L’attualità del “Solitario di Providence”: Lovecraft tra mito e realtà
L’Osservatorio torna a dialogare con il professor Salvatore Santangelo e lo fa per parlare di un grande protagonista della letteratura e della cultura del Novecento, Howard Philips Lovecraft. Il “Solitario di Providence”, a oltre ottant’anni dalla morte, sta tornando centrale nel dibattito culturale e i suoi racconti, che parlano di orrori profondi, di divinità ancestrali, della profonda incapacità dell’uomo di controllare il pianeta in cui vive, sono frutto di un grande spaesamento personale e della crisi degli anni della Grande Depressione ma parlano, sotto molti punti di vista, anche alla nostra era.
Professor Santangelo, l’impatto culturale di Lovecraft oggigiorno è sempre più incisivo. Anche Rai 2, recentemente, gli ha dedicato un interessante servizio…
Si, e voglio complimentarmi con il collega del Tg2 – Adriano Monti Buzzetti – capace di porre sempre temi complessi in maniera molto intelligente, stimolante e adatta anche a un pubblico non di nicchia. Una qualità rara nel panorama giornalistico contemporaneo.
Ma tornando a Lovecraft, oggi HPL è ovunque, si tratta di un brand potente e pervasivo che dalla cultura underground sta contaminando il mainstream. I suoi personaggi, i suoi dèi, i suoi mostri, la sua pseudogeografia (Sarnath, Miskatonic, Arkham, Innsmouth solo per ricordare alcuni di questi luoghi “infestati”) sono entrati stabilmente nel nostro immaginario: negli scaffali delle librerie, le sue opere sono riproposte in numerose edizioni, le sue citazioni nutrono non solo l’immaginazione di generazioni di imitatori e continuatori, ma anche creazioni culturali che vanno dal fumetto, al videogame, al boardgame fino alla musica, passando per il gioco di ruolo; che tra l’altro è diventato una vera è propria forma di letteratura a se stante (il Richiamo di Cthulhu edito dalla Chaosium è giunto alla sua VII edizione mentre è stata appena realizzata una specifica ambientazione legata ai Grandi Miti pensata per Dungeons&Dragons – volumi entrambi pubblicati in Italia dalla Raven).
Proprio in queste settimane su Netflix è approdato il film Il colore venuto dallo spazio – adattamento cinematografico dell’omonimo racconto (con Nicolas Cage, diretto da Richard Stanley già premiato come miglior lungometraggio nell’ambito del Lovecraft Film Festival).
Qualche anno fa, un team internazionale di ricercatori coordinati dal Museo di storia naturale dell’università di Oxford, ha persino ribattezzato un fossile di 430 milioni di anni fa – rinvenuto nell’Herefordshire (Regno Unito) – Sollasina Cthulhu proprio per la sua somiglianza con l’immagine dell’inquietante mostro lovecraftiano dotato di un’analoga «testa flaccida da polpo, con tentacoli».
Esattamente. Lei, a sua volta, ha scritto a più riprese di Lovecraft, dell’architettura di pensiero che plasmava i suoi racconti e della sua influenza (letteraria e non solo). Perché Lovecraft è un autore così complesso e stimolante?
Oltre tutto ciò a cui abbiamo accennato e forse al di là della sua stessa opera, quello che la maggior parte dei lettori vogliono sapere è qualcosa di più su HPL come individuo e sul suo modo di costruire il suo mondo, di sognare appunto. In quanto esseri umani nati a cavallo tra due secoli materialisti, il suo cosmo disperato ci appartiene in ogni senso e vorremmo appunto far nostra la sua stessa visione del mondo: «Non chiedo mai a un uomo che lavoro fa, non mi interessa. Gli chiedo dei suoi pensieri e soprattutto dei suoi sogni». Perché – come ci insegna la poesia – solo i sogni possono offrirci un’alternativa alla vita, un’opposizione permanente e un permanente rimedio alla vita stessa.
