie televisiva o un film occidentale degli ultimi decenni?
Impresa ardua, direi…
Non ce n’è alcuna: il potere, vedasi “House of Cards”, è visto come corrotto e corruttore.
C’è un meccanismo di dialogo tra l’immaginario e la realtà. Come ho scritto in un mio vecchio articolo per Limes – dal titolo Imperi e moltitudini – nel contesto sociale, viviamo da circa quindici anni in un clima culturale “pre-insurrezionale”.
Pensiamo a “V per Vendetta” e a quella maschera usata nei V-Day di Grillo.
Oggi nelle piazze in rivolta c’è il volto di Dalì de “La Casa di Carta”.
Questi sono meccanismi dell’immaginario che hanno una loro influenza e su cui bisogna riflettere. Il dilemma del prigioniero spinge a valorizzare la fiducia dei cittadini nelle istituzioni e delle istituzioni nei cittadini. La realtà è che oggigiorno, quasi nessuno si fida degli altri attori, e soprattutto (e spesso a ragione) è in crisi la fondamentale fiducia verso chi è chiamato a dettare le regole, con le drammatiche conseguenze che sono sotto i nostri occhi.
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