Lovecraft è un autore fondamentale per i miei studi e per il mio approccio analitico: a lui farò esplicitamente riferimento in un volume, su cui sto lavorando – Teatri d’Operazione – dedicato alla dimensione geosofica del mondo: geosofia è un concetto coniato presso l’Università di Berkley da J.K. Wright che rappresenta «lo studio del mondo come le persone lo concepiscono e lo immaginano» (McGreevy 1987).
Sarà un libro in cui parlerò di film, serie Tv e del loro impatto sull’immaginario globale e sulla narrazione geopolitica; con due incursioni nel mondo della letteratura.
Una sarà dedicata all’immaginario dei giochi di ruolo (come dicevamo – secondo il NewYorker – i manuali dei gdr, non solo le ambientazioni, ma anche le regole, sarebbero essi stessi una nuova forma di letteratura) in cui sono “immerse” decine di milioni di persone (e Dungeons&Dragons è riesploso come fenomeno globale dopo Stranger Things), e l’altra, appunto, al ciclo di Cthulhu, di cui nel 2019 si è celebrato il centenario.
101 anni fa, nel novembre del 1919, appare sulla fanzine amatoriale The Vagrant (per essere poi ripubblicato nel ’23 su Weird Tales) il racconto di HPL: Dagon. Questo scritto, la cui prima stesura risale al luglio ’17, scatenerà – nella cerchia degli appassionati – un dibattito che spingerà lo stesso Lovecraft a replicare nel suo In difesa di Dagon (nell’antologia Teoria dell’Orrore, curata da Gianfranco de Turris per Castelvecchi): un testo in cui il solitario di Providence non solo rivendica «la dignità del racconto d’orrore sovrannaturale come forma letteraria», ma indica nella creazione «di stati d’animo e immagini mentali» in grado di catturare «sogni sfuggenti» il compito principale dello scrittore di letteratura fantastica; anzi la vocazione di questo tipo di “narratore” sarebbe proprio quella di «fissare questi stati d’animo», siano essi luminosi o oscuri.
Ormai è assodato che Lovecraft non fu solo un innovativo autore di racconti fantastici, ma anche un acuto teorico della letteratura dell’immaginario, le cui interpretazioni sul “Mondo Secondario” hanno anticipato quelle di Tolkien e di Borges.
Ma torniamo a Dagon, il racconto in cui – per la prima volta – compare una divinità del nuovo pantheon lovecraftiano: «Vasta e ciclopica», alla guida di Quelli-degli-Abissi (Deep one) e a sua volta asservita al grande Cthulhu, l’entità conosciuta come Dagon avrebbe un aspetto vagamente umanoide con «mani e piedi palmati, labbra enormi e mollicce, occhi vitrei e sporgenti e altri tratti ancora più spiacevoli» e passerebbe gran parte del suo tempo a dormire in un crepaccio sul fondo dell’Oceano sotto strati di fango, emergendo soltanto per presenziare ai riti che in suo onore vengono officiati dai Deep one o da umani degenerati. Il culto di Dagon esisterebbe da millenni ed è anche il protagonista dell’altro racconto di HPL, La maschera di Innsmouth.
Con Dagon – secondo Michel Houllebecq – sfioreremmo per la prima volta il cuore più profondo della creazione di Lovecraft, quella del corpus che prenderà definitivamente il via con il Richiamo di Cthulhu (1926) e che ci fa entrare in «una gigantesca macchina per sognare, una macchina di grandezza ed efficacia inaudite».
Proprio per questo, per gli esegeti di HPL, dalla data delle prima pubblicazione di Dagon andrebbero conteggiati i 100 anni dei Miti di Cthulhu che, assieme alla creazione del più famoso libro inesistente -il Necronomicon – hanno portato Lovecraft a rivoluzionare la narrativa dell’orrore modificandone canoni e punti di vista.
Tra l’altro, sempre nel ’19 Lovecraft scriverà La dichiarazione di Randolph Carter, in cui appare un personaggio -Randolph Carter appunto – che sarà il protagonista di un successivo, intero Ciclo di racconti e romanzi brevi (di ambientazione onirica, come la Chiave d’Argento e Alla ricerca del misterioso Kadath), e – nella cronologia parallela dell’universo lovecraftiano – è anche l’anno che darà l’avvio alle drammatiche vicende narrate nel romanzo Lo strano caso di Charles Dexter Ward.
In questa letteratura – ammonisce sempre Houllebecq – «non vi è nulla di distaccato né di discreto; l’impatto sulla coscienza del lettore è di una brutalità selvaggia e spaventosa, e si attutisce solo con infinita lentezza. Dedicarsi a una rilettura non produce alcun cambiamento significativo, a parte arrivare a chiedersi: come fa?».
Forse non è un caso che i racconti del Ciclo anticipino di poco l’inizio della Grande crisi economica del 1929 e accompagnino tutta la sua deflagrante esplosione.
Una questione comune a molti autori come John Steinbeck, un altro cantore dell’America della crisi. Lovecraft è in un certo senso assimilabile a quest’ultimo?
Si e no. Come ha affermato Jacques Bergier: «Forse per apprezzare Lovecraft occorre aver molto sofferto». La radice di questo dolore lovecraftiano affonda nella ricerca del proprio posto nel mondo, nella disperazione nichilista che scaturisce da ogni materialismo, il tutto alimentato – come ci ricorda sempre Houellebecq nel suo saggio sul Solitario di Providence,“Contro il mondo, contro la vita” – lo svuotamento (tema attualissimo) della propria componente culturale – quella Wasp – in un orizzonte multietnico.
A un secolo di distanza, quindi, c’è differenza tra i personaggi “spaesati” dell’America profonda di Steinbeck e l’isolamento di Lovecraft, specie quello da lui vissuto dopo il trasferimento dal Rhode Island a New York?
Aggiungerei anche Faulkner: l’uomo dimenticato e sconfitto dalla crisi esprime sicuramente un disagio, ma Lovecraft resta, come detto prima, un Wasp, un bostoniano puro estremamente diverso dall’esponente tipico dell’America rurale. Lo spaesamento di Lovecraft è quello di un esponente di una delle due Americhe che si sono combattute nella Guerra degli Stati di metà Ottocento. Una conflittualità non sanata dopo la fine della schiavitù e del conflitto ma che anzi, come riconobbe il Generale (e poi presidente) Grant le guerre imperiali e d’aggressione (le sue critiche all’invasione del Messico erano state durissime) avrebbero potuto ancor più amplificare, compromettendo l’anima stessa degli States.
La linea che separava gli Stati schiavisti del Sud, aristocratici e rurale, dal Nord, bostoniani e industriali, e che franò durante la corsa verso il West, in un certo senso plasmò due Americhe diverse a cui si aggiunse quella “profonda” di Steinbeck come terzo pilastro.
Lovecraft si sentì sempre rappresentante dell’anima bianca, anglo-sassone e protestante degli Stati del Nord, che mantenevano un legame profondo con la madrepatria anglosassone, tanto che esistono suoi auto-ritratti (autoironici) in cui si rappresentava con la parrucca come un suddito di Sua Maestà.
Steinbeck dà voce invece all’America profonda, terra di competizione tra le due anime originarie e alla nuova categoria dei coltivatori liberi, i free soiler. Oggi le paure di quell’America si saldano, in un certo senso, con quelle di Lovecraft. Ma esistenzialmente ai tempi della Grande Depressione parliamo di paure diverse: in Steinbeck quella degli ultimi, in Lovecraft quella dell’esponente dell’antico ceppo Wasp che teme la marginalizzazione. Non dimentichiamo la grande lezione di De Felice che pone la paura del declassamento sociale come una delle matrici culturali del Fascismo storico.
Molto discussa, nella tematica del pensiero di Lovecraft, è stata la questione etnica. Può contestualizzarla, date le diverse critiche giunte all’autore sul suo presunto “razzismo”?
La questione etnica è indubbiamente presente in Lovecraft, in una maniera però paragonabile a quella che Huntington ha sintetizzato nel suo testamento politico Chi siamo noi?
In un’America in cui le rivendicazioni afroamericane (giustamente) aumentano, gli immigrati latini attraversano il confine e quelli in patria hanno tassi di fecondità più alti, i trend demografici e sociali disegnano una nuova America. In maniera analoga – cento anni prima – Lovecraft si chiedeva se un’America non più centrata sulla matrice Wasp sarebbe stata la stessa.
La paura e l’orrore attraversano come un continuum l’opera di Lovecraft. Parafrasando i suoi discorsi sui diversi tempi della storia, è come se esistessero paure ancestrali, che pre-esistono all’uomo, e paure proprie di ogni epoca. Come si coniugano questi discorsi?
Dalle pagine di HPL percepiamo he gli scrittori del fantastico sono “in genere” dei reazionari per il semplice fatto che sono professionalmente coscienti dell’esistenza del Male e scorrendo le sue pagine siamo colpiti da una semplice realtà: l’evoluzione del “mondo moderno” ha reso più presenti, ancor più viventi le fobie lovecraftiane. Lo smalto della civiltà si screpola; le forze del caos aspettano «con somma pazienza e somma potenza» perché sanno che torneranno a regnare sulla Terra. E, più in profondità rispetto alla riflessione sulla decadenza, ci sono appunto il dolore nutrito dalla paura: paura che viene da lontano e produce disgusto, che a sua volta genera indignazione e quindi odio. Un odio a cui non si riesce a trovare un antidoto. Aggiungerei che c’è un ulteriore aspetto in cui queste paure si sommano: la paura per l’ignoto e il dilemma sull’effettiva conoscenza del pianeta da parte dell’uomo. Lo vediamo in racconti come Alle montagne della follia o in storie di viaggi in terre sperdute riproposte spesso da Lovecraft, che anticipano una tensione della globalizzazione, ovvero l’illusione di poter illuminare e dominare tutti gli angoli del mondo con le reti di conoscenza e il sapere scientifico, illusione che si scontra spesso con la mancanza di un ancoraggio, di reali coordinate fisiche ed esistenziali.
Questo tema, che in Lovecraft si manifesta attraverso le figure dei “Grandi Antichi”, ci pone una domanda: che rapporto ha Lovecraft con un sapere esoterico di matrice teosofica? È con la Teosofia che si potrebbe spiegare la visione del mondo dell’autore?
Sul tema ricordo il saggio Lovecraft e l’altra realtà di de Turris e Fusco: non ci sono prove certe dell’adesione di Lovecraft alla tradizione teosofica. Epigoni e successori di Lovecraft come Clark Ashton Smith inquadrarono però in una cornice teosofica l’eredità dell’autore, utilizzando in racconti e storie temi che rimandavano, per esempio, al mito di Atlantide. Introducendo nell’universo lovecraftiano un discorso teosofico e la credenza nell’alternanza di grandi cicli storici di fronte a cui la nostra civiltà appare come una sorta di epifenomeno.
Del resto, anche nei racconti del Solitario, come non notare l’assonanza tra la città sommersa di R’lyeh e il continente scomparso di Mu della mitologia?
È così. Lovecraft spesso utilizza il tema del luogo sperduto, lontano dalle rotte della civiltà.
Il Sud America, ad esempio, è luogo di elezione di molte sue ambientazioni. Non dimentichiamo che spesso la realtà supera qualsiasi fantasia, del resto: recente è la notizia della scoperta, in Perù, di raffinatissime incisioni rupestri risalenti a 13mila anni fa. Un lasso di tempo superiore di tre, quattro volte l’intera storia dinastica dell’Egitto e che inizia proprio in quell’epoca è stata definita in un saggio delle Goriziane come i Diecimila anni perduti. Anche uno degli storici odierni più acclamati – Harari – si è interrogato su quanto questi 10mila anni perduti ancora impattino sulla coscienza collettiva dell’umanità. Da storico delle idee, vorrei sottolineare che Evola ein particolare Guenon notaronocomeogni epoca ha il suo Zeitgeist, il proprio spirito del tempo. A cavallo tra l’Otto e il Novecento la cultura teosofica di Madame Blavatsky, dell’Ordo Templis Orientis e via dicendo apparve, a mio parere, come funzionale all’ideologia imperiale inglese, per giustificare la cooptazione nell’amministrazione coloniale di componenti consistenti delle locali classi dirigenti indiane, che si sarebbero sentite escluse – per il loro collaborazionismo – dal tradizionale sistema castale indiano e cui fu data, in cambio, una posticcia visione del mondo simile a quella induista, da cui erano, ora, esclusi. Pensiamo alla trasmigrazione delle anime, all’origine polare dei mitici ariani, all’alternanza di epoche simile a quella proposta dai Veda. Ma se nella visione tradizionale il tempo della storia è una caduta – come ritengono Evola e Guenon – verso il caos del Kali Yuga, in quella teosofica si perora una serie di cicli di progresso. La cultura esoterica può apparire relegata ai margini, ma come ha dimostrato un grande storico come Giorgio Galli essa ha sempre un’influenza, silenziosa e sotterranea, sulla nostra realtà.
Per concludere, vorremmo chiederle un commento sul frequente scadimento del discorso dell’orrore portato avanti da Lovecraft nel genere letterario “horror”. È necessario salvare Lovecraft dall’horror?
A tal proposito consiglio di leggere David P. Goldman, un raffinato analista (è lui lo Spengler di Asia Times) che si è occupato di immaginario; ha difeso Tolkien come antidoto a Wagner e come portatore (a differenza di Star Wars e di Harry Potter) di un’epica mobilitante in grado di immettere energie positive nel contesto sociale. Ha scritto molto e (per me) in modo molto convincente sui pericoli della sovraesposizione dei pubblici alla pornografia, alla violenza, che secondo lui sarebbero dei veri e propri veleni che individualmente e collettivamente vengono inconsciamente e inconsapevolmente assimilati con drammatiche conseguenze.
Tornando a Lovecraft – scrivendo tra il 1918 e il 1937 – egli andato incontro alla crisi economico-sociale della Depressione, aveva vissuto in un ambiente gretto (il puritanesimo della Nuova Inghilterra) o convulso e anonimo delle grandi metropoli (Boston e NY), aveva conosciuto delusioni familiari, finanziarie, matrimoniali.
A tutto questo – lui che non era certo un “uomo d’azione” – aveva reagito corazzando il suo Io, in un modo logico e insieme fuori dal comune: «Sono uno che odia l’attualità; sono un nemico del tempo e dello spazio, della legge e della necessità. Sogno un mondo di mistero gigantesco e affascinante, di splendore e terrore, nel quale non vi siano altri limiti se non quelli della libera immaginazione». Nel contestare la sua epoca Lovecraft opponeva l’individuo alla massa anonima, la campagna alla città, la provincia alla metropoli, il sogno alla realtà, il passato al presente, la cultura all’ignoranza, l’arte alla politica. Da qui la sua personale sequenza: la preminenza dell’estetica sulla storia per giudicare i popoli; del gusto artistico sul senso pratico per giudicare il comportamento sociale dell’individuo; del sogno e del mito sul reale, per giudicare le motivazioni intellettuali del singolo. I suoi “mostri”, il suo pantheon orrorifico, così pesantemente materici, da un lato si scatenano contro una società che egli odia e da cui si sente estraneo; dall’altro scardinando l’Io individuale, effettuando una sorta di tabula rasa predispongono singoli e collettività a una sorta di rigenerazione.
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